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La   gestione   giuridica   della   cannabis

Cannabis
Cannabis

La   gestione   giuridica   della   cannabis
 

La coltivazione domestica delle droghe cc.dd. “leggere“

I commi 1 e 1 bis Art. 73 TU 309/90 prevedono e puniscono la coltivazione di sostanze illecite. Tuttavia, nella Giurisprudenza di legittimità, taluni Precedenti sostengono che la semente non ancora piantata, nonché le piante prive di inflorescenze mature costituiscono un delitto a pericolosità astratta, soprattutto quando il tenore drogante di THC è infimo o prossimo allo zero. Ciò che viene contestato da talune Sentenze della Suprema Corte consiste nel fatto che la coltivazione “per uso esclusivamente personale“ dovrebbe più correttamente ricadere nell'ambito di precettività del comma 1 Art. 75 TU 309/90, che prevede “sanzioni [solo] amministrative“ meno pesanti rispetto all'apparato punitivo contemplato dai commi 1 e 1 bis Art. 73 TU 309/90. Dunque, come si può notare, la condotta illecita della “coltivazione“ oscilla tra un campo precettivo penalistico ed uno, più attenuato, di matrice amministrativa. Ora, ex comma 1 Art. 618 Cpp, di tutte queste problematiche sono state investite le Sezioni Unite con Ordinanza, Cass., sez. pen. IV, 7 febbraio 2008, n. 10495.

Negli Anni Duemila, la Suprema Corte aveva manifestato un orientamento rigoristico e, fors'anche, formalistico, ai sensi del quale l'utilizzo espresso del lemma “coltiva“, nel comma 1 Art. 73 TU 309/90 tale rimane a prescindere dall'eventuale natura domestica e ad uso personale della “coltivazione“. Quindi, secondo tale primo, e maggioritario, filone esegetico, la “non imprenditorialità“ della coltivazione di canapa ed il suo correlato “uso personale“ non influiscono sotto il profilo interpretativo, Né, tantomeno, spostano il campo precettivo dai commi 1 e 1 bis Art. 73 TU 309/90 al meno severo comma 1 Art. 75 TU 309/90. Anzi, Cass., sez. pen. IV, 28 novembre 2007, n. 871 è ancor più rigida e formalistica, in tanto in quanto asserisce che “declinata la fattispecie sul paradigma del reato di pericolo [non astratto], nessuno spazio dev'essere concesso ad argomentazioni sostanzialistiche orientate al principio di offensività  e volte a sancire l'irrilevanza penale dell'ipotesi concreta in ragione dell'esiguo numero di piante coltivato (ovvero del grado di tossicità delle stesse)“. Come si vede, anche Cass., sez. pen. IV, 28 novembre 2007, n. 871 prosegue nello spostare l'ago della bilancia verso il comma 1 Art. 73 TU 309/90. Per conseguenza, Cass., sez. pen. IV, 28 novembre 2007, n. 871 si dimostra refrattaria, purtroppo, alla ratio penalistica della contestualizzazione concreta della fattispecie giudicanda. Analogo rigore formale, eccessivo a parere di chi redige, viene manifestato pure da Cass., sez. pen. VI, 9 giugno 2004, n. 31472, a norma della quale “la coltivazione della canapa indiana è reato di pericolo e va sanzionata [ex comma 1 Art. 73 TU 309/90] indipendentemente dall'ampiezza del numero di piante contenenti sostanze tossiche“.

Pertanto, pure Cass., sez. pen. VI, 9 giugno 2004, n. 31472 torna a restringere, ipertroficamente, le nozioni di “uso personale“ e di “sanzione [solo] amministrativa“ ex comma 1 Art. 75 TU 309/90. A parere di chi scrive, tutte le testé menzionate Sentenze eccedono nell'applicare un proibizionismo lodevole, ancorché non temperato dall'accurata valutazione quantitativa e qualitativa della canapa oggetto di sequestro. Il predetto orientamento rigoristico e formalistico trasforma il Magistrato del merito in un doganiere incapace di applicare una proporzionata scala di gravità delle singole condotte, poiché un conto è il grande narcotrafficante, un altro conto è il coltivatore casalingo proiettato verso un consumo meramente personale.

