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La class action pubblica. Riflessione in tema di azioni collettive, p.a. e istanze risarcitorie

[Relazione per il convegno: La class action pubblica, Casalecchio di Reno (Bologna), 7 maggio 2010]

RELAZIONE INTRODUTTIVA

Lo scopo per cui si è promosso l’odierno Convegno di Studi è quello di portare un contributo al dibattito su di un tema, la class action pubblica, che si è preannunciato sin dall’inizio sottoposto a molteplici riflettori.

Fine, invece, di una “Introduzione” è quello di sollevare questioni per stimolare l’approfondimento e il dibattito.

Perché proprio un incontro di approfondimento sulla class action pubblica?

Sostanzialmente perché in prima linea nell’attuazione immediata della class action pubblica ci sono i Comuni in quanto enti locali, cioè istituzioni in rapporto diretto con i cittadini. Dunque, per esplicita previsione del Ministro, le azioni collettive sono già esperibili quando i Comuni si rendano negligenti nel rispetto di termini o nell’adozione di atti amministrativi generali obbligatori, come ad esempio gli atti di programmazione obbligatori in materia di attività commerciali, o i piani per l’edilizia popolare con cui il Comune pone in essere la programmazione per la costruzione di nuovi alloggi, oppure ancora i piani triennali per le opere pubbliche, il cui obbligo è sancito dall’art. 128 del Codice dei Contratti, poiché in caso di mancata adozione si blocca l’attività infrastrutturale dell’Ente con lesione degli interessi legittimi delle imprese e dei cittadini.

Parliamo dunque del d.lgs. 20/12/2009, n. 198, previsto dalla legge delega n. 15/2009, e di come questo si colleghi o ricada nell’ambito applicativo dell’art. 140 bis del Codice del Consumo, soprattutto quando venga in rilievo il gestore del servizio pubblico; inoltre, verrà anche trattato del rapporto di questo con la disciplina novativa della responsabilità della pubblica amministrazione.

Non si è in presenza di uno strumento onnipervasivo (amministrativo, processuale, ecc.), ma di regole speciali all’interno di un contesto normativo che ha natura particolare (anche se strettamente collegata con il processo amministrativo), cioè la tutela dei consumatori di servizi pubblici o destinatari di funzioni pubbliche.

Una prima notazione è quasi scontata: la class action pubblica, a differenza di quella privata, non è rivolta ad ottenere il risarcimento del danno ma solamente il ripristino dell’efficienza del servizio pubblico o della funzione ritardata o omessa.

Ne consegue una critica quasi ovvia: senza il deterrente della sanzione pecuniaria, la class action nella pubblica amministrazione non rischia di rimanere un contenitore vuoto, privo di efficacia e di forza?

Anche se, escludendo la possibilità risarcitoria (non in assoluto: infatti “restano fermi i rimedi ordinari”), il legislatore sembrerebbe aver scelto la via della moral suasion nell’assoluto rispetto del principio di economicità per le P.A. o soggetti equiparati (“senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”).

Approfondendo poi l’analisi, ci si accorge di un ulteriore argomento che pare andare in questa direzione. Al di là dell’espressa non risarcibilità dell’azione di cui al d.lgs. 198/09, anche il successivo art. 4, comma 1, confermerebbe la predetta critica, dove si dice che, nell’accogliere il ricorso proposto, il giudice non può gravare di oneri la finanza pubblica.

Allora sorge un altro dubbio: vale per questa azione il principio generale di cui all’art. 91 c.p.c. (condanna alle spese)? Trattandosi, infatti, di principio di ermeneutica legislativa dovrebbe ricevere interpretazione restrittiva. Infatti, anche la condanna alle spese ha una innegabile finalità “sanzionatori”. Se vale il principio generale, allora non è vero che non vi siano oneri a carico dell’erario, atteso che accertata la violazione o omissione della P.A., questa verrebbe condannata ad un esborso di denaro. E quindi l’azione di classe determinerebbe comunque un “peso” per le amministrazioni.

Viceversa, se il giudice deve attenersi a quanto disposto dalla citata disposizione, può essere un caso di eccezione alla regola della sequela delle spese alla soccombenza, esclusa per legge?

Altra considerazione. L’azione di classe pubblica appare come un’estensione della tradizionale class action civilistica, con la precisazione che l’applicazione alla P.A. o soggetti equiparati pare costituire un unicum nel panorama degli ordinamenti che l’hanno adottata. Questa assenza di riferimenti potrebbe determinare sovrapposizioni o confusione tra poteri amministrativi e giurisdizionali? Infatti, la giurisdizione per la class action di cui all’art. 140 bis, Codice del Consumo, è quella ordinaria, mentre in quella pubblica è giurisdizione esclusiva di merito, che consente al giudice di indagare l’opportunità delle scelte amministrative e di adottare misure sostitutive nei confronti dell’amministrazione, precluso al giudice ordinario, che disporrebbe del solo potere di disapplicazione.

Ancora. I consumatori e utenti che intendono avvalersi della tutela dell’art. 140 bis possono svolgere intervento adesivo all’azione di classe già proposta da altri, anche senza ministero di difensore, mediante un semplice atto di adesione.

E’ possibile anche per la class action pubblica?

E’ questo il senso del comma 3, art. 1? Ma qual è la “medesima situazione giuridica” del “ricorrente” che la giustificherebbe?

In assenza di parametri per individuare quali situazioni giuridiche siano da considerare uguali per qualità e quantità, resta il fatto che la definizione è generica e, forse, volutamente aperta.

