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Incostituzionalità del reato di aiuto al suicidio: breve nota sulla pronunzia del Giudice costituzionale tedesco

Lavoro
Lavoro

“cum vero aliquis agit quod in bonum proprium vel malum vergit […]

licet non debeatur ei retributio inquantum est bonum vel malum singularis personae,

quae est eadem agenti, nisi forte a seipso secundum quandam

similitudinem, prout est iustitia hominis ad seipsum”

(San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I – II, Q. 21, a. 3)

 

 

1. Il fatto, il «punto», la questione: alcuni brevi chiarimenti[1]

Come è noto lo scorso 26 Febbraio il Bundesverfassungsgereicht ha dichiarata l’illegittimità costituzionale del § 217 del Codice penale tedesco (Strafgesetzbuch), il quale incriminava la geschäftsmäßige Förderung der Selbsttötung, sul presupposto che la disposizione in parola sarebbe stata lesiva del diritto di autodeterminazione della persona, così come esso è ricavabile e declinabile in base al combinato disposto tra gli artt. 1 et 2 del Grundgesetz, a mente dei quali, infatti, “die Würde des Menschen ist unantastbar. Sie zu achten und zu schützen ist Verpflichtung aller staatlichen Gewalt” (art. 1 co. I) e “Jeder hat das Recht auf die freie Entfaltung seiner Persönlichkeit” (art. 2 co. I).

Ciò significa – semplificando il discorso – che secondo la Legge fondamentale tedesca la dignità dell’uomo, cui lo Stato deve ossequio e protezione, si invera nel di lui diritto al libero sviluppo della propria personalità, eppertanto essa si sostanzia… nella sua autodeterminazione assoluta del velle in re propria[2]; nell’esercizio incondizionato, quindi, di quella che Danilo Castellano chiama libertà negativa, ovverosia della libertà esercitata col solo criterio della volontà, eppertanto senza criterio alcuno[3], ma col limite del rispetto esterno di un «recinto» individuale, di un «argine» amministrativo posto dallo Stato-arbitro, necessario e inevitabile, data la (mera) vicinanza geografica degli individui tra loro, la libertà di ciascheduno dei quali termina laddove principia (per esempio secondo le tesi kantiane[4]) quella altrui.

La norma de qua, allora, punendo chiunque agevolasse in forma lato sensu organizzata (si potrebbe dire, sotto un certo profilo, imprenditoriale) l’altrui suicidio, di fatto sottraeva all’aspirante suicida un amplio spettro di possibilità operative per la realizzazione del suo proponimento, quantomeno quelle dipendenti, direttamente o indirettamente, da una struttura tecnico-sanitaria preposta alla pratica «delle eutanasie»[5]. E in questo modo veniva conculcato, per legge, il di lui «diritto» alla morte autodeterminata e conseguentemente… la di lui dignità nel morire.

La norma, cioè – ecco il «ragionamento» del Giudice – ledeva l’aspirante suicida nel suo «diritto» di scegliere, autodeterminandosi liberamente in ordine alla propria vita, o per meglio dire in ordine al quomodo della propria morte, una modalità di realizzazione del proprio personale intento suicidiario, da lui ritenuta degna o addirittura espressione della sua dignità, la quale richiedesse la collaborazione lato sensu professionale di altri.

Praticamente – ecco il punto – egli era leso nel «diritto» di accedere a una struttura sanitaria, nella quale gli venisse fornita un’assistenza tecnicamente «qualificata» al suicidio sia attraverso la erogazione dei mezzi all’uopo necessarii, sia attraverso l’approntamento delle procedure richieste, qualora – ovviamente – egli avesse ritenuto per sé preferibile tale modalità di suicidio, in conformità alla sua personale e contingente concezione della propria dignità...

Né può dirsi – osserva coerentemente il Giudice – che tale vulnus, tale impedimento normativo, sia concettualmente e praticamente colmabile per effetto del secondo comma del citato § 217 StGB, in quanto la non-punibilità che esso prevede per l’ipotesi nella quale l’aiuto all’aspirante suicida sia prestato, pietatis causa, in forma «occasionale» e dai di lui congiunti, non esaurisce ex se lo spettro delle possibili forme nelle quali l’autodeterminazione soggettiva può concretamente esplicarsi in materia di modalità e di preferenze suicidiarie. Si tratta, insomma, di una regolamentazione, sia pure estrinseca e parziale dell’aiuto al suicidio, la quale invera di per sé stessa un limite rispetto alle modalità attuative di questo, e dunque un’ingerenza in rebus privatis dello Stato lesiva del «diritto» all’autodeterminazione assoluta (del velle).