Provvidenzialmente, un secondo orientamento giurisprudenziale, inaugurato da Cass., sez. pen. VI, 12 luglio 1994, n. 3353, sostiene, diversamente, che “occorre […] distinguere tra una coltivazione in senso tecnico-agrario, ovvero imprenditoriale (definita negli Artt. 26, 27 e 28 TU 309/90 e caratterizzata dalla disponibilità di un terreno di significative dimensioni, dalla sua preparazione, dalla relativa semina, dal governo dello sviluppo delle piante, dalla presenza di locali destinati alla raccolta dei prodotti) e una c.d. coltivazione domestica (consistente nella coltivazione artigianale presso la propria dimora, di un numero esiguo di esemplari destinati al fabbisogno personale“. Dunque, Cass., sez. pen. VI, 12 luglio 1994, n. 3353 apre la strada, già negli Anni Novanta del Novecento, a quello che, de jure condito, sarebbe stato il comma 1 Art. 75 TU 309/90 in tema di “uso personale“ depenalizzato e, per conseguenza, attenuato sotto il profilo sanzionatorio. Analogo è il temperamento istituzionale manifestato da Cass., sez. pen. VI, 18 gennaio 2007, n. 17983, a parere della quale “la prima tipologia di condotta [la coltivazione professionale] integra gli estremi del reato a prescindere da qualsiasi ricognizioni in ordine alla finalizzazione della sostanza estraibile dalle piante coltivate, la seconda [la piccola coltivazione domestica] è nient' altro che una possibile forma della detenzione [ex comma 1 Art. 75 TU 309/90] […] la cui rilevanza penale [anziché amministrativa] è vincolata alla dimostrazione della finalità di spaccio“.

Dunque, Cass., sez. pen. VI, 18 gennaio 2007, n. 17983 connette la “coltivazione professionale“, sempre e comunque delittuosa, al comma 1 Art. 73 TU 309/90, mentre la “coltivazione domestica“ viene automaticamente collegata al solo “uso personale“ di cui al comma 1 Art. 75 TU 309/90, poiché il “pericolo anti-sociale“ è minore o quasi nullo. Entro siffatta ottica “concretizzante“, nelle Motivazioni, si colloca, nuovamente, pure Cass., sez. pen. VI, 18 gennaio 2007, n. 17983, la quale concede la depenalizzazione ex comma 1 Art. 75 TU 309/90 “per la coltivazione di un numero circoscritto di piante di marjuana, [anche se] dotate di effetto drogante, e per chi non intenda fare commercio della coltivazione o del suo risultato, ma coltivi la cannabis per uso personale (consumo voluttuario o curativo)“. In buona sostanza, Cass., sez. pen. VI, 12 luglio 1994, n. 3353 e Cass., sez. pen. VI, 18 gennaio 2007, n. 17983 hanno inteso ricordare al Magistrato del merito che anche la condotta della “coltivazione“ va necessariamente contestualizzata. All'opposto, un'applicazione automatica del comma 1 Art. 73 TU 309/90 rischia di ledere la ratio costituzionale della “proporzionalità“ della pena. La responsabilità penale è “graduata“ e non deve dipendere da automatismi rigoristici e quasi algebrici.

Il primo orientamento giurisprudenziale, che prescinde dalla contestualizzazione dell'“uso personale“ è stato confermato pure da Cass., SS.UU., 24 aprile 2008. Tale prevalenza tassativa del comma 1 Art. 73 TU 309/90 sul meno severo comma 1 Art. 75 TU 309/90 è forse giustificata dalla inarrestabile diffusione delle coltivazioni con metodo indoor. In effetti, oggi è ben difficile, per la PG e l'AG, distinguere, in maniera nitida, tra piantagioni ad uso personale (Art. 75 TU 309/90) e piantagioni destinate allo spaccio (Art. 73 TU 309/90). P.e., nelle zone umide del Meridione italiano, la canapa cresce bene e manifesta un discreto tenore di THC. Basti pensare che, nel primo semestre del 2007, gli arresti per coltivazione di haschisch e marjuana sono stati ben 228, a fronte dei 155 registrati nell'intero 2006. A fronte di questi dati, è difficile distinguere tra “coltivazione domestica“ e “coltivazione professionale“.

