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La corretta amministrazione dei beni tramite la prevenzione del rischio da reato

Polinesia
Ph. Simona Balestra / Polinesia

“il recupero ed il riutilizzo sociale delle imprese confiscate alle organizzazioni criminali tra prospettive di sostenibilità e casi concreti: l’esperienza Suvignano”

 

Abstract

L’articolo si pone come obiettivo quello di tracciare un quadro generale sull’utilità degli strumenti preventivi e di gestione del rischio da reato nell’ambito della cd. lotta alle mafie, nonché di gestione dei beni che vengono a queste sottratte. La gestione dei beni va individuata in una fase antecedente alla contestazione del reato che può portare ad un sequestro -prima- ed alla confisca -dopo- e cioè in chiave puramente preventiva. Il Legislatore, i giuristi e la giurisprudenza stanno volgendo in univoco senso: la consapevolezza raggiunta anche in seno al diritto fallimentare, con il nuovo Codice della Crisi e dell’Insolvenza che vedrà la sua alba nel 2022, fa intendere come sia indispensabile anticipare la discovery degli elementi patologici per poter, tempestivamente, porvi rimedio. Prevenire, insomma, è meglio che curare! ma, ciò nonostante, è indubbio che gli strumenti di cura rimangano ad oggi ancora centrali nella gestione di Enti “malati”. Così non funziona e proprio la Commissione Lattanzi, il cui DDL andrà in voto alla Camera il prossimo 23 luglio, verge nel senso di implementare strumenti premiali e, per l’effetto, di anticipata risoluzione della patologia. Pertanto, dopo un primo quadro introduttivo che pone un focus sugli strumenti preventivi alle infiltrazioni mafiose, ci si concentrerà sul delineare la disciplina del commissariamento, quale strumento cautelare di gestione di beni.

 

Indice:

1. Sulla forza preventiva del D.lgs. 231/2001

2. Sul contesto della criminalità organizzata

3. Sulle misure cautelari e sul commissariamento: i suoi presupposti

4. Sull’attività del commissario

5. Sull’art. 34 bis del Codice Antimafia

 

Sulla forza preventiva del D.lgs. 231/2001

Benché l’introduzione del D.lgs. fosse da tempo auspicata e la dottrina dibatteva sulla necessità di introdurre una disciplina relativa ai reati di dimensione societaria, all’atto della sua entrata in vigore, l’applicazione è stata piuttosto incerta ed a distanza di 20 anni è ancora dotata di motore a scoppio di prima generazione. La disciplina sulla responsabilità degli Enti collettivi razionalizza la risposta repressiva e, soprattutto preventiva, in ordine a quei reati la cui manifestazione attiene a realtà a struttura organizzata, veicolo delle attuali mafie.

Alla luce della sempre più presenti infiltrazioni di carattere mafioso nell’economia, il D. Lgs. 231/2001 risulta uno strumento di indispensabile efficacia in ordine alla prevenzione di fenomeni tipicamente mafiosi. I mezzi sono differenti a cominciare dai canali istituiti in seno agli enti stessi per consentire ai dipendenti di effettuare segnalazioni anonime (cd. whistleblowing, istituto oggi rafforzato dalla Legge 179/2017); dalla previsione dell’istituzione di un MOG e per le P.A. dei Piani Triennali di prevenzione alla Corruzione.

In seno alla 231, le attività di whistleblowing non erano del tutto ignote, atta la previsione normativa dell’art. 6 comma 2, lett. d secondo cui l’adozione del modello delineato dal D. Lgs. “231” doveva “prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli”.

Una siffatta previsione, del tutto embrionale rispetto ad un vero e proprio sistema strutturato di segnalazioni in stile anglosassone, è stata poi migliorata ed implementata con il già citato intervento del Legislatore del 2017 che, ora, ha stabilito l’obbligo per quegli enti che vogliono dotarsi di gestione ed organizzazione ex D. Lgs. 231/2001 di istituire dei canali di comunicazione idonei, che consentano a quei soggetti che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione, ovvero direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa, nonché per tutte quelle persone alle dipendenze di quest’ultimi, di poter segnalare attività illecite di cui si viene a conoscenza in ragioni delle funzioni svolte

Solo stimolando ed ampliando il ricorso a tali strumenti si potrebbero ridurre le possibilità che infiltrazioni di natura mafiosa si inseriscano in strutture organizzate, proprio grazie ad una collaborazione diretta dello stesso Ente, più che tramite una sovente sterile repressione esterna.