Il punctum dolens, infatti, non è rappresentato dall’affermazione di un generale «diritto» al suicidio – dato per scontato nell’Ordinamento tedesco – e nemmeno esso è rappresentato dalla concettualizzazione di un più precipuo «diritto» di aiutare l’aspirante suicida, quale analogato del «diritto» dell’aspirante suicida a ricevere aiuto, ma è segnatamente rappresentato – si badi bene – dal «diritto» di decidere, oltre all’an e al quando del proprio suicidio, anche, compiutamente ed esaustivamente, il suo quomodo concreto in modo del tutto incondizionato (dall’Ordinamento). Di talché l’Ordinamento positivo che ne impedisse anche una sola modalità attuativa – come per esempio quella contemplata dal citato § 217 StGB e consistente nella professionalità lato sensu intesa del «servizio» – di fatto conculcherebbe in modo immediato e diretto il «diritto» alla piena e libera (recte, assoluta) autodeterminazione dell’individuo, con un’ingerenza indebita nella di lui vita privata e familiare (per usare l’espressione dell’art. 8 C.E.D.U.), la quale sarebbe ex se ostativa rispetto al libero sviluppo della sua personalità e dunque… lesiva della di lui dignità ↔ autodeterminazione (intesa sempre giusta il combinato disposto tra gli artt. 1 et 2 del Grundgesetz)[6].

Sotto questo rispetto, allora, dato l’inscindibile trinomio personalità-dignità-autodeterminazione, l’individuo cui lo Stato impedisse di accedere a una struttura organizzata per la pratica dell’assistenza al suicidio, sarebbe inevitabilmente leso nella sua dignità di soggetto auto-volente-si, vale a dire che egli sarebbe leso nella sua dignità intesa non già come valore in sé della persona e come proprium della sua natura di soggetto, quanto piuttosto in guisa di personalità liberamente (recte, assolutamente e insindacabilmente) sviluppabile[7], in guisa, dunque, di personalità in fieri, sviluppabile, e quindi autodeterminante-si, anche attraverso l’atto di auto-negazione e anche attraverso l’auto-decisione relativa alle modalità attuative dello stesso.

La pronunzia in parola, allora, – come fa osservare anche Donini[8] – corregge una stortura, un’incoerenza interna all’Ordinamento penale tedesco, la quale ha rappresentato l’effetto di una recente novazione legislativa entrata in vigore solo nel 2015 poiché “l’aumento dei casi di suicidio, insieme con la più recente offerta d’istituti sanitari privati che professionalmente gestivano forme di suicidio assistito […], hanno indotto il Governo (e quindi il Parlamento) tedesco a introdurre una forte delimitazione legale della non punibilità dell’aiuto al suicidio”[9]. Sì, perché la modifica in parola è intervenuta all’interno di un “ordinamento come quello tedesco, dove da sempre il codice penale prevede la liceità dell’aiuto al suicidio”[10], tant’è vero che anche il secondo comma del citato § 217 StGB, pur dopo la sua novazione, cura di stabilire che “Als Teilnehmer bleibt straffrei, wer selbst nicht geschäftsmäßig handelt und entweder Angehöriger des in Absatz 1 genannten anderen ist oder diesem nahesteht”, così espressamente escludendo la punibilità di colui il quale aiuti e assecondi l’aspirante suicida qualora, essendogli congiunto, egli non operi «professionalmente».