L’obiettivo dichiarato dell’azione pubblica dovrebbe essere quello di recuperare efficienza e produttività nella pubblica amministrazione e per farlo si è “importato” dagli Stati Uniti un istituto, quello della class action, nato in una cultura ed un ordinamento molto diverso dal nostro, per proteggere i cittadini dall’operato dei grandi gruppi economici mediante forme di tutela reali, fondate su forti penalizzazioni risarcitorie, e sulla condanna dei responsabili accertati.

E’ proprio di questi giorni la notizia della sentenza Wal-Mart, con cui la Corte Federale d’appello di San Francisco ha accolto il ricorso per discriminazione di genere di una “commessa” contro il gigante dei Supermercati americani. La caratteristica del procedimento giudiziario in questione, che rischia di diventare l’azione collettiva più grande della storia legale americana in materia di diritti civili, riguarda il fatto che la signora ha agito non solo per sé, ma per circa un milione e mezzo di donne che, come lei impiegate del colosso, ritenevano di aver subito discriminazioni per il fatto di essere donne (mass torts). La potenziale condanna finale del datore di lavoro (che si avrebbe solo dopo l’eventuale conferma della Corte Suprema), porterebbe con sé anche ingenti danni punitivi, oltre a quelli risarcitori.

Ma come ben sappiamo l’ordinamento anglosassone non è facilmente traslabile nel nostro e, dunque, occorrevano adattamenti a quella che, comunque, rimaneva e rimane una filosofia fondamentalmente corretta: l’azione collettiva nasce dall’esigenza di consentire, per ragioni di giustizia, di economia processuale e di certezza del diritto, la riduzione del contenzioso, della spesa pubblica e produrre effetti futuri per tutti coloro che si trovino nell’identica situazione dell’attore.

Questa filosofia è applicabile alla class action pubblica?

Come sempre avviene in tutte le fasi di “rivoluzione” normativa concernente la pubblica amministrazione (si pensi alle reazioni all’indomani dell’introduzione nel nostro ordinamento della L.241/90; oppure alla L. 142/90, con l’innovativa previsione di una responsabilità personale dei dipendenti pubblici, al d.lgs. 29/93 di privatizzazione del pubblico impiego, ecc.), anche l’attuale decreto -entrato in vigore dal primo gennaio 2010, e per le amministrazioni locali dal primo aprile 2010- ha esordito fra le critiche di chi non vede l’utilità di uno strumento così disegnato, e le lodi di chi ritiene che attraverso questa forma di tutela la P.A. intenda migliorare se stessa attraverso varie fasi: l’individuazione delle cause dell’inadempienza per poi rimuoverle, l’individuazione dei responsabili per sanzionarli (da qui l’introduzione di istituti quali la misurazione delle performances, la premialità del merito, ecc., da parte del d.lgs. 150/2009), della tutela giurisdizionale esclusiva, così da cercare di coniugare le esigenze dei cittadini fruitori con il criterio di efficienza della P.A.

La cosa certa è che era dagli anni ’90 che non si introduceva nel nostro ordinamento giuridico una massa così imponente di nuova legislazione riguardante la pubblica amministrazione.

Con effetti di varia natura.

Forse la ragione risiede nei frequenti fenomeni di “mala amministrazione”, con il loro devastante strascico di sprechi, inefficienze e illegalità emersi in passato e continuati ancor più prepotentemente anche in questi anni, acuiti ovviamente dalla crisi economica che ha coinvolto tutti e a tutti i livelli. Ciò può essere la causa della marginalizzazione degli sforzi di contrasto che si erano tentati a varie riprese all’interno dei diversi settori amministrativi e dei servizi pubblici.

Queste analisi, unite al dato obiettivo della posizione lavorativa dei dipendenti pubblici [da un lato vissuta dall’esterno come “privilegiata” -quantomeno sul piano dell’inamovibilità, nell’era del precariato diffuso- e dall’altro, internamente, vissuta come massa lavoro “poco motivata”, per via anche delle progressive occupazioni politiche tendenti ad acquisire professionalità, non sempre eccellenti, dall’esterno anziché premiare quelle interne], può aver portato alla luce la necessità di produrre novità. Così si è giunti all’attuale complesso sistema normativo delineato dal d.lgs. 150/2009 (noto come decreto Brunetta), così come combinato dal disposto del d.lgs. 198/2009 (noto come class action pubblica).

In sostanza, e su questo (pubblico impiego e class action) soffermerei questa rapida introduzione, il corpus riformatore ha voluto poggiarsi su alcuni pilastri, ritenuti fondanti per l’innovazione, quali: la misurazione delle attività, la valutazione degli standards, la meritocrazia, la responsabilizzazione dei dirigenti fino alla loro rimozione, ecc., che dovrebbero intervenire, toccando i dipendenti pubblici nel vivo, ovvero tanto sul piano economico che di carriera.

L’organizzazione del lavoro pubblico, nell’idea del legislatore, diventa così connotata da controlli e misurazioni di attività in grado di garantire il massimo dell’efficienza nella corretta erogazione di un servizio o nello svolgimento di una funzione pubblica.

E’ interessante evidenziare al riguardo la rubrica con cui il legislatore ha intitolato l’art. 4 del d.lgs. 150/2009: “Ciclo di gestione della performance”.

