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CEDU: tempo e situazioni di fatto non devono prevalere sui provvedimenti giudiziari

Stretto di Messina
Ph. Giuseppe Vigliarolo / Stretto di Messina

Abstract

È una notizia che ha fatto molto discutere, e per questo riportata da numerose testate giornalistiche, che hanno sottolineato le censure mosse dalla Corte Europea nei confronti dello stato italiano.

La condanna è conseguente al ricorso n. 21052/18 (Terna c. Italia) poiché dai fatti ivi riportati è emerso che il “sistema giudiziario italiano” ha proibito a una nonna di incontrare la nipote. La decisione della Corte è condivisibile ma è opportuno analizzare lo svolgimento dell’intera vicenda, affinché tali anomalie possano essere in qualche modo limitate.

 

Indice:

1. I fatti di causa

2. Motivi del ricorso

3. Decisione sul ricorso

 

1. I fatti di causa

Bisogna precisare da subito che la nonna in questione, divenuta ricorrente dinanzi alla Corte, è una signora pluricondannata per aver commesso diversi reati di spaccio e di resistenza a pubblico ufficiale. Inoltre, dal 2001 è sposata con un cittadino di etnia “rom”. Queste caratteristiche si riveleranno di cruciale importanza per l’intera vicenda.

Entrando nel merito dei fatti si riporta in maniera cronologica quelli che sono i fatti più rilevanti che hanno portato alla sentenza di condanna.

Il marito “rom” della nonna (da ora in poi ricorrente) aveva già delle figlie da una precedente relazione e, una di loro, il 12 novembre 2010 partorì una figlia. Non potendo prendersi cura della bambina, i genitori della neonata chiesero alla ricorrente e a suo marito di occuparsi di lei (i nonni).
Il 13 marzo 2014 la ricorrente chiese l’assistenza dei servizi sociali di Milano per iscrivere la minore a scuola, poiché quest’ultima non aveva documenti d’identità.

Secondo la relazione dei servizi sociali inviata al tribunale per i minorenni di Milano, occorreva istituire un programma di assistenza sociale mantenendo il collocamento della bambina presso i nonni, in quanto la stessa risultava ben inserita in tale contesto familiare.

La ricorrente nel 2014 è stata arrestata per detenzione e traffico di sostanze stupefacenti. Nel periodo di detenzione, la minore venne affidata alla sorella dell’interessata.

Con decreto del 10 luglio 2014, il Tribunale osservò che la bambina non aveva documenti d’identità e che i suoi nonni avevano precedenti penali. Inoltre, sottolineò che la bambina aveva un ritardo del linguaggio e un problema podologico che richiedevano un controllo medico. Sempre in virtù del constatato buon inserimento della piccola in tale contesto familiare, il Tribunale affidò la sua custodia al Comune di Milano con collocamento presso i nonni.

Il 2 settembre 2015 su incarico del tribunale la minore è stata sottoposta a perizia psichiatrica, conclusasi con una conferma del forte legame tra nonni e nipote.

Con successiva ulteriore perizia, nel febbraio 2016 veniva confermato il saldo legame tra le parti e che per la minore la ricorrente veniva affettivamente equiparata ad un madre naturale.

Con decreto del 4 marzo 2016, il Tribunale affidò la custodia della bambina al comune di Milano e confermando il suo collocamento presso la casa dei nonni e dichiarando i genitori naturali decaduti dalla responsabilità genitoriale. Parimenti, fu nominato un esperto per effettuare una valutazione sulla situazione della famiglia e la minore fu affidata anche alla responsabilità di una tutrice.
Il 20 luglio 2016, dopo tre mesi di indagini e diversi colloqui, l’esperto nel presentare la sua relazione osservava che la ricorrente doveva affrontare delle sfide difficili per gestire lo sviluppo della minore, in quanto “quest’ultima aveva ritardi nel linguaggio e un disturbo dell’attaccamento”.

