La discriminazione delle minoranze etniche in Italia
L’anticamera culturale della discriminazione per motivi di razza
Sotto il profilo semantico, Fiske (2000) rimarca che “il concetto di discriminazione non dev’essere confuso con quello di stereotipo, del quale è una manifestazione […].
Lo stereotipo è una semplificazione della realtà, che, in campo sociale, si esprime attraverso l’associazione dell’appartenenza ad un gruppo con determinate caratteristiche […].
Lo stereotipo, dunque, non è né giusto né sbagliato, fino a quando non genera il pregiudizio, ossia la convinzione […] che lo stereotipo fornisce una descrizione accurata della realtà”.
Altrettanto preciso è pure Martin (2018) quando asserisce che “il pregiudizio, in sé, può rimanere una convinzione interiore; la discriminazione, invece, è una sua manifestazione esteriore, che non può essere tollerata da un Ordinamento [giuridico] democratico fondato [ex Art. 3 Cost.] sulla pari dignità delle persone”.
La profonda anti-giuridicità del pregiudizio, in tema di discriminazione razziale, è ribadita anche da Popper (1945), a parere del quale “se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante, contro l’attacco degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti, e la tolleranza con loro”.
Del resto, sotto il riguardo giurisprudenziale, anche Corte EDU, Garaudy vs. Francia, 24/06/2003, sempre in tema di discriminazione razziale, afferma, nelle Motivazioni, che “il contenuto principale ed il tenore generale del libro del ricorrente [condannato, dall’AG francese, per razzismo], e il suo scopo, sono marcatamente revisionisti e, perciò, confliggono con i valori fondamentali della CEDU, come espressi nel suo Preambolo e [violano, in particolare] i valori della giustizia e della pace […]. Il ricorrente tenta di distogliere l’Art. 10 CEDU dal suo vero scopo, utilizzando una libertà di espressione contraria al testo ed allo spirito della CEDU. Tali scopi, se ammessi, contribuirebbero alla distruzione dei diritti e delle libertà garantiti dalla CEDU”.
L’Art. 10 CEDU, in tema di (non) libertà di espressioni razziste, è richiamato pure da Corte EDU, Glimmerveen vs. Paesi Bassi, 11 ottobre 1979, ovverosia “i ricorrenti [che hanno diffuso volantini di tenore xenofobo] cercano di usare [l’art. 10 CEDU] per dedicarsi ad attività ad essa contrarie, vale a dire diffondere idee discriminatorie dal punto di vista della razza”.
Testi di normazione nazionali e sovrannazionali in tema di discriminazione razziale
La principale base giuridica, nell’Ordinamento italiano, per le tutele anti-discriminatorie è costituita dall’Art. 3 Cost., ai sensi del quale “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Sotto il profilo della tutela penalistica delle minoranze, è altrettanto fondamentale la Convenzione di New York dell’ONU, risalente al 1966 e ratificata, nel Diritto italiano, dalla L. 654/1975.
Molto importante è l’Art. 14 CEDU, rubricato “divieto di discriminazione”; esso recita che: “il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti [nella CEDU] dev’essere assicurato, senza distinzione di alcuna specie, come di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”. Ognimmodo, si tenga presente che l’attuazione della CEDU è, nel concreto, resa quotidianamente possibile dallo stare decisis della Corte di Strasburgo.
Da segnalare è pure la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, in tema di uguaglianza avanti alla legge, di rispetto delle diversità culturali, religiose e linguistiche, e di parità tra varie etnie. A sua volta, l’Art. 3 comma 3 del Trattato di Lisbona asserisce che “l’UE combatte l’esclusione sociale, le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociale, la parità tra donne e uomini, [la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore]”. Di egual tenore, in tema di razzismo, è anche l’Art. 6 del medesimo Trattato di Lisbona.
Merita di essere menzionata, nel contesto del Diritto europeo, la Direttiva 2000/43/CE del 29/06/2000 in tema di parità di trattamento tra le persone, indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. Fondamentale è pure la Direttiva 2000/78/CE sulla discriminazione nei luoghi di lavoro. Oltretutto, l’UE ha pure pubblicato, con afferenza alla tematica dell’odio razziale, il Manuale di Diritto europeo della non discriminazione, allestito a cura dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’UE.
Si consideri, inoltre, che, nella L. 654/1975, è contenuta la definizione autentica del lemma “discriminazione”, la quale si configura come “ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine etnica, avente lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica”.