Ognimmodo, a parere di chi redige, risulta assai più funzionale distinguere tra la “professionalità“, o meno, delle piantagioni, in tanto in quanto l'Art. 73 TU 309/90 reca una forbice edittale molto severa e molto più pesante rispetto alle “sanzioni amministrative“ di cui all'Art. 75 TU 309/90. D'altra parte, abbandonare la fattispecie attenuata della “coltivazione domestica“ significa pure, sotto il profilo del Diritto Costituzionale, violare la ratio della “ragionevolezza“ e della “proporzionalità“, giacché una coltura di dimensioni ridotte e ad uso meramente personale provoca un'offensione minore all'ordine pubblico nonché alla salute collettiva ex comma 1 Art. 32 Cost. . Livellare le fattispecie significa annichilire la scelta legislativa di depenalizzare l'uso personale ex Art. 75 TU 309/90. Applicare ad oltranza l'Art. 73 TU 309/90 significa, inoltre, impedire al Magistrato di merito quella necessaria contestualizzazione che costituisce uno dei fondamenti imprescindibili del Procedimento Penale. Del resto, anche dal punto di vista dell'offensività, è palese che una serra artigianale di modeste dimensioni conduce ad un pericolo socio-sanitario inferiore rispetto all'elevata pericolosità anti-sociale ed anti-giuridica di una modalità professionale di cura delle piante di canapa. Tale differenziazione è stata accolta anche da Corte Costituzionale 360/1995, ovverosia “le condotte [di coltivazione] non sempre sono paragonabili, essendo alcune collegate immediatamente e direttamente all'uso personale [ex Art. 75 TU 309/90]; altre coltivazioni, invece, sono prive di un nesso di immediatezza con l'uso personale. [In ogni caso] non vanno comunque agevolati comportamenti propedeutici all'approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale“. Come si può notare, Corte Costituzionale 360/1995 mantiene la generale ratio proibizionistica sottesa all'intero TU 309/90, ma, nel contempo, tale Precedente della Consulta si manifesta consapevole della notevole differenza tra una coltivazione domestica ad uso personale e, viceversa, una coltivazione professionale destinata allo spaccio p. e p. ex Art. 73 TU 309/90.

Pure in Dottrina, Amato (1995), commentando Consulta 360/1995, ribadisce la distinzione fondamentale tra la finalità dello spaccio e quella dell'utilizzo esclusivamente personale, pur se tale Dottrinario osserva che, talvolta, i metodi professionali di coltivazione non sono sempre teleologicamente preordinati allo spaccio. Ecco di nuovo, dunque, la necessità di un'accurata contestualizzazione di ciascuna fattispecie giudicanda. Oppure ancora, per esempio, l'uso di diserbanti raffinati, di lampade e di serre ben umidificate, nella realtà concreta, talvolta non contrasta con l'“uso meramente personale“. Pertanto, taluni, in Dottrina, preferiscono non collegare l'Art. 73 TU 309/90 con l'ipotesi della “coltivazione professionale“, giacché molto dipende dal singolo caso concreto. P.e., per fare un'altra doverosa precisazione, anche il “trasporto“ della sostanza matura e pronta all'uso potrebbe essere non finalisticamente destinato allo spaccio in favore di terzi.

Di nuovo, la distinzione tra gli Artt. 73 e 75 TU 309/90 va adattata, di volta in volta, allo specifico caso da valutare. Non esistono criteri automatici ed universali per distinguere il lemma “spaccio“ dai lemmi “uso personale“; donde, l'importanza del libero, prudente e, soprattutto, contestualizzato apprezzamento del Magistrato del merito. Tale è pure il parere di Cass., sez. pen. VI, 11 gennaio 2007, n. 15304, a parere della quale, pur se si tratta di un'interpretazione assai ardita, nemmeno il sequestro di una quantità ingente di sostanza reca alla presunzione della finalità dello spaccio ex comma 1 Art. 73 TU 309/90. L'uso personale non va mai escluso a priori. Sempre a livello di Diritto Costituzionale, Consulta 286/1974, ripresa da Consulta 71/1979, molti anni prima del TU 309/90, sottolinea che il Magistrato di merito deve “concretizzare“ il lemma “coltivazione“, in tema di stupefacenti. Sotto il profilo ontologico, di per sé, coltivare cannabis non reca sempre “ad una situazione di pericolo per la pubblica incolumità“.