E’ curioso l’uso di questa locuzione. Intanto perché il termine “ciclo” rende “materiale” l’idea “immaginaria” di un fenomeno che si ripete a cadenza regolare (i cicli) in un periodo più o meno lungo di tempo. Viene naturale pensare ad un percorso “circolare”, attraverso cui le prestazioni (performances) delle pubbliche amministrazioni devono svolgersi, passando attraverso fasi codificate e, dunque, scadenzate, per rendere più immediata la percezione della funzionalità o disfunzionalità. E, nel secondo caso, ne scaturisce una sanzione che evidenzia conseguenze, riflessi, che potremmo classificare in due categorie, “interni” ed “esterni”.

I riflessi che potremmo chiamare “interni”, sono quelli che esplicano i loro effetti entro la P.A. e passano attraverso sanzioni, quali: l’impossibilità di assumere per l’Ente se non effettua la programmazione, oppure la decurtazione delle premialità per i dirigenti, o ancora l’assenza di bonus o progressioni di carriera per i dipendenti che non garantiscono la giusta qualità dei servizi.

Riflesso “esterno” di questo meccanismo è, invece, che lo scostamento dagli obiettivi e dai risultati oppure la mancata definizione in via preventiva degli standards qualitativi, o degli obblighi contenuti nelle Carte di servizi, costituiscono i presupposti per l’esercizio dell’azione innanzi al giudice amministrativo. Questo è quanto stabilisce l’art. 1, comma 1, del d.lgs. 198/2009.

Ne consegue che l’oggetto del giudizio (lo scostamento da uno standard) dovrebbe essere strettamente connesso alla previa definizione di standards di qualità organizzativa e, dunque, se portato inna zi al giudice, si lega strettamente ad un sindacato sulle scelte della pubblica amministrazione.

Perché class action, ovvero azione di rivalsa “collettiva” verso la P.A.?

Al riguardo si osserva che il legislatore ha individuato la legittimazione all’azione attraverso una formula che, a ben vedere, si potrebbe definire “inusuale”, poiché riferita ai “titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori”. Ebbene, la connotazione collettiva qui traspare dall’uso del plurale (“i titolari”), che porta a ritenere che i soggetti che possono agire per superare la soglia di ammissibilità, siano almeno due.

E qui non ci si può esimere dall’evidenziare una incongruenza fra comma 1 e 3 dell’art. 1: se da un lato, la legittimazione all’azione per il comma 1 spetta “ai titolari”, dall’altro, al comma 3, si fa riferimento alla situazione giuridica “del ricorrente”, derubricando il plurale in singolare.

Si tratta di errore ostativo, o svista lessicale? Quale deve essere allora la soglia di ammissibilità dell’azione?

Si è detto che scopo della class action è quello di assicurare la corretta azione amministrativa, per favorire un più alto tasso di democraticità e trasparenza nella gestione della cosa pubblica.

Ma questo non potrebbe far assimilare l’istituto in esame all’azione popolare già prevista sin dalla legge 142/90, ma rivelatasi alla prova dei fatti di scarso (quasi nullo) utilizzo?

Nel caso specifico, al fine di ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio, i titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori, possono agire in giudizio nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di servizi pubblici quando derivi loro una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi, in alcuni casi:

1) dalla violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo, da emanarsi entro un termine fissato;

2) dalla violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi;

3) dalla violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti o dalle preposte Authority (per i concessionari di servizi pubblici), o per le P.A. definiti dalle stesse in conformità alle disposizioni in materia di performance contenute nel d.lgs. 150/2009.

Ciò che si può osservare è, dunque, che la norma sembra chiarire il rapporto tra lesione e ripristino dell’agire corretto, precisando che non matura ex se, ma solo in quanto la lesione sia idonea ad arrecare un danno attuale, concreto e diretto.

Detto questo, si possono svolgere alcune osservazioni in sequenza.

La prima.

Si intendono “sanzionare” vari tipi di violazioni di termini mediante l’azione collettiva, che, come abbiamo osservato, dovrebbe poi essere attivata da più di due soggetti per essere ammissibile. Questo limite di “classe”, posto come quid novi in un percorso come quello in esame, non era già esperibile mediante istituti presenti ed attivi nell’ordinamento, come il ricorso contro il “silenzio” di cui alla L. 241/90 e all’art. 21 bis L. 1034/71 ss.mm.?

Sin qui allora la sensazione è che l’azione collettiva non aggiunga molto a quanto si può già fare singolarmente o attraverso associazioni rappresentative, quantomeno sul piano generale. Forse l’incisività può essere più visibile sulla espansione della responsabilità, sia in senso oggettivo che soggettivo, della P.A.

La seconda osservazione s’incentra invece sulla violazione dei parametri del ciclo della performance di cui al d.lgs. 150/2009.

Ebbene, anche in tal caso, non bisogna dimenticare il fine preminente del provvedimento, che non prevede che il ricorso dia diritto ad ottenere un ristoro economico, bensì il ripristino di standard qualitativi e quantitativi del servizio secondo quanto in dovere dell’amministrazione. Dunque, rispetto alla class action civilistica, quella in esame pare essere stata dal legislatore un po’ più dimensionata (dal comma 6, art. 1, d.lgs. 198/2009), in virtù del quale il ricorso (o meglio l’azione) per l’efficienza della P.A. non consentendo di ottenere il risarcimento dei danni, sembra doversi coniugare con il potenziamento di altri meccanismi, quali, per l’appunto, la responsabilità e la premialità.

In ogni caso, dispone la norma che “a tal fine” (ovvero per al fine risarcitorio) “restano fermi i rimedi ordinari”, senza ulteriormente precisare.

Quali rimedi ordinari? Probabilmente dovrebbe trattarsi di autonomi ricorsi connotati da requisiti di colpa o dolo del dipendente. E possono essere proposti sempre collettivamente o da ciascuno?

