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Infortunio in itinere: un rischio sottovalutato?

Siamo (noi) la più grande tempesta
Ph. Paolo Panzacchi / Siamo (noi) la più grande tempesta

Storia della normativa

L’infortunio in itinere, un rischio specifico improprio o rischio generico aggravato, così veniva definito da Corte Costituzionale con sentenza n. 8 del 12/1/1971.


Questa peculiare ipotesi di infortunio ha avuto, sotto il profilo legislativo, una storia davvero controversa ed è stato per molti anni oggetto di contenzioso con l’INAIL perché difficilmente riconosciuto.

A differenza di molte legislazioni in vigore all’estero, nelle quali l’infortunio sulle vie del lavoro, ha sempre trovato una specifica regolamentazione, nel nostro ordinamento antinfortunistico ha trovato espresso riconoscimento solo con il d.lgs. 23/2/2000 n° 38.

L’art. 12 del Decreto fornisce una più ampia visione della nozione di infortunio integrando gli artt. 2 e 210 del T.U. (l’assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro da cui sia derivata una inabilità...) considerando tali quegli eventi occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, ovvero nel collegamento tra due luoghi di lavoro diversi e nel percorso tra il luogo di lavoro ed il luogo dove abitualmente viene consumato il pasto qualora non esista una mensa aziendale salvo il caso di interruzione o deviazione del tutto indipendente dal lavoro o comunque non necessitate. Non sono riconosciuti gli infortuni provocati direttamente dall’abuso di alcolici e psicofarmaci oppure dall’uso non terapeutico di allucinogeni e stupefacenti. Non è riconosciuto l’infortunio qualora il conducente sia sprovvisto della prescritta abilitazione alla guida.

 

Infortuni stradali e in itinere. I dati

Storicamente la prima causa di infortunio sul lavoro è legata al rischio strada.

Dagli ultimi dati INAIL relativi al pre pandemia emerge infatti che su oltre 644mila denunce di infortunio 124mila siano legate al rischio da circolazione stradale (circa il 20% delle denunce di sinistro totali) e quasi 106 mila di queste a infortunio in itinere (che rappresentano quindi il 16% del totale delle denunce di infortunio e l’85% delle denunce di infortunio su strada).

Ancora più significativo il dato relativo agli infortuni mortali denunciati nel 2019, 1156 in totale di cui 470 legati al rischio stradale: 254 in itinere e 216 in occasione di lavoro; con un peso rispettivo del 21,9% e del 18,6% del totale delle denunce per infortunio mortale, percentuale che aumenta ulteriormente se si prendono in considerazione soltanto i casi accertati positivamente.  

È significativo che le percentuali appena viste risultino in linea con la media europea.

Per capire ancora meglio la portata del fenomeno dobbiamo poi tenere conto che il dato INAIL rappresenta una misura solo parziale del fenomeno (si pensi ad esempio al lavoro autonomo e a quello irregolare), l’European Transport Safety Concil stima infatti che le vittime di incidenti su strada per motivi di lavoro rappresentino il 40% del totale delle morti su strada.

Applicando questa percentuale sui dati ACI-ISTAT si perviene a una stima di 1300-1400 morti su strada per causa di lavoro, dato significativamente superiore a quello INAIL.

L’analisi sul totale dei casi rileva 571.198 infortuni sul lavoro denunciati all’Istituto nel 2020, circa 74mila in meno rispetto alle 644.993 del 2019 (-11,4%). Questa riduzione è il risultato di due diminuzioni marcatamente diverse per la modalità di accadimento degli infortuni: se quelli in occasione di lavoro (505.736) sono diminuiti del 6,2%, nonostante la presenza delle denunce da Covid-19, quelli in itinere (65.462) sono calati del 38,2%.

D’altro canto minor numero di incidenti stradali si conferma anche tra gli infortuni in occasione di lavoro. I 13mila casi che hanno visto coinvolti mezzi di trasporto, con il coinvolgimento di conducenti professionali come camionisti e tassisti, sono infatti diminuiti del 31,8%.

I dati relativi al 2021, seppur ad oggi ancora parziali sono comunque ancora condizionati dall’emergenza sanitaria: basti pensare all’ancora massiccio ricorso allo smart working in particolare nei primi mesi dell’anno, che ha subito e continua a subire un graduale ridimensionamento.

La rappresentatività di questo anno nei confronti temporali dipenderà quindi anche dalla progressiva riorganizzazione che si darà il mercato del lavoro e lo spazio che in futuro avrà lo smart working, a quel punto non più come strumento necessario legato a un’emergenza sanitaria ma come strumento in grado di garantire l’efficienza (stante anche lo spazio che hanno trovato i programmi di digitalizzazione nel PNRR) e di engagement nei confronti dei lavoratori o di alcune categorie di questi.

