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J’Accuse … !

J'accuse, Émile Zola
J'accuse, Émile Zola

“L'affaire Dreyfus” e l’editoriale di Émile Zola è l’atto di nascita dell'impegno intellettuale. Il simbolo di chi rinuncia alla tranquillità e alla quiete per una giusta causa. Per la prima volta la stampa ha un peso dirompente sull'opinione pubblica. Il luogo del dibattito si trasferisce dall’aula del tribunale alla strada con una “strategia di rottura”.

 

Senza possibilità di smentita, si può affermare che Émile Zola il 13 gennaio del 1898, con l’editoriale J’Accuse ha dato il battesimo alla parola intellettuale come emblema di impegno civile.

La parola intellettuale, prima dell’affare Dreyfus aveva una connotazione negativa. Quando si parla di un giudizio “intellettuale” il termine è sinonimo di superficiale o di fumoso.

Nei dizionari Larousse o Littré dell’epoca, la parola intellettuale compare non come un sostantivo, ma come aggettivo.

Si parla di un giudizio “intellettuale per indicare “quanto egli ha di rigido, di contrario al vero pensiero” (Bernard-Henry Lévy, Le avventure della Libertà, Rizzoli).

Solo dopo la pubblicazione dell’editoriale di Zola, la parola intellettuale diventa un titolo di gloria, un emblema da sventolare coma una bandiera.

Zola non è solo, sono molte le donne e gli uomini che si raccolgono dietro alla bandiera di verità sventolata da Émile. Sono innumerevoli le persone che seguono e diffondono il grido “J’Accuse”.

La differenza sostanziale tra Zola e Voltaire e Hugo, che lo precedettero nell’impegno di porre il talento al servizio delle “grandi cause”, è il seguito che ebbe il primo, il quale riuscì a “sensibilizzare” migliaia di persone nella difesa di Dreyfus.

 

L’antefatto

Nell’ottobre 1894 Alfred Dreyfus Capitano d’Artiglieria dello Stato Maggiore dell’Esercito francese, ebreo alsaziano, venne arrestato con l’accusa di alto tradimento, poiché sospettato di aver fornito ai militari prussiani informazioni riservate.

L’indagine ebbe inizio quando una donna del controspionaggio francese, addetta alle pulizie presso l’Ambasciata tedesca di Parigi, all’atto di ripulire uno dei cestini degli uffici, ritrovò una lista (chiamata “bordereau”) contenente cinque documenti segreti che l’anonimo mittente offriva in vendita ai tedeschi.

La donna, consegnò il bordereau alle autorità francesi: dato il particolare contenuto del documento, i sospetti si concentrarono subito attorno a pochi ufficiali.

 

Il processo

La fretta e la necessità di una rapida individuazione del colpevole portò a una sbrigativa e sommaria indagine, tutta basata su una perizia calligrafica, secondo cui la scrittura del documento apparteneva al Capitano Dreyfus.

Processato in pochi mesi, Alfred Dreyfus, nonostante avesse professato la propria innocenza e totale estraneità ai fatti, fu condannato all’ergastolo.

Il 5 gennaio del 1895 subì la pena infamante della degradazione, di fronte a un “corridoio di disonore”, davanti a truppe schierate. Dreyfus fu deportato al bagno penale della Cayenna, sull’isola del Diavolo (ricordate Steve McQueen in Papillon?), dove venne tenuto nell’isolamento più totale.

Dreyfus era il colpevole ideale e la sua vita sembrava irrimediabilmente segnata.

Inaspettatamente le circostanze mutarono, nel marzo del 1896, la stessa fonte che aveva consegnato il borderò dell’ambasciata tedesca, trasmise un altro documento attestante, anch’esso, dei contatti tra un ufficiale dell’armata francese e la sede diplomatica tedesca.

Il Colonello George Picquart a capo del Servizio Informazioni dello Stato Maggiore; ripensò ai fatti che portarono alla condanna di Dreyfus e ottenne di poter visionare il fascicolo secretato: dai documenti agli atti risultava evidente che la calligrafia del bordereau era stata erroneamente attribuita a Dreyfus, atteso che invece palesemente inchiodava un altro ufficiale di origini ungheresi il comandante Esterhazy.