E nel parlare di prevenzione alle associazioni ex artt. 416 e 416-bis nell’ambito del D. Lgs. 231, non si può non guardare alle misure anti-corruttive adottabili dagli enti, essendo la corruzione uno dei principali metodi a mezzo del quale le organizzazioni criminali tentano di infiltrarsi tanto nel pubblico quanto nel privato.

La prevenzione passa, prima ancora dell’adozione di modelli organizzativi specifici, tramite un’autoanalisi dell’ente stesso, il quale sulla base del proprio ambito di operatività, degli affari trattati, della propria struttura, organizzazione ed economia, può evidenziare se vi siano o meno dei fattori di rischio. Uno sguardo pragmatico insomma alla vita dell’ente nella sua interezza, che ha lo scopo di determinare quanto lo stesso sia passibile di fatti di corruzione.

La stessa Anac nel 2015 aveva diffuso delle linee guida per aiutare gli enti nel procedere all’analisi ut supra, aiutando questi a delineare una “scala” di rischio da 1 a 5, sì da aiutarli ad adottare strumenti di prevenzione il più possibile specifici ed incisivi, tentando un saggio coordinamento tra la Legge 190/2012 e il D.lgs. 231/2001. Di primaria importanza per la lotta alla corruzione è la corretta elaborazione di un piano di organizzazione. Il Piano Nazionale Anticorruzione (PNA), rilevando l’obbligo previsto dalla Legge Severino da parte degli enti di diritto Pubblico di dotarsi di un piano di prevenzione alla corruzione, ha elaborato anch’esso delle linee guida. Pur facendo questo riferimento al settore di riferimento, si citano comunque i modelli organizzativi disciplinati dagli artt. 6 e 7 della L. 231/2001, rilevando che, a fini preventivi, modalità organizzative minime si rendano indispensabili, tramite uno scrupoloso monitoraggio dei contratti stipulati e dei vantaggi economici in questi accordati.

Ancora.      

La certificazione UNI ISO 37001 si identifica quale valido strumento di lotta a fenomeni corruttivi, che può costituire un valido supporto alle aziende pubbliche, quanto a quelle private, proprio per la logica e struttura operativa risk based che lo caratterizzano. Uno sguardo pragmatico ai rischi, come si anticipava in apertura del presente paragrafo, che richiede soluzioni altrettanto pragmatiche

L’ISO 37001 ha il dichiarato obiettivo di “costituire, implementare, mantenere, rivisitare e migliorare il sistema di gestione dell’anticorruzione” dell’azienda (il focus è esclusivo nella fattispecie di corruzione), dove, per sistema si intende quel complesso interconnesso di elementi dell’organizzazione volto a definire in concreto le politiche, gli obiettivi e i processi finalizzati alla lotta alla corruzione.

L’approccio operativo, la flessibilità di utenza, la compatibilità del modello, la sua applicabilità multi-giurisdizionale ne fanno uno strumento agile e al contempo potenzialmente efficace che presenta risonanze importanti con modelli esistenti domestici.

Infatti in rapporto al Decreto 231/2001, in materia anticorruzione, l’ISO 37001 si pone come strumento analogo nel merito in molti punti, con il vantaggio della applicazione anche all’estero della materia.

 

Sul contesto della criminalità organizzata

Offerti dei cenni sulla chiara efficacia preventiva del D.Lgs. 231/2001, è ora possibile passare all’esame delle norme che più in concreto riguardano la repressione di fatti di criminalità organizzata, sia essa semplice che di stampo mafioso, come previsto dallo stesso decreto.

L’art. 24 ter, D. Lgs. 231/2001, introdotto dall’art. 2, comma 29, L. 94/2009, rubricato “delitti di criminalità organizzata”, dispone che “In relazione alla commissione di taluno dei delitti di cui agli articoli 416, sesto comma, 416-bis, 416-ter e 630 del codice penale, ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché ai delitti previsti dall’articolo 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, si applica la sanzione pecuniaria da quattrocento a mille quote.

In relazione alla commissione di taluno dei delitti di cui all'articolo 416 del Codice penale, ad esclusione del sesto comma, ovvero di cui all'articolo 407, comma 2, lettera a), numero 5), del codice di procedura penale, si applica la sanzione pecuniaria da trecento a ottocento quote.