L’unico dato che pare fermo è la giurisdizione del giudice amministrativo anche per l’azione autonoma risarcitoria, vista la precisazione contenuta al successivo comma 7.

Anche qui solleverei un dubbio. Qualora il giudice accolga la domanda (e quindi accerti un requisito colposo nel ritardo, omissione, ecc.), è disposto che nelle proprie statuizioni conseguenti deve aver riguardo alle risorse strumentali, finanziarie ed umane già assegnate in via ordinaria senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Non potrebbe derivare uno svuotamento del requisito della colpa (che per originare responsabilità risarcitoria deve comunque essere quantomeno “grave”) dal fatto che le risorse presenti nell’Ente per rispettare quanto d’obbligo fossero carenti?

Se così fosse, quale peso specifico dovrebbe assegnarsi alla previsione secondo cui restano fermi i rimedi ordinari ai fini dell’ottenimento del risarcimento del danno?

O il riferimento è al solo fatto che le risorse che devono essere valutate sono quelle necessarie al ripristino? Quindi potrebbe accadere che non sia possibile ripristinare, o almeno non in tempi brevi.

Nell’uno o nell’altro caso, vi sono problemi.

Tuttavia, poiché il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, può disporre il risarcimento del danno ingiusto anche "attraverso la reintegrazione in forma specifica", questo potrebbe apparire come un caso di evidente reintegrazione in forma specifica in cui il giudice, accertata la violazione, ordina alla pubblica amministrazione o al concessionario di porvi rimedio entro un congruo termine. Ferma restando la sottolineatura in matita rossa di cui si è detto, ovvero che il giudice, nello stabilire che la P.A. deve ripristinare gli standards, deve svolgere una valutazione in più di quanto sinora fosse stato nella sua competenza, e cioè deve assicurarsi che per farlo, l’Ente, non debba impiegare troppe risorse (umane, strumentali, ovviamente economiche), cioè non si deve disturbare troppo l’amministrazione e, per essa, ovviamente l’erario.

Diversi gli altri riflessi “esterni”. Del ricorso deve essere data notizia sul sito istituzionale sia del Ministero per la Pubblica Amministrazione e Innovazione, che sul sito istituzionale dell’amministrazione o del concessionario intimati.

Ecco, forse questa può essere ritenuta la vera “sanzione”: cioè il pubblico lubidrio cui deve auto esporsi la P.A. inadempiente. Quasi un deterrente a comportarsi bene. Anzi, più un deterrente, che un’azione destinata a giungere a sentenza.

Infatti, le violazioni potenzialmente oggetto di giudizio, oltre ad apparire nella norma abbastanza generiche e per lo più riferibili ad aspetti organizzativi e manageriali, prive quindi di parametri certi, fanno apparire l’azione in esame tutto fuorché uno strumento giudiziale rapido: chi vuole avviare il ricorso, deve prima diffidare (con notifica?) la pubblica amministrazione che viene cosi resa edotta tempestivamente della pretesa collettiva e può porre rimedio ai vizi lamentati entro 90 giorni per scongiurare la proposizione dell’azione, oppure si può promuovere la conciliazione. Solo scaduti i 90 giorni si può avviare il ricorso entro i termini e con le modalità previste negli articoli del decreto.

Il ricorso va poi notificato, depositato nei tempi tradizionali a noi noti, il giudice deve fissare l’udienza secondo modalità e termini che non paiono neppure perentori, si deve comunque instaurare un contraddittorio, e come ovvio tutto ciò comporta tempi lunghi. Per non parlare dell’ottemperanza -o meglio inottemperanza- da parte della pubblica amministrazione.

In assenza di parametri certi di riferimento, lo stesso compito del giudice non appare così semplice.

Quando, comunque, si dovesse finalmente giungere a sentenza, ecco, è qui che probabilmente emerge il “cuore” del sistema: la sentenza deve essere pubblicata sul sito, deve scattare la ricerca del soggetto (dipendente) colpevole dell’inefficienza, cioè colui o coloro che hanno concorso a cagionare le situazioni sfociate nella condanna, si deve avviare il giudizio disciplinare, il giudizio contabile per gli eventuali profili di responsabilità erariale, ecc., entrano cioè in gioco i comportamenti e le omissioni che si vogliono neutralizzare nella pubblica amministrazione, poiché in contrasto con i principi che costituiscono le parole chiave dell’impianto riformatore: meritocrazia, trasparenza, valutazione, miglioramento, qualità, produttività.

In buona sostanza, ciò che allora pare trasparire è la volontà di toccare aspetti di fondo dell’ordinamento amministrativo, tanto di carattere processuale quanto di carattere sostanziale, dato che l’azione collettiva nei confronti della pubblica amministrazione costituisce il corollario di un più ampio disegno riformatore che “sul piano della teoria generale, si fonda sulla concezione dell’amministrazione di risultato, in cui domina il principio del buon andamento come espressione di una moderna visione della pubblica amministrazione” [cfr. Parere Cons. Stato, 9 giugno 2009, n. 1943].

Non vi è comunque nulla di nuovo. Come emerge dall’art. 97 della Cost., il parametro del buon andamento, insieme con quello dell’imparzialità, oltre a vincolare la disciplina legislativa della pubblica amministrazione, non può essere disgiunto dal principio di legalità.

E così si torna al punto da cui siamo partiti, ovvero la presa di coscienza delle disfunzioni della burocrazia, degli sprechi, dell’illegalità e delle inefficienze … attraverso un percorso “circolare”, rotondo, come il ciclo della performance!

