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La condanna di don Giuseppe Andreoli

Ritratto di Giuseppe Andreoli (ASMo, Mappario estense, Stampe e disegni, n. 110).
Ritratto di Giuseppe Andreoli (ASMo, Mappario estense, Stampe e disegni, n. 110).

La condanna di don Giuseppe Andreoli

Nell’ambito del Festival Filosofia 2022, avente a tema la giustizia, l’Archivio di Stato di Modena ha presentato una mostra documentaria dedicata ad alcuni celebri processi cittadini, tra i quali la vicenda di don Giuseppe Andreoli. Essendomi, in passato, già occupato di questo caso per la Storia di Carpi edita dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi, in un saggio più generale firmato con il compianto Gino Badini, ritengo meritevoli di approfondimento le diverse tematiche ad esso sottese, questioni che, sia pure non immediatamente apprezzabili, influenzarono pesantemente la vicenda, facendola divenire ben altro rispetto all’apparente mera esecuzione capitale di un giovane sacerdote. Dietro a essa, infatti, stavano interessi di ordine interno allo Stato e di peso internazionale, che appartenevano tanto alla politica secolare che religiosa.

 

Grida di condanna di Giuseppe Andreoli (ASMo, Miscellanea di alta polizia, b. 1, fasc. 6)
Grida di condanna di Giuseppe Andreoli (ASMo, Miscellanea di alta polizia, b. 1, fasc. 6)

Il 17 ottobre 1822 venne decapitato a Rubiera don Giuseppe Andreoli. La triste vicenda ebbe una grande risonanza e i rivoluzionari identificarono subito il sacerdote come martire, mentre Antonio Panizzi non esitò a definire la condanna un «assassinio».

Giuseppe Andreoli era nato nel 1790 a San Possidonio, in provincia di Modena, da una modesta famiglia di coltivatori diretti che ostacolò la sua vocazione religiosa. Grazie all’interessamento di uno zio sacerdote, don Giovanni Battista Andreoli, ricevette un sussidio dai marchesi Tacoli, aiuto che gli consentì di frequentare l’università a Bologna, e di divenire perito agrimensore nel 1813. Riuscì quindi a coronare la sua vocazione sacerdotale e nel 1819 fu assunto come istitutore dai conti Soliani Raschini di Reggio. Nel 1820 si affiliò alla carboneria e l’anno successivo si vide assegnare le cattedre di umanità e retorica presso il Collegio convitto di Correggio. Arrestato il 26 febbraio 1822, fu condannato a morte dal Tribunale statario residente in Rubiera per l’affiliazione alla carboneria e per avere propagandato la setta. Il duca, con un chirografo datato 11 ottobre 1822, confermò la sentenza, negando la grazia sollecitata anche dal vescovo di Reggio Angelo Ficarelli «per essere [l’Andreoli] non solo reo convinto e confesso dei delitti [...] ma per essere di più stato seduttore della gioventù, e più reo per la sua qualità di Sacerdote e di Professore, delle quali abusò per sedurre la gioventù ed attirarla nella Società dei Carbonari, a cui egli apparteneva». Sconsacrato dal vescovo di Carpi Filippo Cattani in quanto originario di quella diocesi, affrontò il supplizio con animo fermo e rassegnazione. Questa morte suscitò grande emozione: la giovane età del condannato, la sua vocazione sincera e contrastata, le modalità del supplizio e finanche «il lutto della natura» (addirittura, secondo il Vannucci, un violento temporale avrebbe infuriato dalla notte precedente fino all’esecuzione, per calmarsi e far riapparire il sole non appena lavato il sangue del sacerdote), furono gli elementi su cui fondare un mito. In seguito non mancò neppure la riproposizione della sua figura (in chiave conciliatorista) come campione a un tempo del cattolicesimo e del liberalismo.

ASMo, Miscellanea di alta polizia, b. 1, fasc. 6
ASMo, Miscellanea di alta polizia, b. 1, fasc. 6