Nei casi di condanna per uno dei delitti indicati nei commi 1 e 2, si applicano le sanzioni interdittive previste dall'articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore ad un anno.

Se l’ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei reati indicati nei commi 1 e 2, si applica la sanzione dell’interdizione definitiva dall’esercizio dell'attività ai sensi dell'articolo 16, comma 3”.

Sul tema le criticità più ampie si sono verificate in relazione alla corretta riconducibilità delle fattispecie storiche all’articolo succitato. Non di agevole definizione nella pratica, infatti, la distinzione fra le manifestazioni di criminalità organizzata e di criminalità d’impresa, oltre agli evidenti problemi d’imputazione. Se, infatti, ai sensi degli artt. 416 e 416-bis c.p.p. il semplice inserimento del singolo nell’organizzazione criminale, pur non partecipando questo alla realizzazione dei reati-scopo, è sufficiente per integrare gli estremi delle fattispecie, non si può affermare lo stesso in virtù di un mero inserimento in un’impresa che ha commesso taluni illeciti, seppur riconducibili agli artt. 416 e 416-bis.

L’ulteriore differenza, fonte di criticità, attiene al fatto che gli enti non dovrebbero essere intrinsecamente illeciti poiché non generati con l’intenzione di costituire un sodalizio criminale di natura societaria, ma sono attività operanti anche lecitamente e con scopi anch’essi leciti (Sul tema si veda F. SBISÀ e E. SPINELLI, “Responsabilità amministrativa degli enti (d.lgs. 231/01)”, II Edizione, Wolters Kluwer, 2020).

Pertanto, qualora il sodalizio criminale sorga in seno ad una società operante lecitamente, risulterà di fondamentale importanza la prova dell’autonomia dell’accordo organizzativo criminale rispetto alla società e i conseguenti vantaggi illeciti da quest’ultimi conseguiti (su quest’ultimo punto vi sono delle ulteriori considerazioni da fare che si affronteranno nel prosieguo).

In giurisprudenza nota è la sentenza della Corte d’Appello di Milano nel caso Scientology, intervenuta tempo prima rispetto all’introduzione della fattispecie in esame, laddove si affermava che, l’organizzazione criminale e l’ente in seno al quale la prima sorge, possono essere due entità completamente distinte ed autonome.

 Il passo successivo che la giurisprudenza ha dovuto affrontare è relativo al concreto vantaggio apportato all’ente, ai fini dell’individuazione del profitto confiscabile.

(cfr. App. Milano 05.11.1993; confermata, infine, da App. Milano 5.10.2000 in sede di rinvio dalla Cassazione).

Il rischio prospettato è stato quello di estendere in maniera indiscriminata, e in violazione del principio di tassatività, tutti i reati fine dell’associazione a delinquere, estranei al catalogo di reati previsti dal D. Lgs. 231/2001. Un primo orientamento ritiene che possa costituire profitto confiscabile anche quello derivante da reati fine non previsti tra i reati-scopo, nella misura in cui l’associazione è risultata quale strumento agevolante la commissione del reato (Cass. Pen., Sez. II, 26.6.2014, n. 28969; Cass. Pen., Sez.III, 27.1.2011). Un secondo orientamento invece, con la sentenza n. 3635 del 24 gennaio 2014 della Suprema Corte, aveva rimarcato come “qualora si proceda per associazione per delinquere e per reati non previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità dell’ente collettivo, la rilevanza di questi ultimi non può essere indirettamente recuperata [...] per il loro carattere di delitti scopo del reato associativo contestato”.

L’art. 416 c.p. non avrebbe pertanto potuto fungere da fattispecie aperta ed elastica (da taluni definita “cavallo di Troia”), e rendere rilevanti per gli enti anche reati non considerati dal legislatore. L’art. 24-ter D. Lgs. 231/2001 non avrebbe potuto essere invocato per ribaltare il principio di tassatività alla base del sistema punitivo anche delle persone giuridiche. 

La dottrina ha tuttavia evidenziato come tale conclusione ermeneutica delle Corte sia stata successivamente “aggirata” dalla giurisprudenza mediante la individuazione nel vantaggio conseguito mediante la realizzazione dei reati-fine del profitto confiscabile a carico dell'ente. La “via patrimoniale” avrebbe pertanto consentito di ricondurre in capo alla persona giuridica le conseguenze penali anche di illeciti non inclusi nella “lista nera”. Sul punto sarà necessario, pertanto, attendere un intervento delle Sezione Unite, sì da rendere certo quali somme di provenienza illecita ai sensi dell’art. 24-ter possano ritenersi confiscabili.

