x

x

La Genesi della proprietà fondiaria e la nascita di altri diritti reali nel diritto romano arcaico.

Introduzione.

Nel periodo che va dal 1050 all’ 870 A.C., nel sito della futura città di Roma, accanto al nucleo abitativo insediato sul Campidoglio, vi è la comparsa di un nuovo insediamento nella zona del Comizio, probabilmente presso la fonte del Tulliano (Carcere Mamertino). Sul Palatino i nuclei abitativi del Cermalus e Palatium insediano la zona a valle presso la fonte di Diuturna, zona precedentemente dedicata alla sepoltura (tombe a incinerazione).

La zona del Velabro (San Giorgio a Velabro, Arco di Giano) è, invece, rimasta come luogo di sepoltura. Da qui l’immagine del Velabro come palude infernale.

Per quanto riguarda la Velia (Chiesa di Santa Francesca Romana), non si hanno ancora reperti che attestino la presenza di insediamenti anteriori all’ottavo secolo A.C..

In questa epoca, trascorso il tempo di Saturno, caratterizzato dall’assenza di leggi e dalla proprietà comune, cioè dall’assenza di assegnazione durevole della terra resa possibile dalle semine che si rinnovano ogni anno, sembra svolgere un nuovo ruolo l’arboricoltura, forma sviluppata di coltivazione che dovette per la prima volta implicare un controllo stabile della terra da parte di primissime famiglie gentilizie pre-urbane, reso necessario dalla crescita lenta delle piante e dal conseguente sfruttamento graduale e di lunga durata degli alberi e degli arbusti [Andrea Carandini, La nascita di Roma, Einaudi].

Da qui la necessità per le grandi famiglie dedite all’arboricoltura di poter disporre di confini certi, segnati da pietre terminali riconosciute dalla comunità e considerate inamovibili.

Le prime pietre terminali stanno ad indicare l’emergere del primo concetto di inviolabilità dei confini e di sanzione [Magdelain, 1995]; quindi di una primissima forma di diritto e di sovranità.

Questo insieme di circostanze implica una organizzazione comunitaria più sviluppata.

Ad una agricoltura più sviluppata deve aver corrisposto una pastorizia più rispettosa delle coltivazioni e una più specializzata e avanzata produzione casearia.

Le circostanze descritte segnano un salto di qualità nel processo di civilizzazione.

In questo periodo, infatti, si conoscono coltivazioni pregiate, confini certi, una pastorizia più progredita e, conseguentemente, prime forme di possesso stabile della terra da parte di grandi famiglie, quelle che controllavano la redistribuzione delle terre.

In questi tempi arcaici, il possesso era un diritto sovrano sul territorio inquadrato in un ordine sociale derivato dallo Stato. Tale diritto di possesso della terra era compreso nel più vasto potere del pater [Andrea Carandini, op. cit.].

La successiva fondazione dello Stato (Città di Roma) non ha alterato il diritto interno della famiglia e ha lasciato perdurare l’esclusività del dominio e la tendenza alla piena libertà del fondo, espressa nel limitato numero delle servitù rustiche [Bonfante, Corso di diritto romano. La proprietà. II, I 205].

A questa assoluta indipendenza arcaica del pater vanno ricondotti, al tempo della nascita della città, il principio della libertà del potere di disposizione dei beni, la non natura reale dell’enfiteusi e della superficie, la tipicità delle servitù e la non conoscenza degli oneri reali [Grosso, l’evoluzione storica delle servitù nel diritto romano e il problema delle tipicità, Studia et Doc. III, 1937, 265 e ss.].

Successivamente, alla fine dell’età regia, alla proprietà fondiaria sono stati talvolta congiunti doveri di natura pubblicistica, che dimostrano come lo Stato iniziasse a subordinare a fini di interesse generale i diritti dei privati.

Il mancipium e lo sviluppo della proprietà.

Il concetto di sovranità (manus) comprende, insieme all’elemento potestativo del comando, anche quello della protezione e si adegua al carattere ed alla funzionalità del gruppo, all’organizzazione ed agli elementi religiosi che vi si riconnettevano.