La Chiesa non censurò questa condanna né presentò l’Andreoli come un martire (a differenza di quanto fatto per le vittime dei tribunali napoleonici), al contrario, lo privò dello status religioso, sanzione prevista per gli apostati e gli eretici. Questa durezza si spiega solamente approfondendo l’essenza della carboneria. Questa, che sembra nata come una sorta di mutuo soccorso fra i militari napoleonici di basso rango, finì ben presto col divenire una massoneria per i ceti bassi, meno speculativa e più dedita all’azione, ma con strutture simili e finalità identiche. I rapporti tra le due società segrete vedevano la massoneria prevalere: i massoni entravano nella carboneria senza iniziazione, mentre per accedere agli alti gradi carbonari occorreva un certo cursus honorum massonico. I carbonari indicavano Cristo come gran maestro dell’universo, ma si trattava di un Cristo spogliato di ogni divinità, icona dei diritti naturali per i quali fu crocifisso, rappresentazione che venne successivamente ripresa dai socialisti prampoliniani. La simbologia era difforme da quella impiegata dalla massoneria solo per le differenze dei corpi sociali cui si rivolgevano: al posto di templi e logge vi erano vendite e baracche, Cristo invece che Hiram, ma gli scopi coincidevano: infiltrare la Chiesa per distruggerla dall’interno. Per usare le parole di Oreste Dito: «La Massoneria è fine; la Carboneria fu uno de’ metodi per raggiungerlo». Le finalità politiche della carboneria prevedevano la nascita di uno stato italiano federale detto Ausonia, governato da un’assemblea sovrana e da due monarchi eletti per ventuno anni, nel quale la religione sarebbe stato un cristianesimo riveduto e richiamato ai suoi principi da un concilio di vescovi, cui spettava anche l’elezione del patriarca, figura destinata a sostituire quella del pontefice. Non era quindi una mera associazione politica, ma un nemico della Chiesa, contro il quale si impegnarono molti sacerdoti, come san Gaspare del Bufalo, tanto attivo nella conversione degli affiliati romagnoli, da essere soprannominato il «martello dei carbonari».

 

ASMo, Miscellanea di alta polizia, b. 1, fasc. 6
ASMo, Miscellanea di alta polizia, b. 1, fasc. 6

Tornando alla vicenda di don Andreoli, occorre soffermarsi sui fatti che precedettero l’esecuzione e sui riflessi che ebbero nei rapporti fra Stato e Chiesa.

Secondo la giurisdizione ecclesiastica, la competenza sul caso era del vescovo di Reggio Angelo Ficarelli, che insistette presso il duca per ottenere un atto di clemenza. Il sovrano, tuttavia, rifiutò la grazia - secondo una tesi - anche a causa della imminente partecipazione al congresso della Santa Alleanza in programma a Verona, dove intendeva mostrarsi come il più ferreo nemico del liberalismo. Francesco IV confermò, quindi, la pena di morte per l’avventato sacerdote, rendendone necessaria la sconsacrazione. Monsignor Ficarelli, chiuso tra l’opzione di contrariare il sovrano e quella di obbedirgli, si accordò con il suo omologo di Carpi Filippo Cattani, affinché fosse lui a procedere alla penosa incombenza. Il clero si divise: una parte preferì non esprimersi, per non entrare in collisione con l’autorità civile in un momento di enorme tensione vissuta in tutti gli strati sociali; altri - capitanati da don Cesare Galvani - appoggiarono apertamente l’intransigenza ducale; alcuni, infine, deplorarono il fatto che il duca non avesse neppure preso in considerazione la possibilità di ripristinare il foro ecclesiastico.

All’epoca il privilegio del foro riservato per gli ecclesiastici, vera e propria forma di immunità, non era più in vigore negli Stati estensi. La vicenda della condanna di don Andreoli offrì la possibilità di riaprire la questione. Nel 1837, don Luigi Reggianini subordinò la sua accettazione della nomina a vescovo di Modena proprio al ripristino di questo privilegio. Si intavolò quindi una trattativa con la Santa Sede che sfociò nel Concordato del 1841. Le convenzioni pattuite prevedevano la competenza dei magistrati statali per tutte le cause meramente civili e quella dell’autorità religiosa per le materie interessanti le norme ecclesiastiche (matrimonio, amministrazione di proprietà ecclesiastiche...). Per la materia penale si distingueva a seconda dell’imputazione addebitata. I delitti di lesa maestà, sedizione e contrabbando restavano di competenza delle corti statali, con l’intervento di un deputato scelto tra il clero. In caso di condanna a morte il fascicolo processuale sarebbe stato trasmesso al vescovo, cui era concesso un congruo termine per decidere se procedere alla degradazione canonica o meno. Poiché questo atto era indispensabile per applicare la massima sanzione, di fatto al presule veniva riconosciuto un potere di grazia nei confronti di eventuali religiosi mandati al patibolo. Per tutte le altre norme criminali il processo era riservato al giudice ecclesiastico, contro le cui sentenze l’autorità statale poteva opporre solo un appello alla Santa Sede. Anche la forza pubblica, nell’operare arresti di religiosi, doveva utilizzare particolari cautele, e la detenzione - tranne che per i casi di competenza statale - era affidata all’autorità ecclesiastica.

ASMo, Miscellanea di alta polizia, b. 1, fasc. 6
ASMo, Miscellanea di alta polizia, b. 1, fasc. 6

In definitiva il caso di don Giuseppe Andreoli si risolse a vantaggio della Chiesa, che, dopo aver subito l’affronto della sua condanna, vedeva ripristinato un privilegio secolare. La gestione del conflitto, tuttavia, concludendo con una considerazione di Graziano Manni, aprì «definitivamente un solco fra parte della Chiesa modenese e i progressisti liberali, quando fu chiaro che l’autorità ecclesiastica più che del destino dello sfortunato prete si preoccupò della questione di principio, del modo cioè in cui si era giunti alla sentenza»

Nota bibliografica

 

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