[Relazione per il convegno: La class action pubblica, Casalecchio di Reno (Bologna), 7 maggio 2010]

RELAZIONE INTRODUTTIVA

Lo scopo per cui si è promosso l’odierno Convegno di Studi è quello di portare un contributo al dibattito su di un tema, la class action pubblica, che si è preannunciato sin dall’inizio sottoposto a molteplici riflettori.

Fine, invece, di una “Introduzione” è quello di sollevare questioni per stimolare l’approfondimento e il dibattito.

Perché proprio un incontro di approfondimento sulla class action pubblica?

Sostanzialmente perché in prima linea nell’attuazione immediata della class action pubblica ci sono i Comuni in quanto enti locali, cioè istituzioni in rapporto diretto con i cittadini. Dunque, per esplicita previsione del Ministro, le azioni collettive sono già esperibili quando i Comuni si rendano negligenti nel rispetto di termini o nell’adozione di atti amministrativi generali obbligatori, come ad esempio gli atti di programmazione obbligatori in materia di attività commerciali, o i piani per l’edilizia popolare con cui il Comune pone in essere la programmazione per la costruzione di nuovi alloggi, oppure ancora i piani triennali per le opere pubbliche, il cui obbligo è sancito dall’art. 128 del Codice dei Contratti, poiché in caso di mancata adozione si blocca l’attività infrastrutturale dell’Ente con lesione degli interessi legittimi delle imprese e dei cittadini.

Parliamo dunque del d.lgs. 20/12/2009, n. 198, previsto dalla legge delega n. 15/2009, e di come questo si colleghi o ricada nell’ambito applicativo dell’art. 140 bis del Codice del Consumo, soprattutto quando venga in rilievo il gestore del servizio pubblico; inoltre, verrà anche trattato del rapporto di questo con la disciplina novativa della responsabilità della pubblica amministrazione.

Non si è in presenza di uno strumento onnipervasivo (amministrativo, processuale, ecc.), ma di regole speciali all’interno di un contesto normativo che ha natura particolare (anche se strettamente collegata con il processo amministrativo), cioè la tutela dei consumatori di servizi pubblici o destinatari di funzioni pubbliche.

Una prima notazione è quasi scontata: la class action pubblica, a differenza di quella privata, non è rivolta ad ottenere il risarcimento del danno ma solamente il ripristino dell’efficienza del servizio pubblico o della funzione ritardata o omessa.

Ne consegue una critica quasi ovvia: senza il deterrente della sanzione pecuniaria, la class action nella pubblica amministrazione non rischia di rimanere un contenitore vuoto, privo di efficacia e di forza?

Anche se, escludendo la possibilità risarcitoria (non in assoluto: infatti “restano fermi i rimedi ordinari”), il legislatore sembrerebbe aver scelto la via della moral suasion nell’assoluto rispetto del principio di economicità per le P.A. o soggetti equiparati (“senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”).

Approfondendo poi l’analisi, ci si accorge di un ulteriore argomento che pare andare in questa direzione. Al di là dell’espressa non risarcibilità dell’azione di cui al d.lgs. 198/09, anche il successivo art. 4, comma 1, confermerebbe la predetta critica, dove si dice che, nell’accogliere il ricorso proposto, il giudice non può gravare di oneri la finanza pubblica.

Allora sorge un altro dubbio: vale per questa azione il principio generale di cui all’art. 91 c.p.c. (condanna alle spese)? Trattandosi, infatti, di principio di ermeneutica legislativa dovrebbe ricevere interpretazione restrittiva. Infatti, anche la condanna alle spese ha una innegabile finalità “sanzionatori”. Se vale il principio generale, allora non è vero che non vi siano oneri a carico dell’erario, atteso che accertata la violazione o omissione della P.A., questa verrebbe condannata ad un esborso di denaro. E quindi l’azione di classe determinerebbe comunque un “peso” per le amministrazioni.

Viceversa, se il giudice deve attenersi a quanto disposto dalla citata disposizione, può essere un caso di eccezione alla regola della sequela delle spese alla soccombenza, esclusa per legge?

Altra considerazione. L’azione di classe pubblica appare come un’estensione della tradizionale class action civilistica, con la precisazione che l’applicazione alla P.A. o soggetti equiparati pare costituire un unicum nel panorama degli ordinamenti che l’hanno adottata. Questa assenza di riferimenti potrebbe determinare sovrapposizioni o confusione tra poteri amministrativi e giurisdizionali? Infatti, la giurisdizione per la class action di cui all’art. 140 bis, Codice del Consumo, è quella ordinaria, mentre in quella pubblica è giurisdizione esclusiva di merito, che consente al giudice di indagare l’opportunità delle scelte amministrative e di adottare misure sostitutive nei confronti dell’amministrazione, precluso al giudice ordinario, che disporrebbe del solo potere di disapplicazione.

Ancora. I consumatori e utenti che intendono avvalersi della tutela dell’art. 140 bis possono svolgere intervento adesivo all’azione di classe già proposta da altri, anche senza ministero di difensore, mediante un semplice atto di adesione.

E’ possibile anche per la class action pubblica?

E’ questo il senso del comma 3, art. 1? Ma qual è la “medesima situazione giuridica” del “ricorrente” che la giustificherebbe?

In assenza di parametri per individuare quali situazioni giuridiche siano da considerare uguali per qualità e quantità, resta il fatto che la definizione è generica e, forse, volutamente aperta.