 

Il mobility manager

È del 27 marzo 1998 il decreto interministeriale “Mobilità sostenibile nelle aree urbane” (norma del ministro dell’ambiente di concerto con i ministri dei lavori pubblici , della sanità e dei trasporti) che introduce, per le grandi aziende, l’obbligo di nominare un mobility manager i cui compiti sono relativi all’organizzazione degli spostamenti casa-lavoro, ottimizzazione della fruizione del servizio mensa (se esterno all’azienda), incentivi alla riduzione dell’utilizzo dell’auto propria (incentivando l’utilizzo del mezzo pubblico, della modalità ciclabile o del car-pooling).

L’obbligo di nomina di un mobility manager previsto dal legislatore del 1998 solo per le realtà private che contavano oltre 300 dipendenti e pubbliche con oltre 800 addetti è stato esteso con Decreto Legge 19 maggio 2020 n. 34 (decreto rilancio) convertito in legge 17 luglio 2020 n. 77, anche a quelle imprese e P.A., ubicate in capoluogo di Regione, Provincia o Comune oltre i 50.000 abitanti, che superino, per singola unità locale, i 100 dipendenti.

Compito del mobility manager è di redigere entro il 31 dicembre di ciascun anno un piano degli spostamenti casa-lavoro (PSCL) finalizzato a ridurre l’uso del mezzo di traporto proprio individuale. La nomina del mobility manager, che nasce per ragioni di carattere ambientale, per le aziende interessate da questo obbligo, estende il proprio impegno nei confronti del lavoratore non solo dentro al perimetro aziendale ma anche lungo il tragitto che porta a questo.

 

Veicoli aziendali

In presenza di una flotta di mezzi aziendali, relativa a lavoratori che devono spostarsi per mere esigenze lavorative (a titolo esemplificativo e non esaustivo: manutentori impianti, lavoratori edili, agenti di commercio, ispettori) i datori di lavoro sono tenuti all’adempimento di una serie di obblighi.

L’attività di guida di un veicolo deve fare parte della valutazione dei rischi e il datore di lavoro risponde per omessa valutazione e/o per omessa predisposizione di misure di prevenzione e protezione e/o per omessa vigilanza su di essa (Cass. pen., 27 novembre 2012, n. 46217).

Nel caso in cui un lavoratore utilizzi un’auto aziendale il datore di lavoro deve controllare che essa sia regolarmente manutenuta e che il lavoratore abbia i titoli per guidarla (Cass. lav., 23 dicembre 2014, n. 27364).

La manutenzione dei veicoli aziendali è infatti circostanza talora sottovalutata che può generare diverse conseguenze e le vittime di questo tipo di infortuni sono spesso rappresentate anche dai terzi (oltre che dai lavoratori stessi).

L’omessa o non corretta manutenzione – ove accertata – seppur manifestatasi in un luogo fisicamente “lontano” dall’azienda, ovvero su una strada o un’autostrada, rappresentando una violazione aziendale della normativa prevenzionistica e quindi una violazione di obblighi di salute e sicurezza sul lavoro ai sensi del D.Lgs.81/08 e dell’art.2087 del codice civile, costituisce un’altra ipotesi di responsabilità civile e penale del datore di lavoro (principio più volte riaffermato, vedasi Cass. Pen., 21 luglio 2016 n.31495, Cass. Pen., 11 maggio 2021 n. 21561).

In ogni caso si consideri che l’infortunio del lavoratore alla guida, anche in caso di mezzo aziendale, non è una ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro ma va provato il danno, il nesso causale e l’esigibilità della condotta (Cass. lav., 23 dicembre 2014, n. 27364)

 

Stress lavoro correlato

L’esposizione a particolari condizioni di stress lavoro correlato (si pensi ad esempio al sistematico ricorso a lavoro straordinario) può determinare l’estensione dell’obbligo di sicurezza per quanto attiene l’infortunio su strada; si è espressa in questo senso la Corte di Cassazione con la sentenza 13309 del 7 giugno 2007, stabilendo che “un lavoratore debba essere risarcito del danno subito in un incidente stradale, a patto e condizione che possa dimostrare il nesso causale tra lo stress (che ha portato all’incidente) e la sua attività lavorativa”.

In questo senso «non si può escludere il nesso causale, per un lavoratore obbligato o autorizzato all’uso di autoveicolo nell’espletamento delle proprie mansioni in situazione di trasferta, tra le condizioni di stress e l’incidente stradale, senza consentire la prova di tutte le circostanze del caso».

D’altra parte la connessione tra sovraffaticamento e rischio infortuni è conclamata, una ricerca della Suva (Uehli, 2015) giunge a conclusioni drammatiche in materia di sicurezza per chi si mette al volante sovraffaticato: il rischio di infortunio è da sette a otto volte superiore al normale. Il soggetto sovraffaticato avrà infatti una riduzione delle percezioni, un allungamento dei tempi di reazione, e tenderà a sottovalutare i pericoli.

 

I costi economici

Vediamo ora il costo economico sostenuto sia dall’ente pubblico tramite INAIL che dai datori di lavoro in relazione al fenomeno degli infortuni in itinere e in occasione di lavoro su strada.