Siffatta qualificazione autentica è stata inserita anche nell’Art. 43 Decreto Legislativo 286/1998 (TU sull’immigrazione), ovverosia: “ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni o le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali, in campo politico, sociale, economico e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica“.
Nella Direttiva UE sull’uguaglianza razziale, si distingue tra la discriminazione diretta e quella indiretta, ossia: “sussiste una discriminazione diretta quando, a causa della sua razza o origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga […]. Sussiste una discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere persone di una determinata razza o origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone […] Una differenza di trattamento può consistere nell’effetto sproporzionatamente pregiudizievole di una politica o di una misura generale che, seppur formulata in termini neutri, produce una discriminazione nei confronti di un determinato gruppo“.
Rimedi civilistici contro la discriminazione razziale
Malauguratamente, la Convenzione ONU di New York del 1966 ipostatizzava i soli strumenti rimediali penalistici per il contrasto alla discriminazione razziale. Nell’Ordinamento nazionale italiano, l’Art. 44 TU sull’immigrazione (DLVO 286/1998) prevde, dopo decenni di lacune precettive, che “quando il comportamento di un privato o della PA produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, linguistici, nazionali, di provenienza geografica o religiosi, è possibile ricorrere all’AG ordinaria per domandare la cessazione del comportamento pregiudizievole e la rimozione degli effetti della discriminazione […]. Qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un comportamento discriminatorio di carattere collettivo, anche nel caso in cui non siano individuabili, in modo immediato e diretto, i lavoratori lesi dalle discriminazioni, il ricorso può essere presentato dalle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale“.
Anzi, il comma 8 Art. 44 TU sull’immigrazione unisce lo strumento civilistico a quello penalistico, in tanto in quanto statuisce che “chiunque elude l’esecuzione di provvedimenti diversi dalla condanna al risarcimento del danno, resi dal giudice nelle controversie previste dal presente Articolo, è punito ai sensi dell’Art. 388 primo comma CP [mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice]”. L’Art. 44 TU sull’immigrazione è stato, in seguito, esteso a qualunque discriminazione etnica sul posto di lavoro, grazie ai D.LVI 215/2003 e 216/2003, i quali, a loro volta, hanno recepito le Direttive UE 2000/43/CE nonché 2000/78/CE. L’Art. 44 TU sull’immigrazione è stato introdotto pure nella L. 67/2006, afferente al tema della disabilità e nel DLVO 198/2006, che attiene alla parità tra uomo e donna.
Sempre sotto il profilo civilistico, l’Art. 28 DLVO 150/2011 ha stabilito che, in caso di discriminazioni per motivi di etnia, è competente il giudice ordinario, sia nella fase cautelare, sia in quella di merito, come, d’altronde, previsto dalle Normazioni sovrannazionali ratificate dall’Italia. A tal proposito, si vedano anche Cass., SS.UU., 15 febbraio 2011, n. 3670 nonché Cass., SS.UU., 30 marzo 2011, n. 7186. Inoltre, l’onere della prova è invertito, in tanto in quanto, come statuito dalla Giurisprudenza della Corte EDU, spetta al convenuto, citato per discriminazione razziale, provare l’insussistenza dell’accusa.
Pure in tema di competenza territoriale, prevale la ratio della massima tutela della parte processuale debole, giacché è competente il Tribunale ove ha domicilio il ricorrente. Il giudice ordinario può determinare un risarcimento, per i danni pecuniari, ma anche morali, patiti dal discriminato. Inoltre, il Magistrato può adottare qualsivoglia provvedimento finalizzato alla rimozione del pregiudizio di matrice razziale. È pure prevista, nel Decreto Legislativo 150/2011, la possibilità, a titolo riparatorio, di pubblicare il dispositivo della Sentenza di condanna su un quotidiano locale o nazionale. Va notato, in particolar modo, che, nella Procedura Penale, sono perseguiti atti discriminatori dolosi, mentre, nell’ambito della tutela civilistica, non è richiesta necessariamente la piena volizione dolosa da parte del condannato.
Notevole, sempre sotto il profilo del Diritto Civile, è stata la costituzione ed il rinnovo, perlomeno dal punto di vista simbolico, dell’UNAR, Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali.
L’UNAR anticipa le spese processuali alla parte lesa, ma, solitamente, lavora con associazioni accreditate per le discriminazioni collettive, nel contesto delle quali l’associazionismo può avere un ruolo effettivo, mentre, per i Procedimenti bagatellari, è raro l’intervento di supporto dell’UNAR. È opportuno segnalare che l’UNAR ha recentemente sottoscritto un Protocollo di sinergia con il Consiglio Nazionale Forense per la gestione di un fondo-spese a beneficio di quelle vittime di razzismo le quali, per motivi di fascia reddituale, non hanno accesso al gratuito patrocinio.
