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Malattie professionali ed onere della prova: il punto sulla disciplina

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Malattie professionali ed onere della prova: il punto sulla disciplina

 

Le richieste di riconoscimento del carattere professionale di una malattia nei confronti dell’INAIL e le, spesso conseguenti, richieste di risarcimento del c.d. danno differenziale nei confronti del Datore di Lavoro, hanno registrato un aumento decisamente rilevante nel corso degli ulti tre anni. I dati recentemente pubblicati da INAIL, infatti, confermano – per i primi 8 mesi del 2023 – come la diminuzione numerica dovuta alla pandemia sia stata completamente e rapidamente superata e come il numero complessivo delle denunce di malattia professionale sia oggi significativamente superiore al periodo prepandemico.

In questo contesto un’analisi delle più recenti pronunce della Corte di Cassazione, che si sono soffermate sulla ripartizione dell’onere della prova in tale tipo di contenziosi, consente di fare il punto sulla disciplina applicabile e sulla relativa interpretazione da parte della dottrina e della giurisprudenza.

 

La nozione di malattia professionale.

La nozione di malattia professionale viene tradizionalmente ricavata dall’art. 3 del d.P.R. n. 1124/1965, che prevede “L'assicurazione è altresì obbligatoria per le malattie professionali indicate nella tabella allegato n. 4, le quali siano contratte nell'esercizio e a causa delle lavorazioni specificate nella tabella stessa ed in quanto tali lavorazioni rientrino fra quelle previste nell'art. 1”. Nell’intenzione originaria del legislatore si trattava, cioè, solo di quelle malattie indicate in un’apposita tabella e che fossero state contratte nell’esercizio ed a causa dell’attività lavorativa entro il termine massimo di indennizzabilità previsto, ossia delle malattie comunemente denominate “tabellate”. Il sistema normativo inizialmente delineato era, quindi, a carattere chiuso.

La norma è stata, però, dichiarata incostituzionale con sentenza n. 179/1988 nella parte in cui non prevedeva che “l’assicurazione contro le malattie professionali nell'industria è obbligatoria anche per malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate concernenti le dette malattie e da quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno indicato nelle tabelle stesse, purché si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa di lavoro”. La Corte Costituzionale ha, quindi, ampliato la nozione fino a ricomprendervi anche le malattie non ricomprese nelle apposite tabelle o causate da una lavorazione non specificata nelle stesse e ciò purché ne sia provata l’eziologia professionale (si tratta delle, ormai note, “malattie non tabellate”).

Tale sistema misto è stato, poi, confermato sia dalla successiva giurisprudenza di legittimità sia dagli interventi a livello legislativo. Infatti, l’art. 10, co. 4, D. Lgs. n. 38/2000 ha chiarito che “sono considerate malattie professionali anche quelle non comprese nelle tabelle di cui al comma 3 delle quali il lavoratore dimostri l'origine professionale”. In tal modo è stata definitivamente riconosciuta la possibilità per i lavoratori di provare l’eziologia professionale di una malattia non ricompresa nell’apposita tabella (o sorta successivamente al periodo massimo di indennizzabilità ivi previsto).

In tale sistema, peraltro, rileva anche il rischio non direttamente connesso alla prestazione svolta (c.d. “rischio specifico”), ma piuttosto collegato all’ambiente in cui la stessa viene effettuata (c.d. “rischio specifico improprio” o “indiretto” o “ambientale”)[1].

 

L’onere della prova in capo al lavoratore.

Nonostante l’allargamento della nozione di malattia professionale, vi è un aspetto che continua a distinguere nettamente le malattie professionali tabellate e quelle non tabellate: l’onere della prova del nesso di causalità tra malattia e attività lavorativa. Come noto, infatti, con riferimento alle prime ed in linea generale (salvo quanto verrà poi meglio chiarito al prossimo paragrafo), il nostro ordinamento prevede una presunzione di origine professionale che non sussiste, invece, per le seconde.

Il tema ha sempre occupato la Corte di Cassazione civile – sez. lavoro. Si segnala, tra le più significative, la sentenza n. 39751 del 13.12.2021, che apre il proprio ragionamento chiarendo proprio che “nel sistema dell'assicurazione contro le malattie professionali ... la distinzione tra le malattie comprese nelle tabelle e quelle ivi non comprese rileva sul piano della prova del nesso di causalità”.  La Corte prosegue, poi, precisando che, come da orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, “l'inclusione nella tabella sia della lavorazione svolta che della malattia contratta (purché insorta entro il periodo massimo d'indennizzabilità eventualmente previsto) comporta l'applicazione della presunzione di eziologia professionale della patologia sofferta dall'assicurato”.

