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Velo - Corte d’appello: va risarcita la candidata esclusa dalle selezioni perché indossa il velo

La Corte d’Appello di Milano ha statuito che è discriminatoria la condotta del datore di lavoro che esclude una donna dalla candidatura per un posto di lavoro per la sua decisione di non togliere il velo.

Il ricorso è stato presentato da una donna, cittadina italiana, che professa la religione musulmana, nei confronti della società che non l’ha ammessa alle selezioni di candidate hostess per una Fiera di calzature poiché non era disposta a togliere il suo hijab, il velo che copre i capelli e lascia scoperto il volto.

Ad avviso del primo Giudice, la condotta della società non ha costituito una discriminazione, né diretta, in assenza di una volontà della società di discriminare la donna, né indiretta, ritenendo l’esclusione giustificata dalla richiesta di candidate con caratteristiche d’immagine incompatibili con l’indossare un copricapo.

Queste argomentazioni non sono state condivise dai giudici della Corte d’Appello che hanno sottolineato il carattere oggettivo che connota la discriminazione: una condotta è discriminatoria se determina in concreto una disparità di trattamento fondata sul fattore tutelato, prescindendo dall’elemento soggettivo dell’agente (stato psicologico, dolo, colpa, buona fede).

Secondo la Corte d’Appello, la decisione della società ha determinato in capo alla donna una “esclusione o restrizione” ai sensi dell’articolo 43 del Testo Unico in materia di immigrazione, “menomando la sua libertà contrattuale e restringendo la possibilità di accedere ad una occupazione”.

Risulta inoltre violato l’articolo 3 del decreto legislativo 261/2003 che recepisce i principi comunitari, garantendo la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro, senza distinzione di religione. Essendo l’hijab un abbigliamento che connota l’appartenenza alla religione musulmana, si ritiene che la condotta della società costituisca una discriminazione diretta in ragione dell’appartenenza religiosa.

Una differenza di trattamento sarebbe legittimata solo laddove la caratteristica oggetto di trattamento costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima ed il requisito proporzionato. Tuttavia, nel caso in esame, non sussiste alcuna causa di giustificazione non emergendo in alcun documento che il capo scoperto e il divieto di indossare il velo fosse qualificato come requisito indispensabile.

La società è stata dunque condannata al risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla donna.

(Corte d’Appello di Milano - Sezione Lavoro, Sentenza 20 maggio 2016, n. 579)

La Corte d’Appello di Milano ha statuito che è discriminatoria la condotta del datore di lavoro che esclude una donna dalla candidatura per un posto di lavoro per la sua decisione di non togliere il velo.

Il ricorso è stato presentato da una donna, cittadina italiana, che professa la religione musulmana, nei confronti della società che non l’ha ammessa alle selezioni di candidate hostess per una Fiera di calzature poiché non era disposta a togliere il suo hijab, il velo che copre i capelli e lascia scoperto il volto.

Ad avviso del primo Giudice, la condotta della società non ha costituito una discriminazione, né diretta, in assenza di una volontà della società di discriminare la donna, né indiretta, ritenendo l’esclusione giustificata dalla richiesta di candidate con caratteristiche d’immagine incompatibili con l’indossare un copricapo.

Queste argomentazioni non sono state condivise dai giudici della Corte d’Appello che hanno sottolineato il carattere oggettivo che connota la discriminazione: una condotta è discriminatoria se determina in concreto una disparità di trattamento fondata sul fattore tutelato, prescindendo dall’elemento soggettivo dell’agente (stato psicologico, dolo, colpa, buona fede).

Secondo la Corte d’Appello, la decisione della società ha determinato in capo alla donna una “esclusione o restrizione” ai sensi dell’articolo 43 del Testo Unico in materia di immigrazione, “menomando la sua libertà contrattuale e restringendo la possibilità di accedere ad una occupazione”.

Risulta inoltre violato l’articolo 3 del decreto legislativo 261/2003 che recepisce i principi comunitari, garantendo la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro, senza distinzione di religione. Essendo l’hijab un abbigliamento che connota l’appartenenza alla religione musulmana, si ritiene che la condotta della società costituisca una discriminazione diretta in ragione dell’appartenenza religiosa.

Una differenza di trattamento sarebbe legittimata solo laddove la caratteristica oggetto di trattamento costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima ed il requisito proporzionato. Tuttavia, nel caso in esame, non sussiste alcuna causa di giustificazione non emergendo in alcun documento che il capo scoperto e il divieto di indossare il velo fosse qualificato come requisito indispensabile.

La società è stata dunque condannata al risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla donna.

(Corte d’Appello di Milano - Sezione Lavoro, Sentenza 20 maggio 2016, n. 579)