Riferiva che la ricorrente era priva di capacità genitoriali. Indicava anche che la bambina stava crescendo in una famiglia in cui diversi membri avevano precedenti penali. Osservava che la tutrice della minore aveva espresso dei dubbi sul mantenimento di contatti, motivati dalla eventualità di una sottrazione di quest’ultima da parte della sua famiglia rom, e che la stessa consigliava una rottura del legame tra la minore e la ricorrente. Concludeva che, in caso di rottura del legame, la minore avrebbe subito un trauma molto forte e che sarebbe stato necessario prevedere una presa in carico psicoterapeutica.

Di conseguenza, con una decisione del 27 settembre 2016, il Giudice tutelare dispose l’allontanamento della minore e il suo collocamento in comunità. Per l’effetto di tale disposizione, il 28 settembre 2016 venne avviato un procedimento dinanzi al Tribunale per verificare lo stato di abbandono della minore e avviare una procedura di adozione.

Il 7 ottobre 2016 il Tribunale, alla luce della decisione del Giudice tutelare e delle relazioni dei servizi sociali secondo cui le condizioni della bambina erano migliorate (aveva iniziato a frequentare la scuola e a recuperare il ritardo nel linguaggio che presentava), emetteva un provvedimento con il quale confermava il collocamento della minore in comunità e incaricava i servizi sociali di gestire i contatti tra la ricorrente e la bambina, garantendo che quest’ultima ricevesse una terapia psicologica.

Il 2 novembre 2016 la minore venne collocata nuovamente in comunità. Il 7 novembre 2016 la tutrice della bambina presentava al giudice tutelare una domanda volta alla sospensione degli incontri ordinati dal tribunale. Secondo la tutrice, vi era un’alta probabilità che la famiglia rom della bambina potesse sottrarre forzatamente quest’ultima se avesse scoperto dove era stata collocata. Sempre secondo la tutrice, in passato vi erano stati casi in cui dei familiari di bambini rom avevano pedinato questi ultimi dopo lo svolgimento di incontri in ambiente protetto al fine di scoprire il luogo in cui questi minori erano stati collocati.

Con un decreto del 6 dicembre 2016, il Tribunale confermava la sua precedente decisione e incaricava i servizi sociali di organizzare gli incontri con la nonna avendo cura di preservare l’anonimato del luogo di collocamento della bambina.

Il 29 maggio 2017 la psicologa di Milano, che seguiva la bambina da parecchi anni, ha presentato una relazione in cui attestava il malessere della minore a causa della lunga interruzione dei contatti con la ricorrente.

A seguito di nuova perizia richiesta dal Tribunale, l’esperto nel depositare la sua relazione, rimarcava l’incapacità genitoriale della nonna e riteneva la bambina psicologicamente pronta ad affrontare il forzato distacco.  

Sulla base di tale parere, il Tribunale dichiarava lo stato di adottabilità della bambina. Per quanto riguarda la ricorrente, considerava che quest’ultima non poteva esercitare delle funzioni genitoriali che permettessero di assicurare uno sviluppo sano ed equilibrato della bambina per diversi motivi: in primo luogo, la bambina era cresciuta in un ambiente delinquenziale, segnato anche dalle varie condanne della ricorrente e dal fatto che la stessa aveva continuato a vedere suo marito in prigione senza prendere le distanze dall’attività criminale di quest’ultimo; in secondo luogo, la ricorrente aveva nascosto per diversi anni l’esistenza della bambina alle autorità e non aveva mai informato la minore della verità sui suoi genitori.

La ricorrente ha interposto appello il 13 giugno 2018. In particolare, basandosi sulle conclusioni che tutti gli psicologi avevano presentato fino al mese di marzo 2016, chiese alla Corte d’appello di non dichiarare lo stato di adottabilità della bambina e, in subordine, di autorizzarla a incontrare la nipote secondo modalità stabilite dalla stessa Corte. Il curatore della minore, che nel frattempo era stato nominato, chiese alla Corte d’appello di permettere alla ricorrente di incontrare la minore in modo da mantenere un legame tra loro.

Il 21 novembre 2018 la Corte d’appello ordinava una nuova perizia per valutare il legame tra la minore e la ricorrente e l’esperto, ribaltando quanto relazionato dal suo collega nel giudizio di primo grado, chiariva che non vi erano motivi per pronunciarsi a favore dell’allontanamento della bambina, in quanto la ricorrente svolgeva adeguatamente il suo ruolo e precisava che l’interruzione di tutti i contatti era priva di qualsiasi giustificazione.

