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L’avvocato e la controparte: profili deontologici e disciplinari

Avvocato e controparte
Avvocato e controparte

Nonostante la deontologia forense si fondi sostanzialmente ed essenzialmente sull’atteggiarsi del rapporto di colleganza e sui rapporti di assistenza, consulenza e difesa del “cliente”, non potevano essere ignorati quelli con altre parti con le quali l’avvocato, nell’espletamento del mandato, è necessitato ad averli, come ad esempio quelli con la “controparte”.

La controparte è definita, nel linguaggio comune, come parte avversaria e ciò la dice lunga sulla conflittualità che con essa possa sorgere e come talvolta sia possibile che essa degeneri.

Ebbene, la controparte merita di essere rispettata ed i rapporti con essa si devono ispirare ai doveri di dignità, probità e decoro ma anche di lealtà e correttezza, oltre ai doveri che di seguito verranno trattati.

In particolare, con la controparte che sappia assistita da altro collega l’avvocato non deve mettersi in contatto, mentre, in ogni stato del procedimento e in ogni grado del giudizio, può avere contatti solo in presenza del suo difensore o con il consenso di questi (articolo 41, Rapporti con parte assistita da collega, commi 1 e 2, Codice deontologico forense, di seguito C.d.f.).

Inoltre, “non deve ricevere la controparte assistita da un collega senza informare quest’ultimo e ottenerne il consenso” (articolo 41, comma 3, C.d.f.). Secondo una recente sentenza del Consiglio Nazionale Forense (di seguito C.N.F.), anche la semplice consapevolezza della presenza di un collega che assiste la controparte obbliga l’avvocato a rispettare l’anzidetto canone deontologico (C.N.F. 26 settembre 2014 n. 113). Mentre, “può indirizzare corrispondenza direttamente alla controparte, inviandone sempre copia per conoscenza al collega che la assiste, esclusivamente, per richiedere comportamenti determinati, intimare messe in mora, evitare prescrizioni o decadenze” (articolo 41, comma 4, C.d.f.).

È stato ritenuto, però, che “non integra illecito deontologico alcuno, sotto il profilo della slealtà e della scorrettezza, il comportamento del professionista che, mediante intimazione di precetto di pagamento, dia esecuzione alla sentenza nei confronti della parte soccombente senza preventivamente avvertire i Colleghi avversari, atteso che, per un verso, un tale obbligo deve ritenersi sussistente solo quando il difensore della controparte abbia espressamente richiesto i conteggi della somma dovuta ai fini dell’adempimento spontaneo ed immediato, e che, per altro verso, il precetto di pagamento è di per sé, e per volontà del legislatore, l’esatto contrario della slealtà, costituendo l’invito (precedente il processo di esecuzione cui è esterno) ad adempiere nel termine dilatorio che deve concedersi prima di dar corso all’esecuzione” (in questi termini, C.N.F. 28 dicembre 2012 n. 206).

Ancora, “l’avvocato non deve aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte, quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita” (articolo 66, Pluralità di azioni nei confronti della controparte, comma 1, C.d.f.).

La disposizione obbliga il professionista ad un bilanciamento degli interessi contrapposti del cliente e della controparte, che si concretizza con l’adozione del criterio del «mezzo utile» a tutelare le ragioni effettive del proprio cliente, ovvero della strumentalità necessaria tra iniziativa giudiziale e tutela dell’interesse creditorio.

Rispetto a ciò, l’adozione di iniziative non rispecchianti i suddetti criteri e, soprattutto, la ragionevolezza, tali da trasformarsi in un abuso del diritto di azione, può esporre l’avvocato non solo a responsabilità disciplinare (come si vedrà tra breve) ma anche all’azione risarcitoria della controparte ex articolo 2043 del codice civile. Difatti, in tal caso, si è osservato che “il danno eventualmente arrecato al terzo [alla controparte] è ingiusto in quanto lesivo di una situazione giuridica soggettiva meritevole di protezione (proprietà, libertà negoziale, e così via) laddove il bilanciamento dei valori in conflitto (diritto costituzionale di azione, da un lato, diritti costituzionali di libertà e di proprietà, dall’altro) è già effettuato dalla norma deontologica con l’esprimere il punto di equilibrio tra il diritto egoista e le ragioni della solidarietà sociale” (così, U. Perfetti, Corso di deontologia forense, Padova, 2008, 78).