Alla luce di un tanto, dunque, ciò che suscita una certa perplessità in punto di coerenza interna al Sistema, e dunque in punto di teoria del diritto (penale tedesco), non è l’intervento del Giudice costituzionale che ha espunta dall’Ordinamento una norma impeditiva dell’autodeterminazione volontaristica con riguardo alle opzioni concernenti le modalità del proprio suicidio, e nemmeno è l’assenza, in tale pronunzia, di limiti, criterii e condizioni per l’esercizio del medesimo «diritto» – elementi i quali, per esempio, la Corte costituzionale italiana non ha omesso di indicare in sede di decisione sul c.d. caso Cappato[11] – ma è piuttosto rappresentato dal mancato intervento dello stesso Tribunale (fino a questo momento, almeno) «contro» il disposto del § 216 StGB, rubricato Tötung auf Verlangen, il quale ancora conserva la punibilità dell’omicidio del consenziente.

Coerentemente, infatti, anche questa norma dovrebbe essere espunta dall’Ordinamento, giacché, come quella sub § 217 co. I StGB – incostituzionale – anch’essa limita e conculca l’autodeterminazione subiettiva in ordine alle modalità della propria morte, e ciò, proprio impedendo a colui il quale desiderasse di essere ucciso e a colui il quale volesse assecondarlo, di portare a compimento, liberamente, i reciproci e convergenti intendimenti subbiettivi.

 

2. Autodeterminazione et/aut dignità: annihilimento del diritto soggettivo nel diritto volitivo. Un cenno

Sul tema della dignità umana e dell’autodeterminazione soggettiva non un breve saggio, ma nemmeno un amplio trattato potrebbe compiutamente esaurire lo studio e l’analisi delle innumeri questioni che necessariamente emergerebbero, a cominciare dal (prodromico) concetto di persona[12], dalla natura della libertà umana, dall’ontologia del soggetto, dal valore e dal significato della dignità stessa, delle sue declinazioni et coetera.

Non sarà, allora, questo modesto contributo ad avere la pretesa di affrontare una così amplia e complessa questione teoretica. Piuttosto, sul «problema dignità»[13], ci limiteremo a una brevissima osservazione, preliminare rispetto alle considerazioni con le quali chiuderemo il nostro intervento e conseguente rispetto a quanto supra esposto.

Un tanto – si badi – anche perché, come condivisibilmente osserva Zagrebelsky, confrontando la recente pronunzia del Tribunale costituzionale tedesco con quella italiana sul c.d. caso Cappato, in ambedue “il riferimento [corretto (nda)] è il diritto alla autodeterminazione, non la dignità” [14] in quanto tale.

L’osservazione di Zagrebelsky – lo ammettiamo – si presta a commenti e anche a censure per diverse ragioni, alcune delle quali tosto faremo emergere anche in questa sede, ma se essa venisse considerata per il solo dato «autoptico» che riporta superficialmente, non potrebbe negarsi che essa medesima colga un aspetto significativo e anzi decisivo rispetto alla questione affrontata dal Giudice (sia da quello italiano, sia da quello tedesco, anche se – invero – in modi vieppiù differenti e con conclusioni accidentalmente diverse, cioè diverse per aspetti accidentali, i quali, sovrattutto nel caso italiano, rappresentano vere e proprie contraddizioni «felici»).

Che poi l’Autore arrivi a conchiudere il proprio ragionamento con una contraddictio in adiecto, secondo la quale “il primo, [cioè il diritto di autodeterminazione (nda)], è un aspetto della seconda”[15], cioè della dignità, ciò è pur vero. Un tanto, però, non smentisce né la primazia concettuale del c.d. diritto all’autodeterminazione assoluta, né la dipendenza, da questo, del paradigma post-moderno della dignità umana.

Dopotutto, infatti, tale conclusione concettualmente contraddittoria (ma non troppo…) rappresenta il portato – potremmo dire – endemico e sub-cosciente dell’ipoteca liberal-radical-personalistica la quale annihilia l’essenza del soggetto nella sua libertà negativa e finalmente nel contenuto della sua volontà heideggerianamente autentica, quindi… nella sua stessa autodeterminazione volontaristico-vitalistica, la quale, a sua volta, è sì “aspetto” della dignità, ma alla sola (!) condizione di concepire la dignità stessa come (mera) «potenza del volere», e alla sola condizione di ridurla, alla fine – possiamo concludere anche riprendendo le tesi nussbaumiane –, a un (rectius, al) «presupposto funzionale» del soggetto, alla sua “capacità di funzionamento”[16], giacché, appunto, “il senso del valore e della dignità delle facoltà umane fondamentali [… è concepito (nda)] in termini di pretese della possibilità di funzionare”[17], secondo il movimento attuale della volontà auto-voluta e auto-volentesi dell’individuo.