Con riferimento alle malattie tabellate, quindi, “al lavoratore è sufficiente dimostrare lo svolgimento professionale della lavorazione indicata in tabella e di essere affetto dalla malattia ivi prevista, per essere esonerato dalla prova dell'esistenza del nesso di causalità tra l'uno e l'altra, avendo già l'ordinamento compiuto la correlazione causale tra i due termini”. Nel caso di malattie non incluse nelle tabelle, invece, grava sul lavoratore l’onere di provare non solo l’esistenza della malattia, ma anche le caratteristiche morbigene della mansione svolta ed il nesso eziologico tra quest’ultima e la malattia stessa. In definitiva, il lavoratore è chiamato a provare di essere stato effettivamente esposto, per un determinato tempo e con determinate modalità, al rischio specifico cui l’insorgenza di quella patologia è connessa.

Sia i commentatori che la giurisprudenza hanno, però, avuto modo di chiarire come la nozione di malattia professionale debba ritenersi – in ogni caso - unitaria. Sia per le malattie tabellate che per quelle non tabellate deve, infatti, sussistere uno “stretto nesso di derivazione causale”, non essendo sufficiente la mera possibilità di derivazione professionale o l’utilizzo di presunzioni tratte da ipotesi tecniche solo teoricamente possibili. La prova deve, cioè, essere valutata in termini di ragionevole certezza o di elevato grado di probabilità[2]. Nello stesso senso anche la sentenza appena citata, che precisa come ai fini della presunzione legale il lavoratore non possa limitarsi a provare la mera contrazione della malattia tabellata, ma debba dimostrare anche “lo svolgimento di una lavorazione che rientri nel perimetro legale della correlazione causale presunta e dunque che sia ritenuta idonea, secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica, a provocare la malattia”, in quanto “... Solo in tal caso la fattispecie concreta potrà ritenersi aderente a quella astratta prevista dalla tabella e potrà scattare la presunzione di eziologia professionale con specifico riferimento a quel lavoratore”.

Tra le prove che possono rilevare a tal fine, come meglio si vedrà nel paragrafo conclusivo, rientrano certamente, i dati epidemiologici, gli eventuali precedenti provvedimenti emessi dall’I.N.A.I.L. in sede amministrativa, le deposizioni testimoniali e le conclusioni dell’eventuale CTU nominato in corso di giudizio.

 

L’onere della prova in capo all’I.N.A.I.L. e al datore di lavoro

Ove il lavoratore adempia al proprio onere probatorio, si consideri ora la posizione dei soggetti potenzialmente destinatari delle richieste indennitarie o risarcitorie, ovvero l’INAIL in prima battuta ed il datore di lavoro eventualmente in un secondo momento. Come vedremo subito infra, dal punto di vista dell’onere della prova da raggiungere ai fini della difesa occorre distinguere la posizione dell’I.N.A.I.L. da quella del datore di lavoro.

Per quanto riguarda, innanzitutto, l’I.N.A.I.L, l’Istituto, anche nel caso di malattie tabellate, può sempre fornire la prova contraria della derivazione della malattia da fattori extralavorativi. Non a caso, la dottrina tende ad affermare che la presunzione legislativa debba considerarsi assoluta per quanto riguarda la lesività dell’agente patogeno e della lavorazione; si tratterebbe, invece, di una presunzione relativa con riferimento al nesso causale, con conseguente inversione dell’onere della prova sul punto[3].

In deroga alle regole di diritto comune, sulla base delle quali spetta all’attore dimostrare la sussistenza di un nesso causale tra il fatto dedotto ed il danno lamentato, in tal caso è, dunque e piuttosto, l’I.N.A.I.L., convenuto in giudizio in caso di mancato riconoscimento di una delle malattie tabellate, a dover dimostrare l’assenza di tale nesso eziologico.

Per quanto attiene, invece, all’onere della prova che in ottica difensiva incombe sul datore di lavoro si ricorda, in via del tutto preliminare, come l’eventuale riconoscimento dell’origine professionale della malattia da parte dell’Istituto prescinda totalmente e non comporti alcun accertamento della eventuale responsabilità per l’insorgenza in capo al datore di lavoro.