Ma tornando alla sentenza della Corte d’Appello di Milano, questa risulta di fondamentale importanza in ordine alla gestione dei beni sequestrati alla mafia, secondo quella che è la disciplina del D. Lgs. 231/2001. L’art. 24-ter, infatti, anche alla luce della succitata impostazione, pare delineare un sistema a doppio binario, laddove prevede che qualora l’ente sia lecito e svolga attività prevalentemente lecita (come nel caso di Scientology) ai sensi dei commi 1 e 2, allora si procederà ad applicare le misure interdittive ex art. 9 D. Lgs. 231/2001.

Qualora, invece, l’ente si caratterizzi per il carattere prevalentemente o unicamente illecito, si applicherà la sanzione interdittiva definitiva ex art. 16, comma 3 dell’ente con inevitabile morte dell’ente.

La ratio è condivisibile. Il Legislatore ha infatti ritenuto che l’interesse alla preservazione degli enti e delle loro attività, organizzazioni, avviamento e ricchezze sussista solo quanto l’ente non sia intrinsecamente ed integralmente affetto dall’illiceità derivante dal funzionale collegamento con un’organizzazione mafiosa. Solo un ente che autonomo e distinto dall’organizzazione criminale e svolgente prevalentemente attività lecite, pur avendo goduto di vantaggi illeciti, gode di un interesse al suo preservamento, nell’ottica della salvaguardia di quella porzione lecita dell’ente.

 

Sulle misure cautelari e sul commissariamento: i suoi presupposti

Proseguendo nel discorso di conservazione e gestione degli enti interessati da manifestazioni di gruppi criminali alla luce della disciplina ex D. Lgs. 231/2001 non può non citarsi il commissariamento ai sensi degli artt. 15 e 45, comma 3. Ai sensi dell’articolo 45, “Quando sussistono gravi indizi per ritenere la sussistenza della responsabilità dell’ente per un illecito amministrativo dipendente da reato e vi sono fondati e specifici elementi che fanno ritenere concreto il pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede, il pubblico ministero può richiedere l'applicazione quale misura cautelare di una delle sanzioni interdittive previste dall'articolo 9, comma 2, presentando al giudice gli elementi su cui la richiesta si fonda, compresi quelli a favore dell'ente e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate. […] In luogo della misura cautelare interdittiva, il giudice può nominare un commissario giudiziale a norma dell'articolo 15 per un periodo pari alla durata della misura che sarebbe stata applicata”. Continua, pertanto, l’articolo 15 laddove si afferma che in luogo della misura interdittiva è possibile consentire la prosecuzione dell’attività dell’Ente tramite la nomina di un commissario ad hoc, qualora ricorra uno dei seguenti presupposti:

“a) l'ente svolge un pubblico servizio o un servizio di pubblica necessità la cui interruzione può provocare un grave pregiudizio alla collettività;

b) l'interruzione dell’attività dell’ente può provocare, tenuto conto delle sue dimensioni e delle condizioni economiche del territorio in cui è situato, rilevanti ripercussioni sull’occupazione.

Con la sentenza che dispone la prosecuzione dell’attività, il giudice indica i compiti ed i poteri del commissario, tenendo conto della specifica attività in cui è stato posto in essere l'illecito da parte dell'ente.

Nell'ambito dei compiti e dei poteri indicati dal giudice, il commissario cura l’adozione e l’efficace attuazione dei modelli di organizzazione e di controllo idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Non può compiere atti di straordinaria amministrazione senza autorizzazione del giudice.

Il profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività viene confiscato.

La prosecuzione dell'attività da parte del commissario non può essere disposta quando l’interruzione dell’attività consegue all'applicazione in via definitiva di una sanzione interdittiva”.

Il commissariamento dell’ente è una misura volta a salvaguardarne gli interessi, laddove una misura interdittiva o di altro provvedimento cautelare ne lederebbe irrimediabilmente l’attività, anche a tutela di tutti quei soggetti che con quello specifico ente hanno intrattenuto rapporti.

Tra i presupposti individuati ai fini dell’applicazione del commissariamento, infatti all’art. 15, comma 1, lett. b) si prevede che qualora l’interruzione dell’attività comporti un nocumento per i livelli occupazionali e per l’economia del territorio in cui l’ente si trova ad operare, allora si rende preferibile il commissariamento, grazie al quale l’attività avrà modo di proseguire al fine di mantenerne gli assetti strutturali ed economici per lo meno invariati.