Di talché, a bene intendere le cose, in siffatto contesto ideologico è l’autodeterminazione che costituisce, fonda e qualifica – misura, potrebbe anche dirsi – la dignità, e non invece la dignità che condiziona e regola il modo dell’autodeterminazione, come dovrebbe viceversa essere secondo i principii della ragione naturale e della filosofia classica.

E se poi l’affermazione positivo-normativa della prima, così concepita, cioè della dignità del velle, implica in posito iure la trasformazione normativo-legale di un coacervo di pretese individuali in altrettanti «diritti» soggettivi[18]recte: volitivi –, ciò non significa affatto che i diritti dipendano e siano normati e regolati dalla dignità del soggetto e dalla di lui natura di persona, ma significa all’inverso che essi ne rappresentano, in un tempo, sia il costitutivo concettuale, la sostanza; sia, sovrattutto – questo è il punctum dolens –, il formante normativo-positivo, eppertanto il contenuto legale della dignità medesima: il che cosa significa e il che cosa comporta essere degno e avere dignità in e per un dato Ordinamento.

Il tutto, ovviamente, misurato non già sotto il profilo qualitativo del «chi è il soggetto?” e del «perché egli ha dignità?», ma solamente sotto il profilo quantitativo del «che cosa il soggetto può fare?» e del «come egli può legalmente esercitare la propria libertà negativa?». E con tanto – ça va sans dire – si conchiude, perfetto, il circolo positivistico che tutto fa dipendere, la dignità compresa (anzi, in primis), dalla norma vigente, qualunque ne sia il contenuto   

Il punto di riferimento delle citate pronunzie, il loro ubi consistam, infatti – più palese, per verità, in quella tedesca – non alberga immediatamente nella dignità umana, nel problema della dignità dell’uomo[19], pur essendo, essa, citata e considerata come a priori concettuale, quanto piuttosto esso risiede – qui Zagrebelsky ha ragione – nel «diritto» umano (umano, non dell’uomo, secondo l’attenta distinzione di Castellano[20]) all’autodeterminazione assoluta del velle in re propria, quale formante concettuale e quale costitutivo essenziale della dignità medesima, onde questa – come abbiamo testé detto – viene a dipendere da quello e dal modus della sua ampliezza operativa.

Il citato diritto all’assoluta autodeterminazione del velle, infatti, nel suo essere strumento normativo pel libero sviluppo della personalità[21], nel suo essere, quindi, coacervo di facultates agendi anche negativamente desumibili dal sistema dello ius positum e spesso «favorite» dallo stesso, rappresenta il punto archimedeo dell’intiero compendio logico-argomentativo che sta alla base del «ragionamento» fatto dal Giudice e anzi, a ben intendere le cose, esso segnatamente rappresenta il canone ermeneutico per lo stesso «concetto» di dignità fatto proprio dall’Ordinamento costituzionale e nondimeno il formante ideologico delle stesse rationes che lo sorreggono.

Invero si può quivi agevolmente riprendere la lezione di Danilo Castellano sui diritti umani, del quale il citato «diritto» all’autodeterminazione del velle ne è, in un tempo, riferimento archetipico e campione indiscusso, e osservare che essi “come storicamente nati e poi affermatisi, tendono sì a salvaguardare la ʽdignità della personaʼ ma questa è generalmente concepita [anziché come dignità dell’essere persona-soggetto (nda)] come sola libertà, come libertà negativa”[22] che l’individuo può esercitare senza criterio alcuno.

Alla luce di quanto cennato, allora – molto altro sarebbe ancora da dire –, possiamo ritenere che la domanda decisiva e conclusiva si indirizzi, in un certo senso, verso i seguenti interrogativi: quale è il «diritto» di autodeterminazione che sottostà alle pronunzie in parola? Come ne viene modulata, in questo caso, la conformazione ordinamentale-positiva? Che cosa sta a significare questo assetto normativo-giurisprudenziale?