L’obiettivo dichiarato dell’azione pubblica dovrebbe essere quello di recuperare efficienza e produttività nella pubblica amministrazione e per farlo si è “importato” dagli Stati Uniti un istituto, quello della class action, nato in una cultura ed un ordinamento molto diverso dal nostro, per proteggere i cittadini dall’operato dei grandi gruppi economici mediante forme di tutela reali, fondate su forti penalizzazioni risarcitorie, e sulla condanna dei responsabili accertati.

E’ proprio di questi giorni la notizia della sentenza Wal-Mart, con cui la Corte Federale d’appello di San Francisco ha accolto il ricorso per discriminazione di genere di una “commessa” contro il gigante dei Supermercati americani. La caratteristica del procedimento giudiziario in questione, che rischia di diventare l’azione collettiva più grande della storia legale americana in materia di diritti civili, riguarda il fatto che la signora ha agito non solo per sé, ma per circa un milione e mezzo di donne che, come lei impiegate del colosso, ritenevano di aver subito discriminazioni per il fatto di essere donne (mass torts). La potenziale condanna finale del datore di lavoro (che si avrebbe solo dopo l’eventuale conferma della Corte Suprema), porterebbe con sé anche ingenti danni punitivi, oltre a quelli risarcitori.

Ma come ben sappiamo l’ordinamento anglosassone non è facilmente traslabile nel nostro e, dunque, occorrevano adattamenti a quella che, comunque, rimaneva e rimane una filosofia fondamentalmente corretta: l’azione collettiva nasce dall’esigenza di consentire, per ragioni di giustizia, di economia processuale e di certezza del diritto, la riduzione del contenzioso, della spesa pubblica e produrre effetti futuri per tutti coloro che si trovino nell’identica situazione dell’attore.

Questa filosofia è applicabile alla class action pubblica?

Come sempre avviene in tutte le fasi di “rivoluzione” normativa concernente la pubblica amministrazione (si pensi alle reazioni all’indomani dell’introduzione nel nostro ordinamento della L.241/90; oppure alla L. 142/90, con l’innovativa previsione di una responsabilità personale dei dipendenti pubblici, al d.lgs. 29/93 di privatizzazione del pubblico impiego, ecc.), anche l’attuale decreto -entrato in vigore dal primo gennaio 2010, e per le amministrazioni locali dal primo aprile 2010- ha esordito fra le critiche di chi non vede l’utilità di uno strumento così disegnato, e le lodi di chi ritiene che attraverso questa forma di tutela la P.A. intenda migliorare se stessa attraverso varie fasi: l’individuazione delle cause dell’inadempienza per poi rimuoverle, l’individuazione dei responsabili per sanzionarli (da qui l’introduzione di istituti quali la misurazione delle performances, la premialità del merito, ecc., da parte del d.lgs. 150/2009), della tutela giurisdizionale esclusiva, così da cercare di coniugare le esigenze dei cittadini fruitori con il criterio di efficienza della P.A.

La cosa certa è che era dagli anni ’90 che non si introduceva nel nostro ordinamento giuridico una massa così imponente di nuova legislazione riguardante la pubblica amministrazione.

Con effetti di varia natura.

Forse la ragione risiede nei frequenti fenomeni di “mala amministrazione”, con il loro devastante strascico di sprechi, inefficienze e illegalità emersi in passato e continuati ancor più prepotentemente anche in questi anni, acuiti ovviamente dalla crisi economica che ha coinvolto tutti e a tutti i livelli. Ciò può essere la causa della marginalizzazione degli sforzi di contrasto che si erano tentati a varie riprese all’interno dei diversi settori amministrativi e dei servizi pubblici.

Queste analisi, unite al dato obiettivo della posizione lavorativa dei dipendenti pubblici [da un lato vissuta dall’esterno come “privilegiata” -quantomeno sul piano dell’inamovibilità, nell’era del precariato diffuso- e dall’altro, internamente, vissuta come massa lavoro “poco motivata”, per via anche delle progressive occupazioni politiche tendenti ad acquisire professionalità, non sempre eccellenti, dall’esterno anziché premiare quelle interne], può aver portato alla luce la necessità di produrre novità. Così si è giunti all’attuale complesso sistema normativo delineato dal d.lgs. 150/2009 (noto come decreto Brunetta), così come combinato dal disposto del d.lgs. 198/2009 (noto come class action pubblica).

In sostanza, e su questo (pubblico impiego e class action) soffermerei questa rapida introduzione, il corpus riformatore ha voluto poggiarsi su alcuni pilastri, ritenuti fondanti per l’innovazione, quali: la misurazione delle attività, la valutazione degli standards, la meritocrazia, la responsabilizzazione dei dirigenti fino alla loro rimozione, ecc., che dovrebbero intervenire, toccando i dipendenti pubblici nel vivo, ovvero tanto sul piano economico che di carriera.

L’organizzazione del lavoro pubblico, nell’idea del legislatore, diventa così connotata da controlli e misurazioni di attività in grado di garantire il massimo dell’efficienza nella corretta erogazione di un servizio o nello svolgimento di una funzione pubblica.

E’ interessante evidenziare al riguardo la rubrica con cui il legislatore ha intitolato l’art. 4 del d.lgs. 150/2009: “Ciclo di gestione della performance”.