Questo dominio (mancipium) esprime il concetto di una attribuzione esclusiva dell’oggetto al soggetto, cioè il concetto di appartenenza.

Di fronte al concetto di mancipium si deve essere affermata, sin dai tempi antichi, una disposizione di carattere economica della res. Res era considerato quel bene che presentava un utile e a cui fosse riconosciuta la possibilità di essere oggetto di attribuzione strumentale ai fini umani. Questa attribuzione per lo sfruttamento economico ha rappresentato la prima forma di proprietà [G. Grosso,

Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano, Torino, 1967, 143 e ss.].

Per intendere i particolari caratteri della proprietà romana occorre considerare la stessa in rapporto alla natura originaria del gruppo familiare, che era una piccola comunità sovrana al comando di uno solo, padrone delle persone e delle cose, con un piccolo territorio chiuso ad ogni estranea ingerenza e con un suo patrimonio di schiavi e di animali da lavoro. Pertanto la proprietà romana fu signoria assoluta, la quale non ebbe dapprima altri limiti che in motivi di religione, di tutela della indipendenza reciproca dei fondi e di interessi pubblici [S. Di Marzo, Istituzioni di Diritto Romano, Milano, pag. 197].

La proprietà romana assorbiva necessariamente tutto ciò che comunque in essa s’incorporava, perché, data la sua assolutezza e la sua autonomia, non era immaginabile che altri si potesse affermare proprietario di una parte della cosa stessa.

Genesi della proprietà fondiaria.

In merito ai beni immobili fondiari, le comunità preciviche che concorsero alla formazione della città non riconoscevano la proprietà privata su tali beni. Le terre appartenevano alla collettività ed erano prevalentemente adibite a pascolo. Queste terre costituivano l’ager publicus. Esse venivano in buona parte lasciate in godimento esclusivo a privati per estensioni talora notevoli, dapprima in forza di provvedimenti a carattere generale che ne consentissero l’occupazione nei limiti delle possibilità di sfruttamento dell’occupante, più tardi, in forza di concessioni individuali revocabili.

In epoca regia, altre porzioni di ager publicus cominciarono ad essere oggetto di assegnazioni a carattere definitivo, cosicché i beni in tal modo acquistati divenivano propri dei privati ex iure Quiritium.

In epoca storica, la proprietà privata traeva consistenza e si alimentava a mezzo della proprietà pubblica, l’ager publicus, dal quale soltanto a mezzo di formali atti d’investitura si potevano distaccare delle porzioni per convertirle in fondi o agri privati. A sua volta, l’agro pubblico era costituito e si ampliava con le terre di conquista.

Le terre confiscate venivano in parte assegnate in pieno dominio fra privati, sia collettivamente, con la costituzione di colonie, sia mediante assegnazioni individuali per capi.

Altre porzioni erano, invece, vendute a privati non in pieno dominio ma a titolo di possesso stabile e irrevocabile. Su queste terre lo Stato riscuoteva, a volte solo nominalmente, un canone..

Restavano, infine, i terreni incolti che venivano lasciati alla libera occupazione dei privati, perché li coltivassero verso pagamento allo Stato di una parte del prodotto (di solito la decima parte ovvero un quinto del frutto degli alberi). Anche il dominio di queste terre rimaneva sempre allo Stato e inoltre non poteva legalmente verificarsi alcuna usucapione, giacché il loro possesso si considerava come precario e soggetto a revoca in qualsiasi momento.

Plinio (lib. 18, c.II) afferma che con questo sistema si distribuiva la terra anche durante il regno di Romolo, all’origine stessa dell’Urbe.

Fino alla prima guerra punica, come attesta anche Varrone, le assegnazioni non eccedevano i due jugeri a persona. Fondi assai modesti giacchè, essendo lo jugero pari a circa un quarto di ettaro, si raggiungeva appena il mezzo ettaro.