Alla data odierna, la causa risulta tutt’ora pendente dinanzi alla Corte di Appello di Milano.

 

2. Motivi del ricorso

In parallelo, sulla base dell’articolo 32 CEDU, la ricorrente ha proposto ricorso dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo, lamentando le seguenti violazioni:

  • Violazione dell’articolo 8 CEDU relativo al rispetto della vita privata e familiare, non per aver dichiarato lo stato di adottabilità della minore, ma per aver interrotto repentinamente ogni forma di contatto con quest’ultima, e soprattutto dopo i costanti rifiuti di organizzazione di incontri da espletarsi nelle forme previste dal decreto emesso il 6 dicembre 2016 dal tribunale di Milano;
  • Violazione dell’articolo 14 CEDU relativo al divieto di discriminazione, asserendo che l’etnia del marito “rom”, fosse stata più volte rimarcata dalla tutrice con il fine di creare un pregiudizio razziale. La tutrice, infatti, nel richiamare l’etnia “rom” del marito della ricorrente, sconsigliava lo svolgimento di incontri per il pericolo di una sottrazione forzosa della minore alle autorità preposte.

La Corte ha accolto il primo motivo del ricorso e, con un ragionamento molto articolato non ha accolto il secondo motivo.

 

Primo motivo: Violazione dell’articolo 8 CEDU relativo al rispetto della vita privata e familiare

La Corte, facendo riferimento al primo motivo del ricorso ha sentenziato che: “…di fronte alle circostanze che le vengono sottoposte, il suo compito consista nel verificare se le autorità nazionali abbiano adottato tutte le misure che si potevano ragionevolmente esigere da esse per mantenere i legami tra la ricorrente e la minore e nell’esaminare il modo in cui le stesse sono intervenute per agevolare l’esercizio del diritto di visita dell’interessata definito dai provvedimenti giudiziari. Inoltre, essa rammenta che, in questo tipo di cause, l’adeguatezza di una misura si valuta in base alla rapidità della sua attuazione per evitare che il passare del tempo possa avere, di per sé, delle conseguenze sulla relazione tra un genitore e suo figlio”.

Sull’ultimo punto richiamato la Corte ha ritenuto degno di censura il fatto che la ricorrente non sia riuscita ad incontrare la minore nonostante vi fosse un provvedimento emesso il 6 dicembre 2016 che consentiva gli incontri, purché con l’adozione di rigide misure.

Ha tenuto poi a precisare che: “sebbene gli strumenti giuridici previsti dal diritto italiano sembrino sufficienti per permettere allo Stato convenuto di assicurare il rispetto degli obblighi positivi che l’articolo 8 pone a suo carico, si deve constatare che le autorità hanno lasciato che si consolidasse, per un certo tempo, una situazione di fatto sorta nonostante i provvedimenti giudiziari emessi, senza tener conto degli effetti a lungo termine che potevano essere provocati da una separazione permanente tra la minore interessata e la persona incaricata di occuparsene, nella fattispecie la ricorrente”.

 

Secondo motivo: Violazione dell’articolo 14 CEDU relativo al divieto di discriminazione

Su questo secondo punto, il ragionamento della Corte in sentenza è abbastanza meccanico. Dopo aver chiarito in maniera esaustiva cosa debba intendersi per discriminazione e, dopo aver analizzato il comportamento anomalo della tutrice, seppur ritenendolo pregiudizievole, non ha comunque ravvisato la violazione della disposizione di cui all’articolo 14 Cedu.

 

3. Decisione sul ricorso

In definitiva, lo Stato italiano con la sentenza 14 gennaio 2021 è stato condannato per la violazione dell’articolo 8 CEDU e conseguentemente condannato al pagamento di una somma pari ad € 4.000,00 per i danni morali patiti dalla ricorrente e al pagamento della somma di € 10.000,00 a titolo di spese legali.

Letture consigliate

(1) La Corte di Strasburgo condanna l’Italia: «Impedisce i contatti nonna-nipote». Il caso in una famiglia rom: Link

(2) Strasburgo condanna l’Italia, impedisce contatti nonna-nipote: Link