La responsabilità del datore di lavoro (vuoi in sede di regresso INAIL vuoi in sede di richiesta risarcitoria da parte del lavoratore) si basa, infatti, su presupposti diversi da quelli oggetto di accertamento in sede amministrativa, e ciò evidentemente in ragione delle diverse posizioni che assumono i due soggetti all’interno dell’ordinamento (quella dell’INAIL nei confronti dei lavoratori, infatti, è una posizione latu sensu assicurativa, non così invece per quanto riguarda la posizione datoriale). In tal caso, infatti, è necessaria la prova, oltre che della sussistenza di un nesso di causalità tra la lavorazione svolta e la malattia contratta, anche dell’imputabilità - quanto meno a titolo di colpa - della condotta tenuta dal datore di lavoro in violazione di specifiche previsioni normative. Sul punto, si ricorda che la base normativa è rappresentata dall’art. 2087 c.c. che, secondo dottrina e giurisprudenza ormai costanti, configura una responsabilità di natura contrattuale. Da ciò deriva che incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare – quanto meno - l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro.

Incombe, invece, sul datore di lavoro convenuto l’onere di provare di aver rispettato tutte le norme regolanti l’attività svolta e di aver adottato le misure volte a tutelare l’integrità del dipendente sulla base delle conoscenze tecniche acquisite, al fine di escludere qualsiasi profilo di colpa.

Profili probatori ancor più complessi, poi, si evidenziano (certamente in capo a tutte le parti coinvolte) quando si assuma una causalità di fattori extralavorativi nell’insorgenza della patologia o, ancor di più, nel caso delle patologie multifattoriali, dove l’indagine e la prova scientifica necessiteranno di approfondimenti ancor più dettagliati.

 

Conclusioni

Il quadro normativo e giurisprudenziale ma, soprattutto, quello tecnico e scientifico, è, come visto, in continuo mutamento. La disamina della disciplina svolta rende evidente come, nei procedimenti che hanno ad oggetto la richiesta di risarcimento danni da malattia professionale, risultino decisivi gli esiti dell’attività istruttoria.

Utili spunti di riflessione in merito all’andamento delle attività probatorie ed ai diversi principi applicati nel corso dei giudizi si possono ricavare dalla lettura di diverse pronunce di merito. L’analisi complessiva delle sentenze, infatti, conferma come alcuni elementi e caratteristiche dell’attività lavorativa siano oggi ormai un punto di riferimento costante nel corso dell’attività istruttoria svolta sulla base delle difese svolte in giudizio dalla parte datoriale.

Ci riferiamo, in particolare, agli elementi sulla base dei quali si possa sostenere la mancata esposizione ad un determinato rischio in capo al lavoratore che lamenti una tecnopatia o l’insussistenza di qualsivoglia responsabilità in capo al datore di lavoro, quali: la prova della presenza o meno, e dell’eventuale intensità, di un determinato rischio nel corso della prestazione lavorative, la struttura dei reparti e la precisa descrizione delle lavorazioni svolte in ciascuno di essi, la presenza e l’utilizzo di determinati DPI, l’implementazione di soluzioni tecniche ed organizzative per impedire o ridurre l’esposizione al rischio, la posizione degli impianti produttivi, la presenza di impianti di aspirazione e ventilazione, l’eventuale sussistenza di più attività lavorative nello stesso ambiente, le indagini epidemiologiche condotte su tutti i lavoratori.

A tale fine, ovvero quello di poter fornire la prova in ordine alla assenza del nesso di causa o di elementi di responsabilità, è però fondamentale che tutta l’organizzazione datoriale sia improntata ad un sistema di gestione che consenta, in caso di contestazione, di poter risalire con precisione a tutti i processi aziendali di valutazione e gestione del rischio, con le opportune evidenze documentali.

Si tratta di un approdo oggi ormai imprescindibile, non solo al fine di allineare l’organizzazione aziendale alle previsioni normative ed alle BAT di settore, ma anche nell’ottica del miglioramento continuo dei livelli di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori sulla base dell’evoluzione delle conoscenze tecniche e scientifiche.

 

[1] Giulia Marchi, “La nozione di malattia professionale”, in “il Lavoro nella giurisprudenza” 8-9/2018, pag. 857 s., anche per un’approfondita ricognizione giurisprudenziale.

[2] Giulia Marchi, “La nozione di malattia professionale”, in “il Lavoro nella giurisprudenza” 8-9/2018, pag. 857, anche per un’approfondita ricognizione giurisprudenziale.

[3] Vittorio Pascazio, “Tecnopatie tabellate, non tabellate o ad eziologia multifattoriale ed onere della prova”, in “il Lavoro nella giurisprudenza” 2/2018, pag. 142.