Picquart riferì ai suoi superiori le proprie scoperte: gli Alti Ufficiali dell’esercito francese non si rivelarono affatto entusiasti di riconsiderare il caso dell’Ufficiale ebreo, condannato e deportato. La ragion di Stato e il potere del corpo militare francese non potevano piegarsi ad ammettere che la condanna di Dreyfus fosse un clamoroso errore giudiziario.

Per tale ragione, nonostante le evidenze probatorie, Esterhazy sottoposto a processo venne assolto. L’intero sistema militare francese fece quadrato contro l’evidenza, si nominarono degli esperti grafologi che s’impegnarono a dimostrare che la scrittura del borderò non poteva essere quella di Esterhazy.

Il clamore per l’assoluzione portò alla pubblicazione in due famosi quotidiani di alcuni documenti segreti del fascicolo Dreyfus, da cui risultava la diversità della calligrafia di tali scritti rispetto a quella del condannato.

 

L’articolo

J'accuse

La svolta avvenne il 13 gennaio 1898, quando il quotidiano L’Aurore pubblicò una lettera aperta dello scrittore Émile Zola, rivolta al Presidente della Repubblica francese:

«Monsieur le Président,

permettetemi, grato, per la benevola accoglienza che un giorno mi avete fatto, di preoccuparmi per la Vostra giusta gloria e dirvi che la Vostra stella , se felice fino ad ora, è minacciata dalla più offensiva ed inqualificabile delle macchie…

Ma quale macchia di fango sul Vostro nome, stavo per dire sul Vostro regno – soltanto quell’abominevole affare Dreyfus! Per ordine di un consiglio di guerra è stato scagionato Esterhazy, ignorando la verità e qualsiasi giustizia. È finita, la Francia ha sulla guancia questa macchia, la storia scriverà che sotto la Vostra presidenza è stato possibile commettere questo crimine sociale.

E poiché è stato osato, oserò anche io. La verità, la dirò io, poiché ho promesso di dirla, se la giustizia, regolarmente osservata non la proclamasse interamente. Il mio dovere è di parlare, non voglio essere complice. Le mie notti sarebbero abitate dallo spirito dell’uomo innocente che espia laggiù nella più spaventosa delle torture un crimine che non ha commesso.

Ed è a Voi signor presidente, che io griderò questa verità, con tutta la forza della mia rivolta di uomo onesto. In nome del Vostro onore, sono convinto che la ignoriate. E a chi dunque denuncerò se non a Voi, primo magistrato del paese? Per prima cosa, la verità sul processo e sulla condanna di Dreyfus.

(…) La verità sull’affare Dreyfus la saprà soltanto quando un’inchiesta legale avrà chiarito i suoi atti e le sue responsabilità...

Se insisto è perché il nodo è qui da dove usciva più tardi il vero crimine, il rifiuto spaventoso di giustizia di cui la Francia è malata. [...]

Ma questa lettera è lunga signor presidente, ed è tempo di concludere. Accuso il luogotenente colonnello de Paty di Clam di essere stato l’operaio diabolico dell’errore giudiziario, in incoscienza, io lo voglio credere, e di aver in seguito difeso la sua opera nociva, da tre anni, con le macchinazioni più irragionevoli e più colpevoli. Accuso il generale Marcire di essersi reso complice, almeno per debolezza di spirito, di una delle più grandi iniquità del secolo. Accuso il generale Billot di aver avuto tra le mani le prove certe dell’innocenza di Dreyfus e di averle soffocate, di essersi reso colpevole di questo crimine di lesa umanità e di lesa giustizia, per uno scopo politico e per salvare lo stato maggiore compromesso. Accuso il generale de Boisdeffre ed il generale Gonse di essersi resi complici dello stesso crimine, uno certamente per passione clericale, l’altro forse con questo spirito di corpo che fa degli uffici della guerra l’arcata santa, inattaccabile. Accuso il generale De Pellieux ed il comandante Ravary di avere fatto un’indagine scellerata, intendendo con ciò un’indagine della parzialità più enorme, di cui abbiamo nella relazione del secondo un imperituro monumento di ingenua audacia… accuso i tre esperti in scrittura i signori Belhomme, Varinard e Couard, di avere presentato relazioni menzognere e fraudolente, a meno che un esame medico non li dichiari affetti da una malattia della vista e del giudizio. Accuso gli uffici della guerra di avere condotto nella stampa, particolarmente nell’Eclair e nell’Eco di Parigi, una campagna abominevole, per smarrire l’opinione pubblica e coprire il loro difetto.