I Rom, i Sinti ed i Caminanti nell’Ordinamento giuridico italiano
Secondo l’autorevole parere contenuto nella Comunicazione della Commissione UE n. 173 dello 05/04/2011, “i Rom, i Sinti ed i Caminanti sono la minoranza più discriminata d’Europa”. Analogo è pure il parere di svariati Precedenti della Corte EDU. Anzitutto e soprattutto, le violenze in danno delle tre summenzionate minoranze si sostanziano in atti fisici e sterilizzazioni forzate, ma un riguardo particolare va riservato alla tematica della mancata integrazione scolastica, in tanto in quanto i bambini Rom sono erroneamente separati, di solito, dai coetanei, nel nome di presunti deficit cognitivi che non tengono in alcun conto le loro specificità culturali.
In Europa, tale “segregazione scolastica” dei minorenni zingari è stata apertamente denunziata da Corte EDU, Grande Camera, DH vs. Repubblica Ceca, 13/11/2007, Corte EDU, Sampanis vs. Grecia, 05/06/2008, Corte EDU Orsus vs. Croazia, 16/03/2010, Sampani vs. Grecia, 11/12/2012 nonché da Corte EDU, Horvath vs. Ungheria, 29/01/2013. Oppure ancora, si ponga mente alla tanto difficile tematica del matrimonio nella civiltà Rom. P.e., Corte EDU, Munoz Diaz vs. Spagna, 08/12/2009 ha asserito che “deve ritenersi ingiustificato l’omesso riconoscimento, [anche] ai fini della pensione di reversibilità, del matrimonio celebrato secondo il rito Rom“.
Interessante è pure Corte EDU, Seidic e Finci vs. Bosnia Erzegovina, 22/12/2009, la quale ha dichiarato come contrario alla CEDU il divieto di candidarsi alle elezioni politiche per i semi-nomadi yugoslavi, giacché “in applicazione del Protocollo addizionale [alla CEDU] n. 12 Art. 1, vanno ritenuti discriminatori gli Accordi di Dayton, recepiti nella Costituzione della Bosnia Erzegovina, nella parte in cui riservano l’accesso alle più alte cariche dello Stato [esclusivamente] ai membri di cc.dd. popoli costituenti, ovvero serbi, bosniaci e croati“.
Per quanto afferisce alla Giurisprudenza italiana, va segnalata la Sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 16/11/2011, la quale sottolinea che “l’emergenza [sui campi Rom] dichiarata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministi [con tre Ordinanze immediatamente esecutive] in data 30/05/2008 […] era gonfiata, non essendovi sufficienti dati di fatto che la supportassero“. In particolare, Consiglio di Stato, sez. IV, 16/11/2011 ha dichiarato costituzionalmente illegittima la facoltà della PG di identificare e fotosegnalare chiunque entrasse nei campi Rom.
Altrettanto illegittimo è lo smantellamento indiscriminato [iniziato nel 2008] delle roulottes Rom, nel nome di una presunta inagibilità totale delle dimore provvisorie gitane. In buona sostanza, Consiglio di Stato, sez. IV, 16/11/2011 ha impedito la dichiarazione di uno stato emergenziale reputato frutto di mere ideologie politiche xenofobe e non applicabili, in concreto, nel nome del principio di eguaglianza ex Art. 3 Cost.
La natura ontologicamente discriminatoria dei campi Rom
La Risoluzione del Parlamento europeo dell’11/03/2009 (ripresa dalla Risoluzione dello 09/03/2011) ha affermato che “[bisogna] risolvere il problema dei campi Rom, dove manca ogni norma igienica e di sicurezza e nei quali un gran numero di bambini Rom muore in incidenti domestici […]. [Bisogna] adottare inziative volte all’inclusione ed alla protezione sociale”.
Di egual tenore è stata pure la Comunicazione n. 173 dello 05/04/2011, allestita dalla Commissione UE, la quale, oltre a stanziare ben 10 Miliardi di euro di sostentamento, ha sottolineato che “quella dei Rom è la principale minoranza emarginata d’Europa ed occorre mettere in atto una strategia imperniata su quattro punti: fare in modo che tutti i bambini Rom completino almeno la scuola primaria, ridurre il divario occupazionale rispetto al resto della popolazione, garantire l’accesso all’assistenza sanitaria e garantire pure l’accesso all’alloggio e ai servizi essenziali […]. [Bisogna] aumentare l’accesso ad un ampio ventaglio di soluzioni abitative, in un’ottica partecipata di superamento definitivo di logiche emergenziali e di grandi insediamenti monoetnici”.