E’ curioso l’uso di questa locuzione. Intanto perché il termine “ciclo” rende “materiale” l’idea “immaginaria” di un fenomeno che si ripete a cadenza regolare (i cicli) in un periodo più o meno lungo di tempo. Viene naturale pensare ad un percorso “circolare”, attraverso cui le prestazioni (performances) delle pubbliche amministrazioni devono svolgersi, passando attraverso fasi codificate e, dunque, scadenzate, per rendere più immediata la percezione della funzionalità o disfunzionalità. E, nel secondo caso, ne scaturisce una sanzione che evidenzia conseguenze, riflessi, che potremmo classificare in due categorie, “interni” ed “esterni”.

I riflessi che potremmo chiamare “interni”, sono quelli che esplicano i loro effetti entro la P.A. e passano attraverso sanzioni, quali: l’impossibilità di assumere per l’Ente se non effettua la programmazione, oppure la decurtazione delle premialità per i dirigenti, o ancora l’assenza di bonus o progressioni di carriera per i dipendenti che non garantiscono la giusta qualità dei servizi.

Riflesso “esterno” di questo meccanismo è, invece, che lo scostamento dagli obiettivi e dai risultati oppure la mancata definizione in via preventiva degli standards qualitativi, o degli obblighi contenuti nelle Carte di servizi, costituiscono i presupposti per l’esercizio dell’azione innanzi al giudice amministrativo. Questo è quanto stabilisce l’art. 1, comma 1, del d.lgs. 198/2009.

Ne consegue che l’oggetto del giudizio (lo scostamento da uno standard) dovrebbe essere strettamente connesso alla previa definizione di standards di qualità organizzativa e, dunque, se portato inna zi al giudice, si lega strettamente ad un sindacato sulle scelte della pubblica amministrazione.

Perché class action, ovvero azione di rivalsa “collettiva” verso la P.A.?

Al riguardo si osserva che il legislatore ha individuato la legittimazione all’azione attraverso una formula che, a ben vedere, si potrebbe definire “inusuale”, poiché riferita ai “titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori”. Ebbene, la connotazione collettiva qui traspare dall’uso del plurale (“i titolari”), che porta a ritenere che i soggetti che possono agire per superare la soglia di ammissibilità, siano almeno due.

E qui non ci si può esimere dall’evidenziare una incongruenza fra comma 1 e 3 dell’art. 1: se da un lato, la legittimazione all’azione per il comma 1 spetta “ai titolari”, dall’altro, al comma 3, si fa riferimento alla situazione giuridica “del ricorrente”, derubricando il plurale in singolare.

Si tratta di errore ostativo, o svista lessicale? Quale deve essere allora la soglia di ammissibilità dell’azione?

Si è detto che scopo della class action è quello di assicurare la corretta azione amministrativa, per favorire un più alto tasso di democraticità e trasparenza nella gestione della cosa pubblica.

Ma questo non potrebbe far assimilare l’istituto in esame all’azione popolare già prevista sin dalla legge 142/90, ma rivelatasi alla prova dei fatti di scarso (quasi nullo) utilizzo?

Nel caso specifico, al fine di ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio, i titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori, possono agire in giudizio nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di servizi pubblici quando derivi loro una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi, in alcuni casi:

1) dalla violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo, da emanarsi entro un termine fissato;

2) dalla violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi;

3) dalla violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti o dalle preposte Authority (per i concessionari di servizi pubblici), o per le P.A. definiti dalle stesse in conformità alle disposizioni in materia di performance contenute nel d.lgs. 150/2009.

Ciò che si può osservare è, dunque, che la norma sembra chiarire il rapporto tra lesione e ripristino dell’agire corretto, precisando che non matura ex se, ma solo in quanto la lesione sia idonea ad arrecare un danno attuale, concreto e diretto.

Detto questo, si possono svolgere alcune osservazioni in sequenza.

La prima.

Si intendono “sanzionare” vari tipi di violazioni di termini mediante l’azione collettiva, che, come abbiamo osservato, dovrebbe poi essere attivata da più di due soggetti per essere ammissibile. Questo limite di “classe”, posto come quid novi in un percorso come quello in esame, non era già esperibile mediante istituti presenti ed attivi nell’ordinamento, come il ricorso contro il “silenzio” di cui alla L. 241/90 e all’art. 21 bis L. 1034/71 ss.mm.?

Sin qui allora la sensazione è che l’azione collettiva non aggiunga molto a quanto si può già fare singolarmente o attraverso associazioni rappresentative, quantomeno sul piano generale. Forse l’incisività può essere più visibile sulla espansione della responsabilità, sia in senso oggettivo che soggettivo, della P.A.

La seconda osservazione s’incentra invece sulla violazione dei parametri del ciclo della performance di cui al d.lgs. 150/2009.

Ebbene, anche in tal caso, non bisogna dimenticare il fine preminente del provvedimento, che non prevede che il ricorso dia diritto ad ottenere un ristoro economico, bensì il ripristino di standard qualitativi e quantitativi del servizio secondo quanto in dovere dell’amministrazione. Dunque, rispetto alla class action civilistica, quella in esame pare essere stata dal legislatore un po’ più dimensionata (dal comma 6, art. 1, d.lgs. 198/2009), in virtù del quale il ricorso (o meglio l’azione) per l’efficienza della P.A. non consentendo di ottenere il risarcimento dei danni, sembra doversi coniugare con il potenziamento di altri meccanismi, quali, per l’appunto, la responsabilità e la premialità.

In ogni caso, dispone la norma che “a tal fine” (ovvero per al fine risarcitorio) “restano fermi i rimedi ordinari”, senza ulteriormente precisare.

Quali rimedi ordinari? Probabilmente dovrebbe trattarsi di autonomi ricorsi connotati da requisiti di colpa o dolo del dipendente. E possono essere proposti sempre collettivamente o da ciascuno?