Altri presupposti si concretizzano nello svolgimento di un servizio pubblico o di pubblica necessità la cui interruzione possa causare pregiudizio alla collettività.

La misura, pertanto, si pone come eccezionale, essendo collegata ad esigenze specifiche, tassativamente previste che richiedono il rischio di gravi pregiudizi al fine di poter azionare la procedura di commissariamento.

 

Sull’attività del commissario

Il combinato disposto degli artt. 4 e 15 D. Lgs. 231/01, pone dei problemi di carattere interpretativo e pratici non trascurabili in ordine ai poteri di cui il commissario dispone.

In particolare la distinzione fra atti di ordinaria e di straordinaria amministrazione, richiedendosi per i secondi l’autorizzazione del giudice. Senza ulteriori specificazioni la disciplina appare piuttosto vaga, non fornendo mai il nostro Legislatore una definizione certa utile ai fini dell’individuazione della natura degli atti.

Inoltre va evidenziato che, nell’ambito delle misure cautelari, la distinzione fra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione pone anche ulteriori dubbi di carattere interpretativo in considerazione del fatto che il commissariamento ha lo scopo di attuare una gestione prevalentemente conservativa dell’ente e non anche di libera disposizione.

Volendo tuttavia individuare una giurisprudenza che offra aiuto in ordine alla distinzione nell’ambito del D.lgs. 231/2001 è possibile citare la sentenza del Consiglio di Stato del 13 luglio 2006, n. 4415 che fornisce un’interpretazione di atti di ordinaria e straordinaria amministrazione.

Il caso ha ad oggetto un ricorso proposto da un ente della sanità regionale commissariato, il quale lamentava la decisione del Tar laddove si disponeva che l’ente non fosse abilitato a partecipare ad una trattativa, con la quale si intendeva prorogare un contratto d’appalto con un’azienda funzionale alla pulizia e sanificazione dei locali.

La massima giurisprudenza in ambito amministrativo sul punto, richiamando anche la giurisprudenza civile, ha stabilito che il criterio per distinguere gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione non attiene al carattere “conservativo” o meno dell’atto, in quanto l’attività imprenditoriale è attività che presuppone una disposizione dei beni dell’impresa. Pertanto, senza fornire una definizione scolastica, il Consiglio di Stato rimanda con pragmaticità all’osservazione in concreto dell’attività dell’ente commissariato, affermando che l’ordinarietà e normalità di un atto andrà valutato calandolo nel contesto in cui l’ente ordinariamente e normalmente opera.

A parere di chi scrive, non potrebbe essere diversamente. Se si accettano infatti criteri quali la “normalità” e “l’ordinarietà” in ordine all’identificazione della natura di un atto, non può tale identificazione slegarsi dalla realtà dell’ente, tramite un’astrazione delle definizioni che finirebbero con il trattare alla stessa maniera enti tra loro completamente diversi, vanificando i principi governanti il commissariamento, quali sono da un lato la prevenzione e sterilizzazione di attività illecite e dall’altro la salvaguardia della continuità aziendale e dei fattori produttivi. Tale impostazione è sostanzialmente quella di tutta la giurisprudenza civile che da anni si esprime sul tema e che, pertanto, il Consiglio di Stato non poteva non recepire, trasferendone i principi anche nell’ambito del decreto de qua.

Perché si possa parlare tuttavia di una corretta e sana gestione degli enti commissariati nell’ambito del D. Lgs. 231/2001 è però necessario che il Legislatore faccia uno sforzo per andare colmare quelle lacune interpretative che una siffatta legge pone, lacune oggi parzialmente colmate solo grazie allo sforzo della giurisprudenza e della dottrina.

Traslando le riflessioni de qua nell’ambito del commissariamento ex artt. 45 e 15, si può dunque affermare che questo possa esercitare tutta la tipica attività d’impresa fatta forse eccezione per gli atti di cessione, che vadano evidentemente a ledere la salvaguardia degli assetti aziendali.

Qualora, invece, cessioni si ritenessero necessarie anche nel rispetto della salvaguardia dell’ente (si pensi alla necessità di una drastica riduzione dei costi e recupero di liquidità) ecco che allora si può parlare di atto di straordinaria amministrazione richiedendosi l’autorizzazione del giudice.