Ebbene, le risposte, da un lato richiederebbero altrettante monografie e dall’altro, paradossalmente, esse potrebbero anche essere omesse, ai fini di questa breve analisi, risultano vieppiù chiara la linea concettuale fino a questo punto sostenuta.

Ci limiteremo, allora, a un’osservazione conclusiva «di fondo», forse non superflua anche se senz’altro insufficiente. Due, infatti, sono gli aspetti che a nostro avviso emergono dai casi mentovati: uno concerne la debolezza strutturale e la contraddittorietà interna del Sistema, l’altro riguarda la doppia illusione propria di «conquiste» le quali, da un certo punto di vista, interno, sono mutilate, e da un altro, esterno, sono mere concessioni.

Per quanto concerne il primo aspetto, ovverosia la debolezza del Sistema, non si può non rilevare come esso, «includendo»[23] i cc.dd. nuovi diritti e facendone proprie le rationes, in verità non riesca mai a portarle a pieno compimento: nel c.d. caso Cappato, per esempio, la Corte costituzionale italiana, dichiarando l’illegittimità del reato di aiuto al suicidio, ha sì affermato il diritto all’eutanasia, ma nel farlo essa stessa ha così compiutamente arginata e regimentata la sfera di non punibilità dell’aiuto medesimo (facendo riferimento, peraltro, alla legge ordinaria in materia di disposizioni anticipate di trattamento), che di fatto ha contraddetto il «principio liberal-radicale» dalla quale essa è partita, consistente nel «diritto» di disporre in modo libero (id est, incondizionato) della propria vita. Tant’è vero che l’aiuto non punibile in virtù della mentovata sentenza è solo quello «qualificato», cioè esso è solo quello fornito dal personale di una struttura sanitaria e solo a certe, precipue, condizioni. Non gli altri!

Nel caso tedesco, invece – altro esempio – se è vero che il Giudice è stato più coerente e non ha effettuata una simile actio finium regundorum in materia di depenalizzazione dell’aiuto al suicidio, con la sua Giurisprudenza, però, esso non ha mai censurata la consimile fattispecie di reato consistente nell’omicidio del consenziente, così di fatto negando questa possibilità di esercizio del «diritto» all’autodeterminazione sulla propria vita, ovverosia, anche in questo caso, il presupposto dal quale era partito.

È chiaro allora – ma lo stesso discorso può farsi per tutti (o quasi) i cc.dd. nuovi diritti – che si tratti necessariamente di «conquiste mutilate», di affermazioni in posito iure, cioè, imperfette dell’archetipo di riferimento consistente nel «diritto» all’assoluta autodeterminazione del velle in re propria.

Ma al di là di questo rilievo, evidentemente «prigioniero» del punto di vista, della prospettiva, liberal-radicale dei «diritti» de quibus, un’altra questione merita di essere ancora segnalata, anche se solo con un cenno: proprio la «mutilazione» di questi cc.dd. nuovi diritti, la loro conformazione, il loro arginamento legale, il modo e i tempi del loro «ingresso» in posto iure, lo spettro applicativo degli stessi et coetera, infatti, dimostrano sia che dal positivismo e dalle sue strutture non si è affatto usciti, onde diritti precedenti o diversi da quelli positivi né possono essere vantati o esercitati come tali (cioè come facultas agendi ex norma agendi), né essi possono trovare tutela alcuna – d’onde una conferma del positivismo stesso –; sia che, in fondo, anche i cc.dd. nuovi diritti – sovrattutto i cc.dd. nuovi diritti, possiamo dire – non escono, ma nascono da quello che ancora Zagrebelsky ha chiamato il “mercato delle leggi”[24], nell’ambito del quale lo Stato-Istituzione da un lato diviene il «luogo» del conflitto, il «luogo» all’interno del quale il conflitto si è stabilito e ha assunto una particolare foggia e dall’altro si trasforma nel mezzo per assecondare le pretese dei gruppi lobbystici di maggiore forza e influenza a scapito di quelli meno o meno efficacemente «rappresentati», che poi questo giuoco di concessioni e limitazioni rientri nelle tecniche costituzionalistiche del c.d. bilanciamento, essa è una diversa questione, concernente non solo il metodo, ma sovrattutto la sostanza delle cc.dd. guarentigie costituzionali.

