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L’altra pandemia: l’AIDS in Russia

AIDS in Russia
AIDS in Russia

Il biennio 1959-60 ha rappresentato uno dei cicli più significativi nel processo di emancipazione africana, soprattutto nella estesa fascia centrale del “continente nero”. Grossomodo negli stessi mesi in cui, al di là dell’Atlantico, i Barbudos cubani di Fidel Castro avviavano una imponente quanto controversa riforma agraria, l’ondata decoloniale si infrangeva vigorosa sulle coste del Golfo di Guinea e penetrava in Camerun (1° gennaio 1960) – diffondendosi quindi a settentrione verso Senegal (4 aprile) e Nigeria (1° ottobre). La stagione delle indipendenze post-coloniali interessò altresì il Congo (30 giugno) – per il quale, tuttavia, la secessione dal Belgio coincise con l’inizio di un quinquennio di strascichi sanguinosi, inaugurato dallo scontro tra il presidente filo-occidentale Joseph Kasa-Vubu e il premier filo-sovietico Patrice Lumumba.

Beffarda conferma dell’adagio secondo cui “le disgrazie non vengono mai sole”, proprio al biennio in esame – e proprio al Congo – paiono risalire i primi casi accertati del virus HIV-1, il quale avrebbe innescato una pandemia da decine di milioni di morti nel giro di pochi decenni.

Trent’anni più tardi, nel luglio 1981, il New York Times avrebbe infatti pubblicato un articolo sulla singolare insorgenza di un “raro cancro” nelle comunità omosessuali della “Grande Mela” e di Los Angeles[1]. Fu una delle prime avvisaglie mediatiche di risonanza internazionale della malattia che, dopo aver funestato prevalentemente omosessuali e tossicodipendenti, finì per diventare pandemia, prima, ed endemia, dopo – coinvolgendo indiscriminatamente “tutto il popolo” in maniera pressoché stabile.

A voler essere precisi, però, essa non coinvolse tutti alla stessa maniera. Ad oriente della Cortina di ferro, nel nebuloso secondo mondo, l’AIDS rimase per larga parte una malattia statisticamente esotica: ne è dimostrazione il fatto che, almeno sino alla metà degli anni ’80, in Russia (centro geografico e politico dell’URSS) non venne accertato alcun infetto. Beninteso, i dati cui si fa riferimento sono pur sempre quelli forniti dalle autorità sovietiche del tempo, e quindi necessitano di essere presi cum grano salis – a maggior ragione alla luce della natura asseritamente “peccaminosa” delle iniziali occasioni d’infezione (siringhe infette, rapporti omosessuali non protetti), almeno agli occhi di un regime dalla morale relativamente pudica. Ciò premesso, si può affermare con un certo margine di sicurezza che l’incidenza della malattia sulla popolazione sovietica rimase alquanto bassa, complici le difficoltà comunicative tra Occidente e Oriente. Anche nei mesi successivi al collasso dell’URSS, nel 1995, mentre l’HIV/AIDS mieteva il numero record di 41.700 vittime negli Stati Uniti, la Russia ne rimaneva ufficialmente quasi immune.

Il trend, però, cominciò la propria lenta (ma costante) inversione da quello stesso anno, con la curva di mortalità statunitense in discesa e quella russa angosciosamente in salita. Fu con l’inaugurazione del nuovo millennio che Mosca dovette fare crudamente i conti con una vera e propria impennata di casi – e nel 2008 le curve di mortalità di Stati Uniti e Russia, fino a pochi anni prima abissalmente distanti, si incrociarono in senso opposto: quella statunitense in picchiata, quella russa in incontrollabile ascesa.

Al 2019[2], si stima che in Russia viva poco più di un milione di sieropositivi dei circa trentotto milioni complessivi sparsi nei cinque continenti, secondo i dati del Programma delle Nazioni Unite per l'HIV e l'AIDS[3]. Non è tanto a Mosca che si registrano le percentuali più preoccupanti, quanto a San Pietroburgo e nella vastissima regione siberiana – in particolar modo nelle regioni di Sverdlovsk, Irkutsk e Samara, dove si stima che quasi due persone su cento convivano con il virus dell'immunodeficienza. La fascia più colpita a livello nazionale è quella maschile tra i 30 e i 40 anni, dove l’incidenza è del 4%, a fronte di un’impressionante 1,38% riferito alla popolazione generale (dati del 2017[4]). Principale fonte di contagio sono di gran lunga i rapporti eterosessuali non protetti (57%), seguiti dall’uso di stupefacenti endovena (40%) e infine da rapporti omosessuali (3%). A preoccupare maggiormente è un indicatore significativo, quello dei nuovi casi, che non accenna a diminuire, e anzi registra un tasso di crescita annuale del 110% (più di 138.000 casi nel 2017). La Russia si distingue anche per un’altra peculiarità: la quantità di sieropositivi cui vengono regolarmente somministrati farmaci antivirali (principali responsabili dell’abbattimento della mortalità della malattia) è di un esiguo 36%, che sebbene in netta crescita rispetto agli scorsi anni rimane meno della metà della vicina Norvegia (90%) o dell’Italia (88%). Come conseguenza, nel Paese eurasiatico si registrano ogni anno circa 24.000 morti per HIV – cifra che alta non lo è solo in termini nominali, ma altresì in percentuale (1,05%), rendendo la Russia di gran lunga il primo Paese europeo per siffatta mortalità.

Fa (poco) meglio, sul lato HIV/AIDS, l’Ucraina – in cui la percentuale di popolazione infetta è dello 0,75%, il 40% del quale curato con antivirali, e una crescita di casi media annuale di 25-30.000 unità. Né rimangono estranei al problema buona parte dei Paesi dell’ex blocco sovietico, dal Baltico al Kazakistan – chi più (Lettonia), chi meno (Armenia).

Una crisi sanitaria che, sebbene – e proprio perché – oscurata dal dilagare del COVID-19, ha tutto il potenziale di rivelarsi una bomba ad orologeria.

 

[1] Lawrence K. Altman, “Rare Cancer Seen in 41 Homosexuals,” New York Times, 3 luglio 1981, Link.

[2] “Čislo inficirovannych VIČ v Rossii prevysilo 1 mln čelovek [Il numero di persone infettate dall'HIV in Russia ha superato 1 milione],” Interfaks, 1° dicembre 2019, Link.

[3] “Global HIV & AIDS Statistics — 2020 Fact Sheet,” UNAIDS, Link.

[4] Max Roser e Hannah Ritchie, “HIV/AIDS,” Our World in Data, Link.