Dunque, è necessario acclarare, di volta in volta, se, sotto il profilo finalistico, prevalesse la destinazione dello spaccio o quella dell'uso personale. Consulta nn. 286/1974 e 71/1979 rimarcano che, nel nome della ratio della proporzionalità, coltivare, detenere o trasportare droghe non implica, sempre e comunque, una cessione a terzi della sostanza illecita. In effetti, giustamente, Manes (2005) asserisce che “una pena-base tanto elevata come quella prevista dal comma 1 Art. 73 TU 309/90 –pur se temperata dalla (scontata) configurabilità della circostanza attenuante di cui al comma 5 (fatto di lieve entità)- dovrebbe essere riservata solo a condotte capaci di ritagliare quadri di offensività che ne giustifichino il rigore, emarginando condotte che, per modalità, quantità e qualità della sostanza, esprimono tutt'altra direzionalità lesiva“. Anche a parere di chi scrive, alla luce del comma 1 Art. 32 Cost., l' offensione al bene della “salute collettiva“ non è la medesima nel caso, da un lato, dello spaccio, rispetto al caso, dall'altro lato, del consumo personale.
 

La coltivazione di canapa è un reato di pericolo presunto non giuridicamente offensivo?

E' corretto distinguere tra la coltivazione professionale e quella domestica; altrettanto proporzionato e ragionevole è distinguere, nel concreto, la finalità dello spaccio e quella dell'uso personale; ciononostante, a molti pare ipertrofico qualificare la coltivazione alla stregua di un (non) reato a pericolosità astratta. In effetti, Consulta 360/1995 ha precisato che “spetta al giudice ordinario verificare se la specifica condotta di coltivazione oggetto della contestazione risulti effettivamente e concretamente pericolosa, cioè quantomeno idonea a ledere e/o porre in pericolo il bene giuridico tutelato [della salute ex comma 1 Art. 32 Cost.] […] verificando la soglia di principio attivo/capacità drogante, mediante rilevazioni tossicologiche“.

D'altra parte, anche in ambiti diversi dal TU 309/90, molti Precedenti di legittimità hanno affermato che il “reato di pericolo astratto“, talvolta, può mettere in pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, anche se, per l'orientamento prevalente, il “pericolo“ deve possedere una concretezza lesiva non astratta. P.e., Cass., sez. pen. III, 26 novembre 1999 ha reputato, in tema di tutela dei beni culturali, che, talvolta, anche i reati di pericolo presunto possono recare in sé “un minimo di idoneità offensiva“, sì da far scattare la necessità di un intervento repressorio dell'AG. Analogo, in tema di danno a beni immobili, è pure il parere di Cass., sez. pen. III, 2 maggio 2001, n. 3851. Diversa è la posizione di Cass., sez. pen. IV, 28 aprile 2006, n. 2895, a parere della quale, visto l'Art. 131 bis CP, la “particolare tenuità“ del fatto e l' “esiguità del danno o del pericolo“ cagionano la “astrattezza“ della pericolosità e, quindi, conducono alla non punibilità del fatto illecito astrattamente o lievemente pericoloso. Manes (2005) ha avuto il merito di tornare alla visione tradizionalistica dei “reati di mero pericolo“, poiché, a parere di tale Autore, “vanno cauterizzate letture (ed anticipazioni della tutela) esasperatamente formalistiche ed empiricamente grottesche, spesso veicolate da una ricostruzione artificiale dell'interesse protetto […] . Bisogna valorizzare il [vero] principio di offensività, [abbandonando] taluni modelli strutturali formalizzati in modo rigido o anelastico“.

In buona sostanza, Manes (2005) invita a ritornare alla vecchia eppur corretta regola del “kein Uebel, ohne Schuld“, poiché la mancanza del danno comporta la dissoluzione anche dell'intera struttura del reato. Un pericolo astratto o un danno troppo tenue non hanno posto nelle dinamiche del Diritto Penale, il cui utilizzo non dev'essere motivato da una “messa in pericolo“ risibile, simbolica o prossima allo zero. La Giuspenalistica è nata per tutelare la collettività da pericoli estremamente seri, e non bagatellari o formalistici. Entro tale prospettiva “concretizzante“, si colloca, in tema di coltivazione di cannabis, anche Donini (2007), a parere del quale “dal punto di vista dogmatico, in questi casi, a nostro parere, non si tratta di riconvertire in chiave concreta un giudizio di pericolo che il Legislatore […] ha predicato solo in astratto; si tratta, piuttosto, di valutare ex ante se sussistano le precondizioni perché quel fatto appartenga ad un tipo legale dove l'anticipazione dell'intervento punitivo è giustificata in ragione della potenzialità lesiva; di verificare, cioè, se, nell'effettiva situazione, sussista davvero, come fatto-presupposto, una attitudine o un pericolo potenziale o ipotetico per la salute pubblica che resta sì astratto, ma che pur sempre presuppone la pericolosità della sostanza coltivata“. Dunque, come si può vedere, Donini (2007) esorta l'interprete a moderare la “astrattezza“ del pericolo, nel senso che la pianta di canapa, coltivata e non ancora matura, diviene penalmente rilevante solo se, sotto il profilo medico-tossicologico, essa potrà esplicare un discreto tenore drogante.