D’altronde, anche in Sardegna, la Legge Regionale 9/1988, all’Art. 7, dispone che “i Comuni adott[i]no opportune iniziative atte a favorire l’accesso alla casa delle famiglie nomadi che facciano la scelta della vita sedentaria, utilizzando, a tal fine, le leggi vigenti e, in particolare, le agevolazioni previste dal fondo sociale europeo”.
Oppure ancora, da segnalare è l’Ordinanza del Tribunale Ordinario di Roma recante data 30/05/2015.
Essa ritiene che “la presenza dei campi Rom è discriminatoria già per il solo fatto di rappresentare una soluzione abitativa di grandi dimensioni, [ma] rivolta ad un solo gruppo etnico specifico e priva dei caratteri tipici di un’azione positiva […]. Deve, infatti, intendersi discriminatoria qualsiasi soluzione abitativa di grandi dimensioni [ma ] rivolta esclusivamente a persone appartenenti ad una stessa etnia, tanto più se realizzata […] in modo da ostacolare l’effettiva convivenza con la popolazione locale, l’accesso, in condizioni di reale parità, ai servizi scolastici e socio-sanitari, [il tutto] in uno spazio dove è posta in serio pericolo la salute delle persone ospitate [all’interno del campo Rom]. I campi Rom sono discriminatori in tanto in quanto essi sono insediamenti monoetnici, illegittimi anche indipendentemente dalle condizioni igieniche, sanitarie, geografiche ed abitative […]: La questione delle soluzioni abitative per i Rom rientra nell’ambito più generale delle norme di tutela del diritto all’abitazione”.
Da affrontare è pure il problema della cittadinanza dei Rom, tranne per quelli che, come i Sinti, sono, in gran parte, già di nazionalità italiana. I gitani provenienti da Paesi comunitari sono, in gran parte, Rumeni e, per conseguenza, ai sensi del Decreto Legislativo 30/2007, godono appieno della libertà di circolazione, di soggiorno e di stabilimento in tutto il territorio dell’UE.
Oltretutto, il Decreto Legislativo 32/2008, in attuazione della Direttiva CE 2004/38/81, prevede, sotto il profilo dei Lavori Preparatori, che “l’allontanamento dal territorio nazionale può essere disposto solo per motivi imperativi di pubblica sicurezza, i quali sussitono [solo] quando la persona da allontanare abbia tenuto comportamenti che costituiscono una minaccia concreta, effettiva e grave ai diritti fondamentali della persona, ovvero all’incolumità pubblica, rendendo urgente l’allontanamento, perché la ulteriore presenza della persona sul territorio è incompatibile con la civile convivenza”.
Per quanto afferisce, poi, ai Rom extracomunitari, si applica il Decreto Legislativo 286/1998, con il beneficio ulteriore di poter richiedere lo stato di rifugiato o il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Peraltro, si tenga conto che, nei campi Rom, molti bambini sono apolidi. Di solito, gli zingari in situazione di apolidia provengono dalla ex-Yugoslavia e non possiedono alcun documento d’identità, a causa della guerra slavo-balcanica di secessione degli Anni Novanta del Novecento.
La tutela della Corte EDU nei confronti della minoranza Rom
Nella Giurisprudenza della Corte EDU, la minoranza Rom è stata ed è tutelata soprattutto alla luce degli Artt. 8 e 14 CEDU.
L’Art. 8 CEDU, in tema di diritto al rispetto della vita privata e familiare, recita che “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. Non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto, a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del Paese, alla difesa dell’ordine ed alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui“.
L’Art. 14 CEDU, con riguardo al divieto di discriminazione, prevede che “il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella CEDU dev’essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.