Questa terra (heredium) nei primi secoli di Roma, quando la più gran parte dei mezzi di sussistenza traeva origine dalla pastorizia, aveva lo scopo di assicurare quel tanto di proprietà privata sufficiente per il ricovero delle persone e degli animali, per la coltura ed altro strettamente indispensabile ai bisogni di ciascuna famiglia.

Successivamente, le dimensioni delle assegnazioni subì continui incrementi: 5, poi 8 jugeri, poi da 30 a 40 jugeri, fino al massimo consentito dalla legge Licinia (367 A.C.), in virtù della quale nessun cittadino poteva possedere più di 500 jugeri di terra.

All’assegnazione di porzioni di ager publicus in proprietà privata si procedeva mediante limitatio, un rito che aveva connotazioni sacrali e che si compiva con l’intervento del magistrato e di un agrimensore. Nel contempo, si aveva cura di lasciare attorno a ciascun apprezzamento uno spazio libero, largo non meno di cinque piedi (30 cm.), il quale era detto limes, e non poteva essere usucapito.

Il dominium ex iure Quiritium era un potere assoluto e illimitato e sin verso la fine del III secolo D.C., era esente da tributi [M. Marrone, lineamenti di diritto privato romano, Torino pag. 166].

La nascita di altri diritti reali.

In tempi storici, si considerano rapporti giuridici reali i rapporti giuridici assoluti che avessero per oggetto una res in senso lato (cosa inanimata, animale, schiavo).

L’archetipo storico dei diritti reali è il diritto di proprietà, consistente nel potere di escludere i consociati da qualsivoglia attività di utilizzazione di un bene, e quindi, in pratica, nel potere di godere e di disporre illimitatamente del bene stesso. Una possibile vicenda del diritto di proprietà era che esso potesse venire a spettare a più titolari insieme (comproprietà). In tal caso ciascuno dei titolari poteva esercitare tutti i poteri sul bene, concretando l’unico diritto. Riconosciuta sul piano logico e storico la comproprietà, è agevole il passaggio alla ulteriore concezione secondo cui alcune determinate facoltà del proprietario possono essere separate, in perpetuo o a tempo, dal tutto per essere attribuite ad altro soggetto attivo; il che implica l’effetto di costituire a favore di questo secondo soggetto un diritto reale, sia pur limitato a specifiche facoltà di utilizzazione, diritto che egli può far valere contro tutti i consociati, compreso il proprietario. La differenza tra i rapporti giuridici reali limitati e quello di proprietà sta in ciò: mentre i primi sono per definizione circoscritti a determinate facoltà (anelastici), il secondo presenta la caratteristica della elasticità, cioè dell’attitudine a ricomprendere automaticamente ogni facoltà di esercizio che gli sia stata resecata non appena venga ad estinguersi il relativo diritto reale limitato.

Il processo storico sopra descritto si verificò anche nel diritto privato romano, ove il rapporto giuridico di proprietà prese il nome di dominium ex iure Quiritium. A sua volta il dominium derivò dall’antico mancipium familiare, cioè dal rapporto giuridico assoluto costituito a favore del pater familias sugli elementi della familia, il microrganismo politico-economico costituito da uomini liberi e schiavi, animali e cose materiali.

Quando i membri liberi della famiglia si furono separati dalle res in senso lato, il mancipium rimase limitato a queste sole, che si dissero, ancora ai tempi delle XII tavole, familia o res mancipi.

Senonchè, con l’intensificarsi della vita economica, si accrebbe la ricchezza privata ed i patres si trovarono ad avere in piena disponibilità nuove categorie di beni che non erano quelle tradizionalmente rientranti nel concetto di famiglia. Si ritenne, pertanto, che su questi altri beni (cd: pecunia o res nec mancipi) i patres avessero un diritto soltanto analogo al mancipium. Più tardi ancora, ogni diritto assoluto relativo a res, sia mancipi che nec mancipi, fu unificato nel concetto di dominium ex iure Quiritium.

Quindi, nel sistema del ius civile il dominium ex iure Quiritium era un rapporto giuridico assoluto, avente ad oggetto qualsiasi res animata o inanimata. Introduzione.