Coltivare canapa è reato se, dal punto di vista dell'id quod plerumque accidit, l'astrattezza del pericolo si trasformerà in una concretezza fattuale, allorquando il fusto e le inflorescenze saranno maturi e la “pericolosità“ non sarà più “astratta“. Naturalmente, tutto dipende dalle analisi chimico-tossicologiche, le quali sono in grado di chiarire il grado fattuale della “astrattezza“ del pericolo. In effetti, Donini (2007) commenta il binomio “astrattezza del pericolo/concretezza del danno“ affermando che “si tratta […] di esigere una minima concretizzazione, ma ex ante, del giudizio di pericolo, perché lo schema più convincente a cui ricondurre il reato di coltivazione è appunto quello di un reato di pericolo potenziale, o di attitudine pericolosa, che è una forma di pericolo astratto più concretizzato, ex ante, sulla situazione effettiva“. La ratio delle argomentazioni di Donini (2007) consta nel predicare che la coltivazione di canapa è reato astrattamente pericoloso sino a quando la manifestazione tossicologica del tenore drogante toglie il requisito della “astrattezza“, in tanto in quanto la nocività per la salute collettiva è divenuta un dato concreto chimicamente apprezzabile. Si potrebbe dire che la coltivazione della canapa è un reato “non per sempre astrattamente pericoloso“, poiché il vegetale si matura e si trasforma, a differenza di certune sostanze materialmente “stabili“ che sono o non sono pericolose in senso definitivo.

Tuttavia, taluni hanno ritenuto che la mera coltivazione di una pianta di canapa non ancora matura integra gli estremi del “reato impossibile“ ex comma 2 Art. 49 CP (“La punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell'azione o per l'inesistenza dell'oggetto di essa, è impossibile l' evento dannoso o pericoloso“). A tal proposito, Pulitanò (2007) ha preferito continuare a definire la coltivazione di canapa come “reato astrattamente pericoloso“, anziché “reato impossibile“, in tanto in quanto, a parere di siffatto Autore, “il principio di offensività ha un fondamento ben più solido dell'Art. 49 del Codice Rocco“. P.e., nella fattispecie della coltivazione domestica di poche piantine, il reato non è “impossibile“, bensì “astrattamente pericoloso“, dal momento che la quantità finale di haschisch e di marjuana sarà esigua, dunque non metterà in grave pericolo il bene costituzionale della salute pubblica.

Anche Grosso (2003) invita l'interprete a mantenere una “concezione realistica“, alla luce della quale il reato, sebbene possibile, rimane astrattamente nonché debolmente pericoloso. Tuttavia, ma si tratta di un parere minoritario, Fiore & Fiore (1993) hanno sostenuto la riconducibilità della coltivazione di cannabis nel campo precettivo del comma 2 Art. 49 CP, poiché, a loro dire, “l'Art. 49 CP contiene una proiezione del principio di offensività come canone generalmente ricevuto […] [l'Art. 49 CP] costituisce un prezioso punto di orientamento, proprio per stabilire l' esistenza dell'offesa, allorché il bene protetto [ex comma 1 Art. 32 Cost.] corrisponda ad un'entità astratta ed immateriale […] [l' Art. 49 CP] è il veicolo normativo attraverso cui dare ingresso, nei congrui casi, alla regola dell'irrilevanza penale“.