Per esempio, Corte EDU Aksu vs. Turchia, 15/03/2012 ha asserito l’illegittimità di pubblicazioni ufficiali di rango statale a contenuto razzista. Oppure, sempre alla luce degli Artt. 8 e 14 CEDU, Corte EDU V.C. vs. Slovacchia, 08/11/2011 nonché Corte EDU, N.B. vs. Slovacchia, 12/06/2012 hanno condannato la sterilizzazione coatta delle donne zingare in età fertile. Altrettanto da segnalare è pure la tutela, ai sensi della CEDU, della privacy familiare ed abitativa dei gitani, come dimostrano Corte EDU Moldovan et al. vs. Romania, 12/07/2005 nonché Corte EDU, Koky et al. vs. Slovacchia, 12/06/2012. Del pari, Corte EDU Buckley vs. Regno Unito, 25/09/1996 ha inteso tutelare persino il diritto dei nomadi a poter parcheggiare le roulottes, in tanto in quanto lo sgombero immotivato, ex Artt. 8 e 14 CEDU, viola, secondo i Magistrati di Strasburgo, “il diritto allo stile di vita tradizionale [di chi fa una scelta seminomade]”.
Il rispetto, financo eccessivo, delle tradizioni etniche delle minoranze ex Artt. 8 e 14 CEDU viene tutelato pure in Corte EDU Connors vs. Regno Unito, 27/05/2004, nella quale si nota che “dalla posizione vulnerabile della minoranza Rom discende un’obbligazione positiva, per lo Stato, ad una speciale considerazione dei bisogni ed alla facilitazione dello stile di vita zingaro. Al di là delle considerazioni sulla difficoltà, per i Rom, di condurre una vita conforme ai propri convincimenti culturali tradizionali [ex Artt. 8 e 14 CEDU], […] l’Art. 8 CEDU viene violato se l’ordine di sgombero [dei camper] risulta essere una misura sproporzionata e non giustificata da un bisogno sociale pressante”.
Ciononostante, Corte EDU Connors vs. Regno Unito, 27/05/2004 non offre alcuna proposta risolutiva afferente all’altrettanto notevole problematica della evidente criminogenesi all’interno degli accampamenti Rom. Probabilmente, Corte EDU Connors vs. Regno Unito, 27/05/2004 ipostatizza eccessivamente, nell’ottica degli Artt. 8 e 14 CEDU, il “diritto allo stile di vita tradizionale“, che, sovente, tuttavia, non è compatibile con il mantenimento della sicurezza pubblica.
Senza dubbio interessante è pure Corte EDU Nachova et al. vs. Bulgaria, 26/02/2004, in cui i ricorrenti erano quattro familiari di due ventenni Rom bulgari uccisi a causa di un illegittimo e sproporzionato uso della forza fisica durante un arresto. Corte EDU Nachova et al. vs. Bulgaria, 26/02/2004 ha statuito, per la prima volta nella Giurisprudenza di Strasburgo, che “bisogna invertire l’onere della prova […] [quindi] sono le autorità dello Stato – nello specifico, il militare che aveva ucciso i due giovani e le forze inquirenti che avevano condotto le indagini – a dover dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, l’assenza della motivazione razziale [ex Art. 14 CEDU] a fondamento del loro comportamento illegittimo e lacunoso“.
Simile è pure Corte EDU Anguelova vs. Bulgaria, 13/06/2002, la quale ha valutato il ricorso della Madre di un 17enne Rom morto a seguito delle violenze commesse in caserma dai poliziotti durante un arresto. Anche in tal caso, l’onere della prova “oltre ogni ragionevole dubbio“ è stato invertito, caricando la Polizia bulgara di fornire la prova della mancanza di un uso della forza smisurato, illegittimo e, soprattutto, motivato da odio razziale come p. e p. ex Art. 14 CEDU. Anzi, la zona slavo-balcanica ha dovuto affrontare spesso la tematica della violenza xenofoba delle forze dell’ordine nei confronti di Rom sottoposti alla misura del fermo o dell’arresto ( Corte EDU, Bekos e Koutropoulos vs. Grecia, 13/12/2005, Corte EDU, Cobzaru vs. Romania, 26/07/2007, Corte EDU Angelova e Iliev vs. Bulgaria, 26/07/2007, Corte EDU Petropoulou-Tsakiris vs. Grecia, 06/12/2007 e Corte EDU Stoica vs. Romania, 04/03/2008 ). Ognimmodo, va notato che Corte EDU, Nachova et al. vs. Bulgaria, 06/07/2005 distingue i riguardi, ovverosia pone l’onere della prova a carico del ricorrente per quanto riguarda l’aggravante dell’odio razziale ex Art. 14 CEDU, ma tale medesimo onere della prova passa a carico dello Stato convenuto per quanto riguarda le violenze ex Art. 3 CEDU eventualmente consumate dalla Polizia nelle caserme o, comunque, durante i fermi e gli arresti.