Nel periodo che va dal 1050 all’ 870 A.C., nel sito della futura città di Roma, accanto al nucleo abitativo insediato sul Campidoglio, vi è la comparsa di un nuovo insediamento nella zona del Comizio, probabilmente presso la fonte del Tulliano (Carcere Mamertino). Sul Palatino i nuclei abitativi del Cermalus e Palatium insediano la zona a valle presso la fonte di Diuturna, zona precedentemente dedicata alla sepoltura (tombe a incinerazione).

La zona del Velabro (San Giorgio a Velabro, Arco di Giano) è, invece, rimasta come luogo di sepoltura. Da qui l’immagine del Velabro come palude infernale.

Per quanto riguarda la Velia (Chiesa di Santa Francesca Romana), non si hanno ancora reperti che attestino la presenza di insediamenti anteriori all’ottavo secolo A.C..

In questa epoca, trascorso il tempo di Saturno, caratterizzato dall’assenza di leggi e dalla proprietà comune, cioè dall’assenza di assegnazione durevole della terra resa possibile dalle semine che si rinnovano ogni anno, sembra svolgere un nuovo ruolo l’arboricoltura, forma sviluppata di coltivazione che dovette per la prima volta implicare un controllo stabile della terra da parte di primissime famiglie gentilizie pre-urbane, reso necessario dalla crescita lenta delle piante e dal conseguente sfruttamento graduale e di lunga durata degli alberi e degli arbusti [Andrea Carandini, La nascita di Roma, Einaudi].

Da qui la necessità per le grandi famiglie dedite all’arboricoltura di poter disporre di confini certi, segnati da pietre terminali riconosciute dalla comunità e considerate inamovibili.

Le prime pietre terminali stanno ad indicare l’emergere del primo concetto di inviolabilità dei confini e di sanzione [Magdelain, 1995]; quindi di una primissima forma di diritto e di sovranità.

Questo insieme di circostanze implica una organizzazione comunitaria più sviluppata.

Ad una agricoltura più sviluppata deve aver corrisposto una pastorizia più rispettosa delle coltivazioni e una più specializzata e avanzata produzione casearia.

Le circostanze descritte segnano un salto di qualità nel processo di civilizzazione.

In questo periodo, infatti, si conoscono coltivazioni pregiate, confini certi, una pastorizia più progredita e, conseguentemente, prime forme di possesso stabile della terra da parte di grandi famiglie, quelle che controllavano la redistribuzione delle terre.

In questi tempi arcaici, il possesso era un diritto sovrano sul territorio inquadrato in un ordine sociale derivato dallo Stato. Tale diritto di possesso della terra era compreso nel più vasto potere del pater [Andrea Carandini, op. cit.].

La successiva fondazione dello Stato (Città di Roma) non ha alterato il diritto interno della famiglia e ha lasciato perdurare l’esclusività del dominio e la tendenza alla piena libertà del fondo, espressa nel limitato numero delle servitù rustiche [Bonfante, Corso di diritto romano. La proprietà. II, I 205].

A questa assoluta indipendenza arcaica del pater vanno ricondotti, al tempo della nascita della città, il principio della libertà del potere di disposizione dei beni, la non natura reale dell’enfiteusi e della superficie, la tipicità delle servitù e la non conoscenza degli oneri reali [Grosso, l’evoluzione storica delle servitù nel diritto romano e il problema delle tipicità, Studia et Doc. III, 1937, 265 e ss.].

Successivamente, alla fine dell’età regia, alla proprietà fondiaria sono stati talvolta congiunti doveri di natura pubblicistica, che dimostrano come lo Stato iniziasse a subordinare a fini di interesse generale i diritti dei privati.

Il mancipium e lo sviluppo della proprietà.

Il concetto di sovranità (manus) comprende, insieme all’elemento potestativo del comando, anche quello della protezione e si adegua al carattere ed alla funzionalità del gruppo, all’organizzazione ed agli elementi religiosi che vi si riconnettevano.