Non mancano, poi, ipotesi estreme in cui taluni Dottrinari preferiscono il comma 2 Art. 49 CP alla ratio della “pericolosità astratta“. P.e., Marinucci (1983) sostiene che “si daranno casi dove l'inquadramento, nel contesto dogmatico, del comma 2 Art. 49 CP, restituito alla sua funzione originaria, risulterà più pertinente, come nell'ipotesi in cui una verifica a base totale accerti […] che le piante fossero già affette da una particolare patologia che ne avrebbe certamente minato la produttività [di THC] (alla stregua di un tentativo assolutamente inidoneo in concreto)“. Analogamente, Angioni (1994) asserisce che il “pericolo non concreto“ deve cadere sotto l'ambito precettivo del comma 2 Art. 49 CP.

A parere di chi redige, vero è, sotto il profilo empirico-operativo, che, a livello applicativo, risulta indifferente impiegare, per coltivazione della canapa, la ratio del reato “impossibile“ piuttosto che quella del reato “astrattamente pericoloso“. L'essenziale è mantenere una impostazione garantistica ogniqualvolta il bene della salute, ex comma 1 Art. 32 Cost. , non venga concretamente messo in pericolo. Dopodiché, almeno a parere di chi scrive, può essere lasciato alla singola sensibilità dell'Operatore giuridico far prevalere l'astrattezza o, viceversa, l'impossibilità del nocumento sociale recato dalla coltivazione di haschisch e marjuana. Certamente, tutto o, perlomeno, quasi tutto, dipende dalla analisi tossicologico-forensi delle piantine, le quali, tra l'altro, sono soggette ad una maturazione che può o, viceversa, non può far aumentare il tenore drogante. La canapa è, per sua stessa natura, una sostanza vegetale “in fieri“, non valutabile in maniera definitiva ed univoca, come accade per la cocaina, l'eroina o l'MDMA.


La canapa e la CEDU

Come giustamente rilevato da Cadoppi (2007), è inevitabile che la tematica della cannabis, definita “settore di notevole impatto sociale“, venga fatta oggetto di multiformi e, sovente, controverse interpretazioni di rango giurisprudenziale, anche alla luce della CEDU. Pure Vogliotti (2002) ha rimarcato che il perenne ed ipertrofico mutamento della Giurisprudenza italiana rischia, in tema di droghe cc.dd. “leggere“ (leggere ?, ndr), di far vacillare “le fondamentali garanzie dell'individuo“. P.e., Corte EDU Cantoni vs. Francia, 15 novembre 1996, anche nell'ambito della Legislazione delle droghe, ha ribadito che, spesso, lo stare decisis giurisprudenziale è più importante e decisivo del dato de jure condito e “conseguentemente, [bisogna] estendere il principio di irretroattività ex Art. 7 CEDU all'ipotesi di un mutamento giurisprudenziale imprevedibile, con effetti in malam partem“. Basti pensare, a titolo emblematico, al caos precettivo ed ai problemi di (non) retroattività sollevati da Consulta 32/2014.

P.e., Corte EDU SW e CR vs. Regno Unito, 22 novembre 1995 ha ribadito anch'essa che molti “mutamenti giurisprudenziali“ recano ad effetti in malam partem, anche a prescindere dal mancato aggiornamento della Legislazione ordinaria. Parimenti, Corte EDU Pessino vs. Francia, 10 ottobre 2006 ha richiamato, in caso di contrasti tra Legislazione e Giurisprudenza, la piena sacralità dell'Art. 7 comma 1 CEDU (“Nessuno può essere condannato per un'azione od una omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo la legge nazionale o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato“).

Come si nota, il richiamo dell'Art. 7 CEDU in Corte EDU Pessino vs. Francia, 10 ottobre 2006 si attaglia perfettamente alle caotiche aporie esegetiche provocate, in tema di droghe pesanti e droghe leggere, da Consulta 32/2014. Per utilizzare la terminologia della Corte EDU, i Magistrati di Strasburgo hanno sempre rimarcato che l'Art. 7 CEDU, in tema di “nessuna pena senza legge“, garantisce, tanto nella Civil Law quanto nella Common Law, la “ragionevole prevedibilità“ [reasonable predictability] delle norme incriminatrici. Ovverosia, ex comma 1 Art. 2 CP, “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato“. Detto in altri termini (comma 2 Art. 25 Cost.) “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso“ .

