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Infortunio sul lavoro: incombe sempre sul lavoratore l’onere della prova

Maldive
Ph. Simona Balestra / Maldive

Infortunio sul lavoro, onere della prova, INAIL

 

Infortunio sul lavoro: incombe sempre sul lavoratore l’onere della prova

Indice:

 

1. L’infortunio del lavoratore e la contestazione dell’INAIL

 

2. La decisione della Cassazione sull’onere della prova in caso di infortunio sul lavoro e le implicazioni processuali

 

1. L’infortunio del lavoratore e la contestazione dell’INAIL

La vicenda portata all’attenzione della Corte di Cassazione attiene all’impugnazione della sentenza, emessa dai giudici di appello, con la quale veniva rigettata, oltretutto a conferma anche della decisione di primo grado, la richiesta del lavoratore di condanna dell’INAIL alla corresponsione della rendita o dell’indennizzo da danno biologico conseguente ad infortunio occorsogli a seguito della caduta da una scala mentre prestava opera di imbianchino.

Più in particolare la Corte territoriale, sul presupposto della contestazione formulata dall’INAIL circa la mancata specificazione e la omessa prova della riconducibilità dell’evento ad un contesto lavorativo, in difetto di allegazioni utili ad approfondire l’esame di una origine lavorativa della caduta, disattendeva la richiesta di espletamento di c.t.u. medica avanzata dal ricorrente e ne rigettava la domanda.

Avverso tale decisione veniva dunque proposto ricorso in Cassazione per violazione dell’art. 2697 comma 2 Codice Civile assumendo che i Giudici di appello avessero errato nel ritenere non provate le circostanze costitutive del diritto del ricorrente in quando lo stesso avrebbe dovuto allegare il solo fatto della caduta avvenuta mentre lavorava mentre sarebbe spettato all’INAIL l’onere di provare in via di eccezione che quelle circostanze non realizzavano una occasione di lavoro.

 

2. La decisione della Cassazione sull’onere della prova in caso di infortunio sul lavoro e le implicazioni processuali

Con l’ordinanza in commento (Sezione Lavoro, n. 10375 del 20 aprile 2021) la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso come proposto evidenziando che “la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 2258 del 1996) ha affermato che quando l’INAIL, opponendosi, si limiti a contestare l’assunto dell’attore - e, cioè, neghi, come nel caso in esame, la causa o l’occasione di lavoro - senza deduzione di fatti o titoli diversi da quelli posti a fondamento della domanda, il convenuto, in realtà, finisce col prospettare semplicemente una difesa e non già col proporre un’eccezione sostanziale, valevole ad invertire l’onere della prova.

Il caso oggi prospettato alla nostra attenzione merita certamente un approfondimento poiché attiene ad una vicenda quanto mai ricorrente e frequente nelle nostre aule di giustizia e cioè quella dell’accertamento, e conseguente declaratoria, della sussistenza di un eventuale infortunio sul lavoro in relazione al comportamento processuale dell’INAIL quale soggetto convenuto e/o resistente e, come è noto, tenuto nel caso al pagamento degli indennizzi di legge per danno biologico.

La Corte di Cassazione, pertanto, con questo interessante pronunciamento stabilisce in maniera chiara e decisiva come la contestazione formulata dall’INAIL avverso una domanda di accertamento della sussistenza di un infortunio di lavoro, anche in maniera generica, postuli a tutti gli effetti una presa di posizione processuale netta di mera avversione rispetto alla propria invocata condanna con conseguente obbligo, per la parte ricorrente, di adempiere al proprio onere probatorio e, dunque, dimostrare efficacemente l’effettiva causalità tra evento lesivo ed attività lavorativa in corso di svolgimento nel rispetto del fondamentale principio dettato dall’art. 2697 primo comma Codice Civile

Più precisamente, per i Giudici di legittimità in questi casi non si determina alcuna modifica dell’ordinario assetto dell’onere probatorio e, pertanto, rimane in capo al ricorrente il compito di dimostrare l’esistenza del nesso causale tra l’attività di lavoro che si afferma essere stata svolta ed il fatto dal quale sia derivata la lesione denunciata, non potendosi ritenere pertinente l’assunto dello stesso ricorrente di dover soltanto allegare l’avvenuto verificarsi di tale fatto in costanza di attività lavorativa per poi imporre all’INAIL la prova contraria e, quindi, che quel fatto non costituisca occasione di lavoro.

Come è noto, infatti, la responsabilità dell’INAIL per infortunio sul lavoro o malattia professionale interviene, ai sensi degli artt. 1 e 4 del T.U. n. 1124/1965, ogni qualvolta il fatto lesivo avvenga per causa violenta, concentrata nel tempo ed esterna all’organismo del lavoratore, in occasione di lavorodal quale derivi la sua morte, l’inabilità permanente al lavoro o un danno biologico permanente, l’inabilità temporanea assoluta al lavoro, purché però tutte queste circostanze di fatto risultino puntualmente dimostrate da chi ne abbia interesse.

Il merito del provvedimento in commento risiede nel fatto che si sia esplicitato, in maniera chiara, come il comportamento processuale dell’Istituto di negazione dei fatti di causa, anche solo semplice e generica, sia elemento di per sé sufficiente ad imporre al ricorrente che agisce in via risarcitoria di dover dimostrare tutti gli elementi di fatto e di diritto costituenti la fattispecie dell’infortunio sul lavoro e, segnatamente, quello più rilevante costituito proprio dal nesso causale tra il fatto e lo svolgimento di una attività lavorativa.