Questo dominio (mancipium) esprime il concetto di una attribuzione esclusiva dell’oggetto al soggetto, cioè il concetto di appartenenza.

Di fronte al concetto di mancipium si deve essere affermata, sin dai tempi antichi, una disposizione di carattere economica della res. Res era considerato quel bene che presentava un utile e a cui fosse riconosciuta la possibilità di essere oggetto di attribuzione strumentale ai fini umani. Questa attribuzione per lo sfruttamento economico ha rappresentato la prima forma di proprietà [G. Grosso,

Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano, Torino, 1967, 143 e ss.].

Per intendere i particolari caratteri della proprietà romana occorre considerare la stessa in rapporto alla natura originaria del gruppo familiare, che era una piccola comunità sovrana al comando di uno solo, padrone delle persone e delle cose, con un piccolo territorio chiuso ad ogni estranea ingerenza e con un suo patrimonio di schiavi e di animali da lavoro. Pertanto la proprietà romana fu signoria assoluta, la quale non ebbe dapprima altri limiti che in motivi di religione, di tutela della indipendenza reciproca dei fondi e di interessi pubblici [S. Di Marzo, Istituzioni di Diritto Romano, Milano, pag. 197].

La proprietà romana assorbiva necessariamente tutto ciò che comunque in essa s’incorporava, perché, data la sua assolutezza e la sua autonomia, non era immaginabile che altri si potesse affermare proprietario di una parte della cosa stessa.

Genesi della proprietà fondiaria.

In merito ai beni immobili fondiari, le comunità preciviche che concorsero alla formazione della città non riconoscevano la proprietà privata su tali beni. Le terre appartenevano alla collettività ed erano prevalentemente adibite a pascolo. Queste terre costituivano l’ager publicus. Esse venivano in buona parte lasciate in godimento esclusivo a privati per estensioni talora notevoli, dapprima in forza di provvedimenti a carattere generale che ne consentissero l’occupazione nei limiti delle possibilità di sfruttamento dell’occupante, più tardi, in forza di concessioni individuali revocabili.

In epoca regia, altre porzioni di ager publicus cominciarono ad essere oggetto di assegnazioni a carattere definitivo, cosicché i beni in tal modo acquistati divenivano propri dei privati ex iure Quiritium.

In epoca storica, la proprietà privata traeva consistenza e si alimentava a mezzo della proprietà pubblica, l’ager publicus, dal quale soltanto a mezzo di formali atti d’investitura si potevano distaccare delle porzioni per convertirle in fondi o agri privati. A sua volta, l’agro pubblico era costituito e si ampliava con le terre di conquista.

Le terre confiscate venivano in parte assegnate in pieno dominio fra privati, sia collettivamente, con la costituzione di colonie, sia mediante assegnazioni individuali per capi.

Altre porzioni erano, invece, vendute a privati non in pieno dominio ma a titolo di possesso stabile e irrevocabile. Su queste terre lo Stato riscuoteva, a volte solo nominalmente, un canone..

Restavano, infine, i terreni incolti che venivano lasciati alla libera occupazione dei privati, perché li coltivassero verso pagamento allo Stato di una parte del prodotto (di solito la decima parte ovvero un quinto del frutto degli alberi). Anche il dominio di queste terre rimaneva sempre allo Stato e inoltre non poteva legalmente verificarsi alcuna usucapione, giacché il loro possesso si considerava come precario e soggetto a revoca in qualsiasi momento.

Plinio (lib. 18, c.II) afferma che con questo sistema si distribuiva la terra anche durante il regno di Romolo, all’origine stessa dell’Urbe.

Fino alla prima guerra punica, come attesta anche Varrone, le assegnazioni non eccedevano i due jugeri a persona. Fondi assai modesti giacchè, essendo lo jugero pari a circa un quarto di ettaro, si raggiungeva appena il mezzo ettaro.