Tale ratio, ribadita pure nell'Art. 7 CEDU, non è sempre certa, nell'Ordinamento penale italiano, a causa di una confusa Legislazione in tema di distinzione tra deroghe pesanti e droghe leggere; inoltre, perlomeno nel caso dell'Italia, la Giurisprudenza segue orientamenti abrogativi od integrativi che generano situazioni gravemente antinomiche e contrarie alla ratio garantista di cui all' Art. 7 CEDU. P.e., CGCE, 8 febbraio 2007, C-3/06 P, Groupe Danone vs. Commissione ha sancito, con estrema chiarezza, che “il principio di irretroattività delle norme penali […] -che è un principio comune a tutti gli Ordinamenti giuridici degli Stati membri e fa parte integrante dei principi generali del Diritto di cui il giudice comunitario deve garantire l'osservanza– impedisce l'applicazione retroattiva di una nuova interpretazione di una norma che descrive un'infrazione, nel caso in cui si tratti di un'interpretazione giurisprudenziale il cui risultato non era ragionevolmente prevedibile nel momento in cui l'infrazione è stata commessa“. Tale asserto giurisprudenziale comunitario del 2007 deve essere tassativamente e rigorosamente applicato anche alla fattispecie delle disposizioni penali del TU 309/90 in materia di stupefacenti. Questo è pure l'autorevole parere di Viganò (2007). Predicare, nell'ambito della giuridificazione delle droghe, la retroattività normativa e/o giurisprudenziale significa certo soddisfare i malumori populistici, ma espone senz'altro a derive dittatoriali di matrice inquisitoria ed anti-garantistica. L'Art. 7 CEDU, anche per quanto afferisce al TU 309/90, è una garanzia indiretta del buon funzionamento dell'apparato statale democratico. (Anche) alla luce della controversa Giurisprudenza italiana in tema di distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, giustamente Nicosia (2006) rileva che “se il contenuto deontico del precetto non risulta decifrabile, anche solo in conseguenza di una Giurisprudenza ondivaga o contrastante (c.d. conflitto sincronico), ovvero risulta ridefinito alla luce di un overruling sfavorevole (c.d. conflitto diacronico), il singolo dev'essere preservato da effetti peggiorativi, perché questi o ha fatto affidamento su una precedente, diversa interpretazione overruled (così che non può essergli imputata una nuova norma ex post facto: garanzia della lex praevia), o non poteva fare affidamento su alcuna chiara (predictable) indicazione normativa (garanzia della lex stricta)“. P.e., come sottolineato da svariati Precedenti della Corte EDU, la ratio della “coltivazione [modestamente] domestica“ è, almeno nell'Ordinamento italiano, una categoria eminentemente giurisprudenziale, abbandonata ad una confusa e disordinata serie di Sentenze inficiate da pregiudizi politici e populismo. Applicare l'Art. 7 CEDU significa impedire una reformatio (giurisprudenziale) in malam partem, e ciò costituisce uno dei cardini del Garantismo accusatorio. Probabilmente, il Magistrato sarà sempre fonte di produzione del Diritto, ma occorre un maggiore ordine interpretativo ed una minore lacunosità legislativa

B I B L I O G R A F I A

 

Amato, Nuovi interventi giurisprudenziali in tema di coltivazione di piante da cui si estraggono

             sostanze stupefacenti. In Cass. Pen., 1995

Angioni, Il pericolo concreto come elemento della fattispecie penale, Giuffrè, Milano, 1994

Cadoppi, Il valore del precedente nel diritto penale. Uno studio sulla dimensione in action della

             legalità, Giappichelli, Torino, 2007

Donini, Modelli di illecito penale minore, CEDAM, Padova, 2007

Grosso, Su alcuni problemi generali del diritto penale, Rivista italiana di diritto processuale penale,

             2003

Fiore & Fiore, Diritto penale, UTET, Torino, 1993

Manes, Il principio di offensività nel diritto penale, Giappichelli, Torino, 2005

Marinucci, Fatto e scriminanti. Note dogmatiche e politico-criminali, in Rivista italiana di diritto

             processuale penale,  1983

Nicosia, Convenzione europea dei diritti dell'uomo e diritto penale, Giappichelli, Torino, 2006

Pulitanò, Diritto Penale, 2a edizione, Giappichelli, Torino, 2007

Viganò, Diritto penale sostanziale e Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in Rivista italiana

             di diritto processuale penale, 2007

Vogliotti, Penser l'impensable: le principe de la non-rétroactivité du jugement pénal in malam

             partem. La perspective italienne, in Revue de droit de l'Université Libre de Bruxelles, n.

             26/2002