L’infortunio in itinere non rileva ai fini dell’aggravamento del premio INAIL per il datore di lavoro ma ci sono importanti costi diretti e indiretti legati tanto all’inabilità temporanea che all’invalidità permanente.

Ci rifacciamo agli Open Data INAIL, tabelle dati nazionali relativi al periodo 2015-2020.

Vediamo ad esempio come l’infortunio in itinere e in occasione di lavoro (in questa seconda ipotesi in particolare con mezzo di trasporto) tendano ad essere contraddistinti da una maggiore gravità riscontrabile anche nei giorni medi d’inabilità temporanea assoluta.

Arrotondando il dato medio del quinquennio infatti vediamo circa 39 giorni di astensione per l’infortunio in itinere rispetto ai 34 per infortunio in occasione di lavoro che però tornano 39 in caso di infortunio in occasione di lavoro con coinvolgimento di mezzo di trasporto.

Il costo relativo all’invalidità temporanea ricordiamo che ricade sia su INAIL che sul datore di lavoro ed è così distribuito.

Il datore di lavoro corrisponde interamente la retribuzione del giorno dell’infortunio e il 60% della retribuzione per i tre giorni successivi.

L’INAIL poi corrisponde al lavoratore:

  • un’indennità giornaliera, pari al 60% della retribuzione giornaliera media, calcolata sui 15 giorni precedenti l’infortunio, per i primi 90 giorni, a partire dal 4° giorno successivo all’infortunio, e

  • del 75% a partire dal 91° giorno, e ciò anche nei giorni festivi e fino alla guarigione clinica definitiva.

Sappiamo poi che moltissimi CCNL prevedono, durante il periodo di inabilità temporanea assoluta al lavoro, l’obbligo da parte del datore di lavoro di pagare il differenziale tra l’indennità INAIL e la paga base.

Per quanto attiene l’invalidità permanente salvo accertate responsabilità del datore di lavoro risponde unicamente INAIL in relazione ai costi diretti.

Possono però esserci costi indiretti per le aziende, sappiamo infatti che ai sensi della legge 68/1999 i datori di lavoro, pubblici e privati, sono tenuti “a garantire la conservazione del posto di lavoro a quei soggetti che, non essendo disabili al momento dell’assunzione, abbiano acquisito per infortunio sul lavoro o malattia professionale eventuali disabilità”.

Questa tutela per il lavoratore implica d’altro canto un contrasto, quantomeno potenziale, tra il diritto alla salute e al lavoro (riconosciuti e tutelati a livello costituzionale negli articoli 32 e 4) e il diritto alla libertà di impresa dell’art. 41 della Costituzione.

Su questi temi infatti si è sviluppato un grande contenzioso che ha riguardato ad esempio chi poteva accertare la sopravvenuta inidoneità alla mansione (se fosse ad esempio sufficiente il giudizio del medico competente o se il licenziamento del lavoratore fosse possibile solo a seguito di un successivo riesame da parte della commissione sanitaria competente) oppure e soprattutto rispetto alla possibilità di adibire il dipendente ad altre mansioni, compatibili con il suo “nuovo” stato di menomazione.

Sul datore di lavoro grava infatti sia l’onere di dimostrare l’impossibilità di utilizzare il dipendente in mansioni equivalenti e in un ambiente compatibile col suo stato di salute, sia quello di confutare le allegazioni espresse in sede processuale dal dipendente circa il suo possibile repèchage in altre mansioni in azienda.

 

Conclusioni

Stante tutto quanto analizzato fin qua in relazione ai costi sociali ed economici degli infortuni su strada e in itinere ritengo si possa affermare che investire in prevenzione rispetto a questa fenomenologia sia eticamente ed economicamente intelligente eventualmente campo di azioni virtuose in questo senso.

Si tenga poi conto anche si impegna attivamente per la prevenzione di questo tipo di infortuni: è possibile infatti, per le aziende che prevedono sia tramite accordi sindacali sia attraverso codici di condotta ed etici, adottati su base volontaria, miglioramenti dei livelli di tutela definiti legislativamente, accedere ad uno sconto sul premio di tariffa assicurativo (tramite il modello OT24).

Si citano brevemente alcune misure utilizzabili quali misure di formazione e informazione (corsi di guida sicura per i lavoratori), un wellfare orientato alla sicurezza nei trasporti prevedendo ad esempio il tagliando anche sul mezzo proprio in particolare qualora utilizzato anche per spostamenti legati al lavoro, l’incentivazione del car pooling che oltre a ridurre le immissioni ambientali può ridurre il rischio stress lavoro correlato legato alla guida, strumenti conciliazione e work life balance ovvero misure di “conciliazione” la cui adozione può avere ripercussioni positive nella prevenzione di infortuni anche stradali.

Il citato elenco è meramente esemplificativo ma individuato un potenziale rischio e le sue conseguenze può cominciare la ricerca di soluzioni, la cui alternativa più efficace dipende la una valutazione complessiva del caso concreto.