Questa terra (heredium) nei primi secoli di Roma, quando la più gran parte dei mezzi di sussistenza traeva origine dalla pastorizia, aveva lo scopo di assicurare quel tanto di proprietà privata sufficiente per il ricovero delle persone e degli animali, per la coltura ed altro strettamente indispensabile ai bisogni di ciascuna famiglia.

Successivamente, le dimensioni delle assegnazioni subì continui incrementi: 5, poi 8 jugeri, poi da 30 a 40 jugeri, fino al massimo consentito dalla legge Licinia (367 A.C.), in virtù della quale nessun cittadino poteva possedere più di 500 jugeri di terra.

All’assegnazione di porzioni di ager publicus in proprietà privata si procedeva mediante limitatio, un rito che aveva connotazioni sacrali e che si compiva con l’intervento del magistrato e di un agrimensore. Nel contempo, si aveva cura di lasciare attorno a ciascun apprezzamento uno spazio libero, largo non meno di cinque piedi (30 cm.), il quale era detto limes, e non poteva essere usucapito.

Il dominium ex iure Quiritium era un potere assoluto e illimitato e sin verso la fine del III secolo D.C., era esente da tributi [M. Marrone, lineamenti di diritto privato romano, Torino pag. 166].

La nascita di altri diritti reali.

In tempi storici, si considerano rapporti giuridici reali i rapporti giuridici assoluti che avessero per oggetto una res in senso lato (cosa inanimata, animale, schiavo).

L’archetipo storico dei diritti reali è il diritto di proprietà, consistente nel potere di escludere i consociati da qualsivoglia attività di utilizzazione di un bene, e quindi, in pratica, nel potere di godere e di disporre illimitatamente del bene stesso. Una possibile vicenda del diritto di proprietà era che esso potesse venire a spettare a più titolari insieme (comproprietà). In tal caso ciascuno dei titolari poteva esercitare tutti i poteri sul bene, concretando l’unico diritto. Riconosciuta sul piano logico e storico la comproprietà, è agevole il passaggio alla ulteriore concezione secondo cui alcune determinate facoltà del proprietario possono essere separate, in perpetuo o a tempo, dal tutto per essere attribuite ad altro soggetto attivo; il che implica l’effetto di costituire a favore di questo secondo soggetto un diritto reale, sia pur limitato a specifiche facoltà di utilizzazione, diritto che egli può far valere contro tutti i consociati, compreso il proprietario. La differenza tra i rapporti giuridici reali limitati e quello di proprietà sta in ciò: mentre i primi sono per definizione circoscritti a determinate facoltà (anelastici), il secondo presenta la caratteristica della elasticità, cioè dell’attitudine a ricomprendere automaticamente ogni facoltà di esercizio che gli sia stata resecata non appena venga ad estinguersi il relativo diritto reale limitato.

Il processo storico sopra descritto si verificò anche nel diritto privato romano, ove il rapporto giuridico di proprietà prese il nome di dominium ex iure Quiritium. A sua volta il dominium derivò dall’antico mancipium familiare, cioè dal rapporto giuridico assoluto costituito a favore del pater familias sugli elementi della familia, il microrganismo politico-economico costituito da uomini liberi e schiavi, animali e cose materiali.

Quando i membri liberi della famiglia si furono separati dalle res in senso lato, il mancipium rimase limitato a queste sole, che si dissero, ancora ai tempi delle XII tavole, familia o res mancipi.

Senonchè, con l’intensificarsi della vita economica, si accrebbe la ricchezza privata ed i patres si trovarono ad avere in piena disponibilità nuove categorie di beni che non erano quelle tradizionalmente rientranti nel concetto di famiglia. Si ritenne, pertanto, che su questi altri beni (cd: pecunia o res nec mancipi) i patres avessero un diritto soltanto analogo al mancipium. Più tardi ancora, ogni diritto assoluto relativo a res, sia mancipi che nec mancipi, fu unificato nel concetto di dominium ex iure Quiritium.

Quindi, nel sistema del ius civile il dominium ex iure Quiritium era un rapporto giuridico assoluto, avente ad oggetto qualsiasi res animata o inanimata.