 

[1] Il presente contributo riprende, con alcune modifiche, un saggio recentemente pubblicato, in lingua francese, in Francia. Cfr. R. Di Marco, Le suicide commercialement assisté comme droit humain. Bref commentaire d’une décision récente, in Catholica, Parigi, Catholica, 2020, № 149, pp. 36 – 46.

[2] Facciamo rinvio alla «nostra» distinzione tra autodeterminazione del velle e autodeterminazione dell’esse. Una disamina del problema può essere rinvenuta – si vis – in un nostro lavoro organico sul tema. Cfr. R. Di Marco, Autodeterminazione e diritto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017, in particolare cap. I.

[3] L’Autore infatti osserva che la ʽlibertad negativaʼ es aquélla que pretende poder ser ejercida con el solo criterio de la libertad, esto es, con ningùn criterio” (B. Montejano, Reportaje a Danilo Castellano, in Centuriòn, Octubre – Noviembre 2014, Buenos Aires, Marcelo H. Loberto, 2014, p. 18) e coerentemente fa rilevare che la libertad liberal es […] esencialmente reivindicación de una indipendencia del orden de las cosas, esto es, del ‹dato› ontológico de la creación y, en el límite, independencia de sí mismo. Aquélla […] reivindica […] la soberanía de la voluntad […]. De ahí la reivindicación de las llamadas libertades ‹concretas›” (D. Castellano, La tradición política católica frente a las ideologías revolucionarias, Madrid, Consejo de Estudios Hispánicos Felipe II – Colección De Regno, 2019, pp. 94 e s.).

[4] Non a caso, infatti, per Kant il diritto rappresenta lo “insieme delle condizioni [ovviamente negative (nda)] per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio dell’altro” (I. Kant, Metafisica dei costumi, in N. Bobbio – L. Firpo – V. Mathieu (a cura di), Scritti politici di filosofia della storia e del diritto, Torino, U.T.E.T., 1965, p. 407).

[5] Il plurale è volutamente evidenziato dai cc.dd. caporali. Esso vuole indicare un duplice aspetto, spesso non adeguatamente inteso o artatamente trascurato, cui in questa sede solo possiamo fare un brevissimo cenno. Premesso, infatti, che l’eutanasia, qualunque sia la sua forma, sotto il profilo della sua obiettività giuridica, altro non è se non un omicidio (eventualmente del consenziente), concretandosi essa nel provocare la morte di un essere umano (eventualmente su sua richiesta) e che, dunque, sotto questo primo essenziale profilo, l’eutanasia andrebbe necessariamente declinata al singolare, è pur vero che la sua pratica può concretarsi in una pluralità di formae e di figurae distinte, le quali legittimano sì il plurale, ma alla sola condizione di non confondere l’accidente della modalità operativa con la sostanza dell’evento omicidiario. Laura Palazzani, per esempio, considerando i «motivi» del gesto eutanasico e le condizioni nelle quali esso viene praticato, condivisibilmente rileva che “si potrebbe definire l’eutanasia quella azione […] o omissione […] che, per sua natura e nelle sue intenzioni, procura anticipatamente la morte dell’essere umano rispetto al decorso naturale della malattia, allo scopo di alleviare le sofferenze” (L. Palazzani, Dalla bio-etica alla tecno-etica: nuove sfide al diritto, Torino, Giappichelli, 2017, p. 189). Come a dire – osserviamo noi – che si tratta di un particolare tipo di omicidio, circostanziato da due elementi fattuali: il movente lato sensu palliativo, e più correttamente dovremmo dire pietistico, intendendo però la «pietà» in senso utilitaristico, e cioè nell’ottica della c.d. qualità della vita come metro per giudicare del suo valore (id est, della sua utilità-dignità), e l’attualità di una patologia con prognosi infausta. Le differenti figurae di eutanasia, allora – e quindi potremmo anche dire le diverse eutanasie, al plurale – si discernono per le varie modalità operative attraverso le quali esse vengono di fatto praticate, ma, oltre a questo aspetto lato sensu operativo, rileva che esse tutte dànno conto della loro granitica unità sostantiva. Se è vero, infatti, che diverso è il modo commissivo da quello omissivo, come diverso è il dolo eventuale da quello diretto, onde altro è provocare attivamente la morte di qualcheduno (per esempio interrompendogli la somministrazione di un sostegno vitale) e altro è omettere di fare quanto necessario per salvargli la vita essendo in istato di c.d. posizione di garanzia (per esempio omettendo una cura salva-vita, omettendo di alimentarlo, ventilarlo o idratarlo et coetera), come altro è somministrare un veleno per uccidere e altro è utilizzare un farmaco lato sensu analgesico accettando coscientemente il rischio concreto e attuale che esso possa provocare la morte del paziente, ciò non toglie che in tutti questi casi rilevi, eloquentissimo, un unico dato, vale a dire quello in virtù del quale vi è sempre e comunque una azione o una omissione eziologicamente idonea a provocare la morte di un essere umano. Tertium non datur.    