Accuso infine il primo consiglio di guerra di aver violato il diritto, condannando un accusato su una parte rimasta segreta, ed io accuso il secondo consiglio di guerra di aver coperto quest’illegalità per ordine, commettendo a sua volta il crimine giuridico di liberare consapevolmente un colpevole. Formulando queste accuse, non ignoro che mi metto sotto il tiro degli articoli 30 e 31 della legge sulla stampa del 29 luglio 1881, che punisce le offese di diffamazione. Ed è volontariamente che mi espongo. Quanto alla gente che accuso, non li conosco, non li ho mai visti, non ho contro di loro né rancore né odio. Sono per me solo entità, spiriti di malcostume sociale. E l’atto che io compio non è che un mezzo rivoluzionario per accelerare l’esplosione della verità e della giustizia. Ho soltanto una passione, quella della luce, in nome dell’umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto alla felicità. La mia protesta infiammata non è che il grido della mia anima. Che si osi dunque portarmi in assise e che l’indagine abbia luogo al più presto.

Aspetto”  

 

L’Esito

Il testo di Zola ebbe un effetto dirompente e scosse le coscienze, svelando la verità sulle macchinazioni di un’indagine scellerata e assolutamente parziale, sulle dichiarazioni fraudolente e menzognere dei periti, nonché sull’insabbiamento agli occhi dell’opinione pubblica.

Quell’edizione del quotidiano vendette oltre 300.000 copie (di media ne vendeva 20.000 al giorno) e la verità irruppe fragorosa anche in sede giudiziaria: Esterhazy confessò di essere la spia, Dreyfus ottenne la revisione del processo, ma il potere della Ragion di Stato non intendeva ancora cedere il passo alla giustizia e, incredibilmente, Dreyfus venne nuovamente condannato.

Il potere politico-militare, a dimostrazione della sua forza, decide di perseguire Zola che viene condannato per vilipendio delle forze armate al massimo della pena, un anno di carcere, e a una multa di 3000 franchi. Zola decide per l'esilio a Londra, ma la breccia è aperta e tutto precipita: il ministro della Guerra Cavaignac è costretto ad arrestare il colonnello Henry, che aveva fabbricato le false prove a carico di Dreyfus. Dopo la confessione, Henry si uccide in carcere.

Finalmente, il 12 luglio del 1906, dopo 11 anni dall’inizio del processo, la Corte di Cassazione accoglie la richiesta di revisione del processo a carico di Dreyfus perché risulta evidente che l'affaire è stato un errore giudiziario scientifico compiuto a tavolino da una macchinazione ordita per trovare un capro espiatorio.

Il J’accuse di Zola è sempre attuale, merita di essere letto e ricordato, non solo come alto grido di libertà, ma anche quale espressione del valore assoluto della verità e della giustizia. Tramite l’articolo “J’accuse” si è fatto ricorso a quello che oggi chiameremo un mezzo mediatico e rivolgendosi all’opinione pubblica si è usata una “strategia di rottura”, spostando il luogo del dibattimento dal tribunale alla strada per “superare” il muro eretto dal potere e dai giudici in malafede.

Jacqes Vergès, Gli errori giudiziari, Liberilibri, 2011.

Bernard-Henry Lévy, Le avventure della libertà, Rizzoli, 1992

Andrew Hsiao e Audrea Lim, No! il libro del dissenso, Fandango Libri, 2011