Di fondamentale importanza, infine, la previsione di cui al comma 4 dell’articolo in commento “Il profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività viene confiscato”. Il Legislatore ha infatti voluto sterilizzare l’ipotesi che l’adozione della misura in commento potesse trasformarsi in un beneficio per l’ente poi ritenuto responsabile, sottraendo il profitto sorto nell’ambito dell’attività di commissariamento tramite la confisca.

 

Sull’art. 34 bis del Codice Antimafia

In ultimo rileva indubbiamente la previsione di cui all’articolo 34-bis del Codice Antimafia, laddove il Decreto 231 rappresenta indubbiamente uno strumento di grande valore nelle mani dell’amministrazione giudiziaria chiamate ad amministrare enti in seno ai quali si richiede il ripristino della legalità “Con il provvedimento di cui alla lettera b) del comma 2, il tribunale stabilisce i compiti dell’amministratore giudiziario finalizzati alle attività di controllo e può imporre l’obbligo:

a) di non cambiare la sede, la denominazione e la ragione sociale, l’oggetto sociale e la composizione degli organi di amministrazione, direzione e vigilanza e di non compiere fusioni o altre trasformazioni, senza l’autorizzazione da parte del giudice delegato;

b) di adempiere ai doveri informativi di cui alla lettera a) del comma 2 nei confronti dell’amministratore giudiziario;

c) di informare preventivamente l’amministratore giudiziario circa eventuali forme di finanziamento della società da parte dei soci o di terzi;

d) di adottare ed efficacemente attuare misure organizzative, anche ai sensi degli articoli 6, 7 e 24-ter del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, e successive modificazioni;

e) di assumere qualsiasi altra iniziativa finalizzata a prevenire specificamente il rischio di tentativi di infiltrazione o condizionamento mafiosi”.

Proprio al fine di eseguire l’amministrazione delle imprese sottoposte a sequestro nella maniera più corretta e trasparente possibile si conferisce la facoltà all’amministrazione giudiziaria di dotarsi di adeguati modelli organizzativi così come disciplinato agli artt. 6 e 7 del D.lgs. 231.

In tale ambito l’applicazione della norma de qua, lett. d), così come del modello 231 in generale, è risultato piuttosto timido e solo negli ultimi anni sta conoscendo un’espansione sempre maggiore.

Anche il Tribunale di Torino, recentemente, ha conosciuto una vicenda sui temi qui trattati, laddove il difensore dell’ente chiedeva che il proprio assistito potesse accedere al controllo giudiziario ex art. 34-bis, rappresentando che - citando una circolare del Ministero dell’Interno - che “lo strumento in esame può trovare applicazione su iniziativa dell’operatore interessato solo quando “l’informazione interdittiva antimafia sia stata adottata in relazione a situazioni fattuali in cui il tentativo o pericolo di infiltrazione o condizionamento delle scelte imprenditoriali sia di modesta e ridotta intensità, e, in ogni caso, tale da rendere possibile o consentire la eliminazione delle anomalie riscontrate mediante interventi attuati all’interno e dall’interno” dell’azienda”.

Il controllo giudiziario trova la sua ratio, secondo la relazione finale della Commissione Fiandaca, nell’obiettivo di promuovere il recupero delle imprese infiltrate dalle organizzazioni criminali, nell’ottica di bilanciare in maniere più equilibrata gli interessi che si contrappongono in questa materia (Cass. Sez. V, n. 34526/18).

Precisa dunque il Ministero che, posto l’effetto della sospensione dell’informazione antimafia interdittiva da parte del provvedimento che dispone in controllo giudiziario, l’impresa ritorna “in bonis”, senza che ciò comprometta le finalità di prevenzione della legislazione amministrativa antimafia (circolare del Ministero dell’Interno del 2 novembre 2018, n. 11001/119/20(8)-A, in risposta ad un quesito proposto dalla Prefettura di Catanzaro).

Pertanto, l’adozione di modelli organizzativi è assolutamente funzionale a prevenire la morte delle realtà aziendali, in quanto sintomo di un allontanamento dell’ente da realtà mafiose. Chiaro è che i modelli organizzativi ex Decreto 231 o ISO 37001 non sterilizzano completamente la possibilità che gruppi criminali si infiltrino nelle realtà organizzative aziendali, ma rappresentano senza dubbio un ulteriore barriera posta a difesa degli imprenditori stessi e di tutti i soggetti che entrano nell’orbita dell’ente in questione.