[6] Il problema della dignità umana intesa come libertà e della libertà intesa come autodeterminazione volontaristica non è nuovo. Non rappresenta una novità, cioè, il fatto di ridurre l’essenza della dignità del soggetto al fascio delle di lui possibilità di attuare il proprio volere incondizionato. Per esempio già Pico della Mirandola (cfr. G. Pico Della Mirandola, De hominis dignitate, Pisa, Edizioni della Normale, 2012) ebbe a teorizzare questo, pur senza arrivare al nihilismo assoluto secondo il quale ogni opzione, in quanto opzione libera e incondizionata, è essa stessa identica a ogn’altra nel suo essere insindacabile e ingiudicabile. È da rilevarsi, invero, secondo le osservazioni di Garin, che nell’opera di Pico della Mirandola l’uomo “non ha una natura che lo costringa; non ha un’essenza che lo condizioni [e che, perciò, ne rappresenti la norma dell’operare [nda]. L’uomo si fa agendo; è padre a sé stesso. L’uomo non ha che una condizione: l’assenza di condizioni, la libertà. La sua costrizione è la costrizione a essere libero […] l’uomo è tutto perché può essere tutto” (E. Garin, L’umanesimo italiano, Bari, Laterza, 1994, pp. 123 e s.).

[7] Mounier, per esempio, afferma che “la persona è un’attività [anziché un ente in sé (nda)] vissuta come autocreazione, comunicazione e adesione che si coglie e si conosce nel suo atto, come movimento di personalizzazione” (E. Mounier, Il personalismo, Milano, Garzanti, 1952, p. 8), come a dire che la persona esprime sé stessa auto-creandosi per quello che essa medesima vuole essere nell’hic et nunc del suo stesso atto «auto-volitivo».

[8] Cfr. M. Donini, La necessità di diritti infelici. Il diritto di morire come limite all’intervento penale, in Diritto Penale Contemporaneo, Milano, Luca Santa Maria, 15 Marzo 2017, in particolare § 8, pp. 17 e ss..

[9] Ivi, p. 17.

[10] Ibidem.

[11] Cfr. – si vis – R. Di Marco, Ancora su taluni rilevanti problemi giuridici del «caso Cappato», in Osservatorio tre Bio, Bologna, Filodiritto, 2, 2019.

[12] Per esempio il «concetto» di persona che emerge dagl’Atti dell’Assemblea costituente italiana (cfr. D. Castellano, Il «concetto» di persona umana negli Atti dell’Assemblea costituente e l’impossibile fondazione del politico, in D. Castellano, L’ordine politico-giuridico «modulare» del personalismo contemporaneo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007, cap. II, pp. 87 e ss.) è assai lontano dal, anzi opposto al concetto classico – boeziano – di persona quale “naturae rationalis individua substantia” (M. S. Boezio, Liber de persona et duabus naturis. Contra Eutychen et Nestorium, in J.-P. Migne (a cura di), Patrologiæ. Cursus completus [Patrologiae latinae tomus 64], Turnhout, Brepols, 1969, LXIV, 1343).

[13] Cfr. G. Turco, Dignità e diritti. Un bivio filosofico-giuridico, Torino, Giappichelli, 2018.

