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Russia contadina nelle favole a colore di Kandinsky

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Russia contadina nelle favole a colore di Kandinsky

Vassily Kandinsky (1866-1944) è tornato ancora una volta in Italia con le sue opere migliori, quelle stranite fiabe russe che seppe genialmente recuperare alla modernità e alla pittura dilatandone l’immaginario fantastico dei segni e dei colori oltre ogni confine formale. Cinquanta dipinti, con il prezioso apporto d’incisioni e disegni, sono esposti a Roma fino al 4 febbraio 2001 nel Complesso del Vittoriano, guida autorizzata un esauriente catalogo Mazzotta.                                                               

Dai pellegrinaggi per l’Europa, culminati con il soggiorno a Monaco, ricco di contatti, progetti e di esperienze, Kandinsky acquisisce quella capacità di discernimento che gli permetterà di guardare con occhi nuovi ciò che prima gli era apparso comune, scontato. A Mosca viene riassorbito dalla tradizione russa, ne percepisce quel patrimonio saturo di possibilità che sente di poter apprezzare come non mai. di essere disponibile a valutarne la portata artistica, sentirsene parte, soggetto e oggetto di un’indicibile totalità di sensazioni che uniscono l’esperienza europea al folklore orientale. Avverte l’ambiente nativo come una sola totale opera d’arte, una dimensione pittorica che lo esalta e lo avvolge in una sensazione mai provata, entrando in una povera isba di contadini come in una capanna iniziatica: “Il tavolo, le panche, la stufa enorme e imponente, gli armadi e le dispense, tutto era decorato di ornamenti variegati, distesi… Quando infine entrai nella stanza, la pittura mi circondò, io entrai in essa”. Su questi recuperi, riscontri, sensazioni, Kandinsky imposterà la propria pittura, quella più sua, più partecipabile e autentica. Il mondo dell’isba s’identifica con la fiaba, hanno entrambe la stessa dimensione, permettono di sognare a occhi aperti, trasferire il fantastico nella realtà e viceversa, fare “pittura”, senza chiedere prestiti, attraverso forme più libere giustificate dai colori e con l’apporto magico del ricordo, a volte preciso, come quando nei suoi dipinti una casa, una barca o un cavaliere riconducono alla misura in una realtà, sia pure trasfigurata, o più spesso soltanto da intuirsi attraverso sensazioni cangianti come un festoso caleidoscopio che stimola la fantasia.

Avverso al materialismo e al positivismo, Kandinsky è uno spirito profondamente russo, a suo modo religioso, misticheggiante e imbevuto di teorie steineriane. Ambirebbe realizzare il sogno antico e nuovo di più stretti legami, addirittura di una fusione, tra le diverse espressioni artistiche; si pensi ai suoi rapporti con Schoenberg e allo scambio tra loro di pubblicazioni: il “Manuale di armonia” del musicista e “Lo spirituale nell’arte” del pittore. Un superamento che Kandinsky crederà di aver raggiunto quando rinuncerà totalmente alla “pittura” nel senso plastico e in qualche modo agganciata a una figurazione da intuirsi, come quella che lo ha accompagnato fino al 1920-’21.

Ma questa è una storia che va oltre il periodo scelto per la mostra romana; una rassegna fermata appunto al primo ventennio del secolo. Con questi dipinti di realtà trasfigurate, Kandinsky assume il ruolo del precursore e di padre riconosciuto dell’astrattismo. Per astrattismo, in questi anni d’entusiasmi, s’intende unicamente l’incompleta rottura di livello con la realtà, quel nuovo mondo pittorico che farà dire proprio all’artista: “Accanto alla natura viene posto un nuovo mondo-“dell’arte”-“, un mondo altrettanto reale, concreto. Perciò io personalmente preferisco chiamare la cosiddetta “arte astratta, arte concreta”.                                                                                                                                         
Diversi anni dopo, il pittore russo dovrà constatare dolorosamente, sfogandosi con l’amico italiano Carlo Belli, l’autore di quel “Kn”, definito proprio da Kandinsky “Il vangelo dell’astrattismo”, come attraverso il varco da lui fiduciosamente aperto sia poi passato tutto il dilettantismo impotente arruolatosi in massa e senza esami di ammissione nei ranghi accoglienti dei cosiddetti novatori. Un esercito internazionale di pavidi sfrontati, decisi a sfruttare senza ritegno quel cosiddetto astrattismo che il suo inventore voleva saturo di più valenze e medium tra l’anima russa e la modernità, degno addirittura di essere considerato “al servizio divino”. Un astrattismo pensato sempre, a torto o a ragione, come un’esperienza rigidamente elitaria: “Pochi artisti soltanto possono oggi (era il 1910) contentarsi esclusivamente di forme puramente astratte”; un’iniziazione mistica, aristocratica e di elevato intellettualismo non facilmente accessibile e non sempre condivisibile.        

La pittura per la pittura, un’arte che non descriva e non rappresenti ma sia, come la musica, tramite di sensazioni attraverso linee, forme e colori, è un pensiero che si ripresenta quando sembra che tutto sia stato provato, consumato, annullato e dietro l’angolo s’intravede la morte nei panni noti all’accademia. È il tentativo di risalire alle forme primarie del sentire ma che finisce fatalmente per portare l’arte verso il nulla, la tela bianca, come la musica al silenzio. In mezzo un interminabile mercatino dell’usato all’insegna della novità senza impegno e della libertà senza sforzo. Una “tabula rasa” che non è più una necessità per ripartire ex novo ma un punto d’arrivo nel caos totale. L’annullamento del linguaggio finisce così per somigliare ai black-out nelle grandi metropoli, quando all’uomo basta la difesa del buio per dare libero sfogo ai suoi istinti peggiori, dimostrando quanto siano facilmente rimovibili millenni di civiltà se vengono anche solo allentate le regole che li sostengono.                                                                                                  
Va detto che gran parte della confusione, dell’incomprensione e anche della malafede che permeano l’arte moderna, fino alle attuali demenziali espressioni, sono più dovute all’irresponsabilità dei critici che alla stravaganza degli artisti. Inseritasi tra le arti con la prepotenza del parassita, la critica ha saputo approfittare della nequizia dei tempi, della debolezza creativa e quindi dello smarrimento sopravvenuto nel nostro tempo per erigersi a arbitro, manager, suggeritore e infine maestra unica e indiscussa, che può giustificare o irridere, dispensar patenti di qualità o veti inappellabili contando su una platea intimorita e impotente. Già Kandinsky poteva dire ai suoi tempi:”…la folla è fiduciosa e credulona”, e alla folla hanno finito per assimilarsi anche gli artisti, aggiungiamo noi: “Ma come potrebbe essere diversamente? Su tutta una serie di argomenti che non conosce, come non dare ascolto a un audace ignorante, a uno che proclama con autorità e tono autorevole le sue verità da quattro soldi?”

(Sigfrido Bartolini)

Articolo pubblicato su IL GIORNALE”  del 28 novembre 2000