In tal senso l’INAIL viene dunque totalmente estromesso da qualsivoglia attività probatoria sul punto spettando al creditore, lavoratore, l’onere di provare il fondamento del proprio diritto di credito, anche e soprattutto in considerazione del fatto che l’esito della vicenda processuale intrapresa dallo stesso nei confronti dell’INAIL, come sappiamo, si riverbera successivamente sulla posizione giuridica del datore di lavoro in conseguenza dell’azione di regresso che lo stesso Istituto, se condannato, ha la possibilità di avviare nei confronti della parte datoriale.

Si tratta, come è noto, della conforme applicazione della regola sovrana dell’art. 1218 Codice Civile secondo la quale anche l’Istituto che agisca in via di regresso deve provare la fonte, negoziale o legale, del proprio diritto oltre al danno causato e la riconducibilità di questo al titolo dell’obbligazione (Cass. Civ. Sez. Lavoro n. 10529 del 23 aprile 2008), spettando invece al datore di lavoro provare che tale danno sia stato originato da causa a lui non imputabile, e cioè di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure idonee e possibili, secondo quanto gli fosse esigibile in base alle ordinarie norme di accortezza e diligenza e che, quindi, gli esiti dannosi siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile.

Il principio dettato oggi dai Giudici di legittimità si fonda, in effetti, sulla considerazione, certamente corretta e condivisibile, che la contestazione formulata dall’Istituto convenuto acquisisca valore e significato, giuridico e processuale, di “mera difesa” e non già di “eccezione sostanziale” come tale eventualmente bisognevole di fatti ed elementi probatori a supporto, a maggior ragione quando tale formulazione non comporti la “deduzione di fatti o titoli diversi da quelli posti a fondamento della domanda” della controparte.

I Giudici di legittimità nell’ordinanza in esame parlano in questo caso testualmente di c.d. “eccezione impropria”, terminologia che individua effettivamente non solo le eccezioni c.d. “in senso lato” e cioè quelle rilevabili d’ufficio ma anche la fattispecie oggi considerata rientrante, più correttamente, nel più ampio sopra ricordato concetto di “mera difesa“ e, quindi, più esattamente in quei rilievi per i quali, appunto per come abbiamo visto, ci si limiti soltanto a contestare l’esistenza del fatto costitutivo posto dalla controparte a fondamento della sua domanda, senza ampliare in alcun modo la materia del contendere o il petitum né l’ambito di cognizione del giudice, proprio perché non si allega alcun fatto e ci si ferma semplicemente a negare l’esistenza di quello addotto dalla parte avversa.

A nostro parere questa impostazione ermeneutica è certamente rispondente al voluto normativo ed oltretutto non contrasta in alcun modo nemmeno con il principio della “disponibilità delle prove“ e soprattutto di quello “di non contestazione” di cui all’art. 115 1° comma c.p.c nella sua nuova formulazione introdotta dalla Legge n. 69 del 18 giugno 2009, e, segnatamente, con l’obbligo per le parti costituite di contestare “ specificatamente “ i fatti oggetto di causa senza la semplice loro negazione in maniera del tutto generica, come prima consentito, ma piuttosto mediante una difesa che sia approntata in maniera seria anche per la puntualità dei riferimenti richiamati e degli elementi di prova eventualmente prodotti.

Anche l’applicazione di tali principi, infatti, non implica alcuna inversione del generale onere della prova poiché, come è noto, quello di cui parla detta norma attiene solo all’allegazione, e quindi all’indicazione, di altri ed ulteriori fatti positivi che siano eventualmente incompatibili con quelli addotti dalla controparte.

Ci sembra poi opportuno rammentare come la “non contestazione” in parola non determini sempre e comunque, come si potrebbe essere portati a ritenere, un vincolo di meccanica conformazione, soprattutto quando non si discuta di un fatto storico ma piuttosto di un fatto costitutivo ascrivibile alla categoria dei c.d. “fatti-diritto” poiché il giudice ha sempre la possibilità di rilevare l’inesistenza della circostanza allegata da una parte anche se non contestata dall’altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto.

In definitiva, dunque, anche in questi casi limite il fatto addotto deve essere sempre fondato su elementi di prova che consentano al Giudicante di ritenere lo stesso efficacemente dimostrato ed in effetti anche l’ordinanza in commento non sfugge a questo criterio, poiché dalla lettura della stessa riteniamo si rilevi agevolmente come le lacune probatorie riscontrate dai Giudici di merito abbiano poi effettivamente condotto gli stessi al rigetto della domanda, confermata dalla Corte di Cassazione con l’esplicitazione, ineccepibile a nostro modo di vedere, dei principi generali esposti.

Detta ordinanza inoltre ci appare anche pienamente conforme alla norma chiave dell’art. 2697 Codice Civile che detta le regole per l’accesso dei mezzi di prova nel processo e che si sostanzia pur sempre nel fondamentale principio di diritto secondo il quale fintanto che l’attore non abbia provato il fatto costitutivo, nessun onere probatorio possa gravare sul convenuto poiché soltanto qualora ciò si verifichi, quest’ultimo, onde evitare la soccombenza, sarà tenuto a provare i fatti su cui si fonda l’eccezione proposta.

In definitiva dunque i fatti ex se non contestati non possono ravvisarsi, giuridicamente parlando, come fatti riconosciuti dalla controparte, per intenderci al pari di quelli scaturenti, ad esempio, da una confessione o da un giuramento, ma semmai come fatti passibili di una valutazione positiva da parte del Giudice avendo oltretutto la Corte Suprema chiarito al riguardo come “i fatti allegati da una parte possono considerarsi pacifici, sì da poter essere posti a base della decisione, non solo quando siano stati esplicitamente ammessi dalla controparte, ma anche quando questa non li contesti specificamente ed imposti altrimenti il proprio sistema difensivo” (Cass. 20.5.93, n. 5733, MGC, 1993, 895).