[14] G. Zagrebelsky, Aiuto al suicidio, autonomia, libertà e dignità nel giudizio della Corte europea dei Diritti umani, della Corte costituzionale italiana e di quella tedesca, in La legislazione penale, Torino, Dipartimento di Giurisprudenza – Università degli Studi di Torino, 16 Marzo 2020, p. 1.

[15] Ibidem.

[16] M. C. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 79.

[17] Ivi, p. 80.

[18] Per un discorso amplio sui cc.dd. nuovi diritti facciamo rinvio – si vis – a un nostro scritto: cfr. R. Di Marco, Considerazioni teoretiche e rilievi teorici intorno ai «nuovi diritti» e alle «nuove libertà», in L’Ircocervo, Venezia, Fondazione Gentile O.N.L.U.S., 2017, II, pp. 70 – 104.

[19] La quale, infatti, secondo Zagrebelsky, ma anche secondo i Giudici, avrebbe “contenuti controversi” (G. Zagrebelsky, Aiuto al suicidio, autonomia, libertà e dignità nel giudizio della Corte europea dei Diritti umani, della Corte costituzionale italiana e di quella tedesca, in La legislazione penale, cit. p. 1), in quanto essi dipenderebbero, contingentemente, dalla volontà di ciascheduno, dall’auto-progetto che ciascheduno ha di sé.

[20] Utilizziamo la dizione “diritti umani” secondo il significato che ne dà Castellano, opportunamente distinguendoli dai “diritti dell’uomo” propriamente detti. Come è noto, infatti, l’Autore riconduce all’ambito concettuale dei primi i «diritti» che “non sono riconosciuti perché fondamentali, ma [che (nda)] sono definiti fondamentali perché riconosciuti. La loro esistenza [quindi (nda)] dipenderebbe da una generale ‹scelta condivisa›” (D. Castellano, Ordine etico e diritto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2011, p. 24); mentre “i veri diritti dell’uomo sono, innanzitutto, esercizio dei suoi doveri [… e (nda)] sono strettamente legati alla sua natura, alla natura delle sue azioni, alla natura delle sue scelte. [Essi (nda)] hanno, pertanto, un riferimento ʻoggettivoʼ […] non un fondamento ʻsoggettivoʼ, anche se quest’ultimo fosse la volontà dello Stato” (D. Castellano, Razionalismo e diritti umani, Torino, Giappichelli, 2003, p. 18) o la volontà contenuta in forme supra-statuali di Dichiarazioni lato sensu intese.

[21] È stato per esempio osservato che una siffatta ideologia politico-giuridica non porta alla tutela della persona e alla guarentigia autenticamente giuridica della sua umanità, quanto piuttosto all’affermazione legale, delle sue pulsioni irrazionali e della sua volontà/libertà disumana, quasi a legittimare la disumanizzazione del soggetto. In questo senso, infatti, Ordòñez Maldonado, parla di “libre desarrollo de nuestra animalidad” (cfr. A. Ordòñez Maldonado, Hacia el libre desarrollo de nuestra animalidad, Bucaramanga, Universidad Santo Tomàs, 2003).

[22] D. Castellano, Razionalismo e diritti umani, cit., p. 4.

[23] Facciamo riferimento alla terminologia che Danilo Castellano ha efficacemente usata con riguardo al tema della laicità: egli, infatti, osserva che la laicità escludente “implica [indicativo nostro (nda)], da una parte, l’esclusione del fenomeno religioso dall’ordinamento giuridico; dall’altra, essa pretende [indicativo nostro (nda)] di regolamentare la coesistenza senza interferenze, né dirette né indirette, dal potere religioso, [… mentre la laicità includente (nda)] considera e include il fenomeno religioso ma come diritto all’esercizio della libertà negativa” (D. Castellano, Ordine etico e diritto, cit., p. 31).

[24] L’Autore infatti rileva che la “società attuale [… è caratterizzata (nda)] da un’estesa diversificazione di gruppi e strati sociali, tutti partecipanti al ‹mercato delle leggi›. Essi determinano una accentuata differenziazione dei trattamenti normativi […] in conseguenza della pressione sul legislatore degli interessi corporativi […]. L’atto creativo del diritto legislativo [allora (nda)] è l’esito di un processo politico nel quale operano numerosi soggetti sociali particolari” (G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, Einaudi, 1992, p. 44).