Costituiscono un severo monito anche per l’Italia pure Corte EDU, D.H. et al. vs. Repubblica Ceca, 13/11/2007, Corte EDU Sampanis et al. vs. Grecia, 05/06/2008 nonché Corte EDU, Orsus et al. vs. Croazia, 16/03/2010. Siffatte tre Sentenze-pilota degli Anni Duemila, ex Art. 14 CEDU, hanno unanimemente condannato gli Stati convenuti a causa della c.d. “segregazione scolastica” dei bambini Rom, relegati in classi speciali in cui si svolgono programmi culturali semplificati.
Viceversa, la Corte EDU ha rimarcato il diritto degli scolari Rom, perlomeno in età infantile, a partecipare alle medesime lezioni impartite ai bimbi figli di famiglie autoctone sedentarie. A tal proposito, Corte EDU Orsus et al. vs. Croazia, 16/03/2010 ha precisato, e non soltanto con attinenza alla situazione croata, che “esiste una discriminazione razziale indiretta [verso i bambini Rom, ex Art. 14 CEDU] […] anche alla luce dei documenti internazionali e degli stessi dati statistici, i quali confermano l’esistenza [nelle scuole primarie] di una forte tendenza a prassi segregative dei bambini Rom in Europa. Nonostante gli atti o i comportamenti delle istituzioni scolastiche non sembrino direttamente volti a penalizzare gli studenti Rom, si produce, nei fatti, un effetto discriminatorio strutturale, ovvero istituzionale“. Anzi, sempre nel solco precettivo dell’Art. 14 CEDU, Corte EDU, D.H. et al. vs. Repubblica Ceca, 13/11/2007 parla, con riguardo alla segregazione scolastica dei minorenni Rom, di “[sottile] discriminazione indiretta, [poiché] […] il provvedimento, all’apparenza neutro, è, in realta, ideato ed applicato allo scopo [benché indiretto ed implicito] di produrre una disparità di trattamento, essendo lo Stato convenuto incapace di dimostrare che l’inserimento dei bambini Rom in classi separate, eventualmente previste per disabili mentali, sia stato giustificato da ragioni oggettive non collegate [ex Art. 14 CEDU] all’origine etnica“
Sigona & Trehan (2011) asseriscono, giustamente, che “dalla Giurisprudenza EDU sui Rom emergono, con una certa chiarezza, i tratti distintivi della condizione attuale delle minoranze Rom in Europa, la cui storia secolare è stata attraversata da persecuzioni di massa, violenze e discriminazioni perpetrate da agenti istituzionali e non istituzionali“. Del pari, Bezzecchi & Pagani & Vitale (2008) sostengono che, anche in Italia, “l’anti-zingarismo non è un fenomeno nuovo“, in tanto in quanto, come acutamente osservato da Cherchi & Loy (2009) “le situazioni di degrado sociale e di isolamento culturale che caratterizzano la vita di molti Rom nei Paesi europei […] sono oggi documentate dai numerosi report di organismi internazionali e da un’importante letteratura scientifica, anche in ambito giuridico”.
Provvidenzialmente, nel caos sociologico e normativo che sempre accompagna la vita delle comunità Rom, esiste, come notato da Goldston & Hermanin (2011), “la possibilità del ricorso dei membri della minoranza Rom alla Corte di Strasburgo […] che è idonea a rappresentare un importante strumento di emancipazione […] al fine di ottenere determinati risultati giuridici, trasformazioni sociali o maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica su certi temi […] grazie anche all’apporto qualificato di Avvocati esperti in diritto umanitario e con il contributo di svariate fondazioni private internazionali“.
Parimenti, l’anglofono Clements (2006) loda la Giurisprudenza della Corte EDU in tema di zingari, giacché “l’impatto emancipatorio della Giurisprudenza EDU sui diritti delle minoranze oppresse non dev’essere sottovalutato, in termini di visibilità delle problematiche [dei Rom] nel dibattito politico nazionale […] [La Giurisprudenza EDU] mette in moto un processo virtuoso per la ricerca di nuove soluzioni nella gestione di [queste] situazioni critiche“. Analoga è la valutazione di Farget (2012), secondo il quale “la strategic litigation [avanti alla Corte EDU] è risultata uno strumento prezioso di trasformazione delle categorie concettuali e giuridiche con le quali si affrontano, nel discorso pubblico [sui Rom] le molteplici questioni connesse all’identità, alla diversità culturale ed alle ricadute in termini di esclusione sociale e discriminazione [dei Rom]”.