L’unico dato che pare fermo è la giurisdizione del giudice amministrativo anche per l’azione autonoma risarcitoria, vista la precisazione contenuta al successivo comma 7.

Anche qui solleverei un dubbio. Qualora il giudice accolga la domanda (e quindi accerti un requisito colposo nel ritardo, omissione, ecc.), è disposto che nelle proprie statuizioni conseguenti deve aver riguardo alle risorse strumentali, finanziarie ed umane già assegnate in via ordinaria senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Non potrebbe derivare uno svuotamento del requisito della colpa (che per originare responsabilità risarcitoria deve comunque essere quantomeno “grave”) dal fatto che le risorse presenti nell’Ente per rispettare quanto d’obbligo fossero carenti?

Se così fosse, quale peso specifico dovrebbe assegnarsi alla previsione secondo cui restano fermi i rimedi ordinari ai fini dell’ottenimento del risarcimento del danno?

O il riferimento è al solo fatto che le risorse che devono essere valutate sono quelle necessarie al ripristino? Quindi potrebbe accadere che non sia possibile ripristinare, o almeno non in tempi brevi.

Nell’uno o nell’altro caso, vi sono problemi.

Tuttavia, poiché il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, può disporre il risarcimento del danno ingiusto anche "attraverso la reintegrazione in forma specifica", questo potrebbe apparire come un caso di evidente reintegrazione in forma specifica in cui il giudice, accertata la violazione, ordina alla pubblica amministrazione o al concessionario di porvi rimedio entro un congruo termine. Ferma restando la sottolineatura in matita rossa di cui si è detto, ovvero che il giudice, nello stabilire che la P.A. deve ripristinare gli standards, deve svolgere una valutazione in più di quanto sinora fosse stato nella sua competenza, e cioè deve assicurarsi che per farlo, l’Ente, non debba impiegare troppe risorse (umane, strumentali, ovviamente economiche), cioè non si deve disturbare troppo l’amministrazione e, per essa, ovviamente l’erario.

Diversi gli altri riflessi “esterni”. Del ricorso deve essere data notizia sul sito istituzionale sia del Ministero per la Pubblica Amministrazione e Innovazione, che sul sito istituzionale dell’amministrazione o del concessionario intimati.

Ecco, forse questa può essere ritenuta la vera “sanzione”: cioè il pubblico lubidrio cui deve auto esporsi la P.A. inadempiente. Quasi un deterrente a comportarsi bene. Anzi, più un deterrente, che un’azione destinata a giungere a sentenza.

Infatti, le violazioni potenzialmente oggetto di giudizio, oltre ad apparire nella norma abbastanza generiche e per lo più riferibili ad aspetti organizzativi e manageriali, prive quindi di parametri certi, fanno apparire l’azione in esame tutto fuorché uno strumento giudiziale rapido: chi vuole avviare il ricorso, deve prima diffidare (con notifica?) la pubblica amministrazione che viene cosi resa edotta tempestivamente della pretesa collettiva e può porre rimedio ai vizi lamentati entro 90 giorni per scongiurare la proposizione dell’azione, oppure si può promuovere la conciliazione. Solo scaduti i 90 giorni si può avviare il ricorso entro i termini e con le modalità previste negli articoli del decreto.

Il ricorso va poi notificato, depositato nei tempi tradizionali a noi noti, il giudice deve fissare l’udienza secondo modalità e termini che non paiono neppure perentori, si deve comunque instaurare un contraddittorio, e come ovvio tutto ciò comporta tempi lunghi. Per non parlare dell’ottemperanza -o meglio inottemperanza- da parte della pubblica amministrazione.

In assenza di parametri certi di riferimento, lo stesso compito del giudice non appare così semplice.

Quando, comunque, si dovesse finalmente giungere a sentenza, ecco, è qui che probabilmente emerge il “cuore” del sistema: la sentenza deve essere pubblicata sul sito, deve scattare la ricerca del soggetto (dipendente) colpevole dell’inefficienza, cioè colui o coloro che hanno concorso a cagionare le situazioni sfociate nella condanna, si deve avviare il giudizio disciplinare, il giudizio contabile per gli eventuali profili di responsabilità erariale, ecc., entrano cioè in gioco i comportamenti e le omissioni che si vogliono neutralizzare nella pubblica amministrazione, poiché in contrasto con i principi che costituiscono le parole chiave dell’impianto riformatore: meritocrazia, trasparenza, valutazione, miglioramento, qualità, produttività.

In buona sostanza, ciò che allora pare trasparire è la volontà di toccare aspetti di fondo dell’ordinamento amministrativo, tanto di carattere processuale quanto di carattere sostanziale, dato che l’azione collettiva nei confronti della pubblica amministrazione costituisce il corollario di un più ampio disegno riformatore che “sul piano della teoria generale, si fonda sulla concezione dell’amministrazione di risultato, in cui domina il principio del buon andamento come espressione di una moderna visione della pubblica amministrazione” [cfr. Parere Cons. Stato, 9 giugno 2009, n. 1943].

Non vi è comunque nulla di nuovo. Come emerge dall’art. 97 della Cost., il parametro del buon andamento, insieme con quello dell’imparzialità, oltre a vincolare la disciplina legislativa della pubblica amministrazione, non può essere disgiunto dal principio di legalità.

E così si torna al punto da cui siamo partiti, ovvero la presa di coscienza delle disfunzioni della burocrazia, degli sprechi, dell’illegalità e delle inefficienze … attraverso un percorso “circolare”, rotondo, come il ciclo della performance!