In quest’ottica costituirebbe illecito disciplinare, ad esempio, il comportamento dell’avvocato che, potendo richiedere un unico decreto ingiuntivo per una pluralità di fatture anche se relative a diversi lavori, chiedesse tanti decreti ingiuntivi quante sono le fatture. In tal caso, il comportamento dell’avvocato darebbe vita altresì a un vero e proprio “abuso del processo”, con conseguente violazione anche dei doveri di probità, lealtà e correttezza prescritti dagli articoli 9, comma 1, C.d.f. e 88 del codice di procedura civile.

Venendo all’analisi del dovere deontologico in questione, innanzitutto deve dirsi che la locuzione “iniziative giudiziali” non deve essere intesa in senso stretto tale da escludere quelle stragiudiziali.

In particolare, secondo la giurisprudenza del C.N.F., il disposto va interpretato nel senso che “l’espressione «iniziative giudiziali» si riferisce a tutti gli atti aventi carattere propedeutico al giudizio esecutivo suscettibili di aggravare la posizione debitoria della controparte e, quindi, anche agli atti di precetto, benché non costituenti atti di carattere processuale” (così, C.N.F. 13 luglio 2011 n. 98, il quale ha ritenuto che pone in essere un illecito deontologico l’avvocato che, mediante l’intimazione di venti precetti diversi a ciascuno dei venti condomini sull’asserito presupposto del vincolo solidale di condebito, aggravi la posizione dei singoli determinando la lievitazione di voci tariffarie e di spese non consone alla natura dell’atto, all’evidente unico scopo di conseguire un ingiusto profitto e di aggravare, in maniera palesemente infondata, la situazione debitoria della controparte).

Di poi, “l’avvocato può intimare alla controparte particolari adempimenti sotto comminatoria di azioni, istanze fallimentari, denunce, querele o altre iniziative, informandola delle relative conseguenze, ma non deve minacciare azioni o iniziative sproporzionate o vessatorie” (articolo 65, Minaccia di azioni alla controparte, comma 1, C.d.f.).

Il dettato normativo è volto a contemperare le esigenze di difesa del proprio assistito con il rispetto della determinazione della controparte consentendo al difensore di rivolgere alle controparti una intimazione ad adempiere anche sotto comminatoria di azioni e/o iniziative giudiziarie nonché denunzie.

Naturalmente, però, un tale diritto/dovere non può essere illimitato, e oltre che rispettare i principi educazionali trova il suo limite sia nel già citato principio di proporzionalità, secondo cui la reazione ad un comportamento illecito deve essere, quanto ai mezzi e alle conseguenze, proporzionata all’offesa, che nel principio di non vessazione, dal momento che la sproporzione può essere individuata anche nella sottoposizione ad imposizioni materiali o morali che nessun collegamento funzionale abbiano con il soddisfacimento del diritto vantato. Tanto sta a significare che non dovranno mai essere minacciate azioni o iniziative sproporzionate o vessatorie, che non siano funzionali all’azione il cui adempimento viene richiesto, o che rappresentino per la controparte un rilevante pregiudizio anche di ordine extragiudiziario.

In questa prospettiva costituiscono illecito disciplinare: a) l’intimazione fatta dall’avvocato alla controparte di pagare “direttamente a mani dello scrivente” una somma sproporzionata per il proprio intervento, pena il ricorso all’autorità giudiziaria, “in quanto la minaccia di adire l’autorità giudiziaria per ottenere quanto richiesto alla controparte (e cioè capitale e spese legali) deve pur sempre tener conto del principio di proporzionalità, alla luce del quale le iniziative legali prospettate o minacciate devono essere sempre funzionali alle inadempienze altrui e non devono in alcun modo determinare il timore di subire ingiuste iniziative giudiziarie e/o un rilevante pregiudizio per la controparte; pregiudizio che, naturalmente, non può non essere rapportato e commisurato alla inadempienza in cui la stessa controparte è incorsa” (in questi termini C.N.F. 12 dicembre 2014 n. 181); b) “la comunicazione con la quale l’avvocato, senza alcuna necessità giuridica e funzionale all’attività difensiva, rappresenti alla controparte un rilevante pregiudizio anche di ordine extra-giudiziario al fine implicito di esercitare una indebita pressione, come nel caso della riserva di sporgere denuncia penale in relazione a comportamenti invece privi di penale rilevanza” (così C.N.F. 26 settembre 2014 n. 112).

Tuttavia, prima di assumere iniziative, nel caso ritenga di invitare la controparte ad un colloquio nel proprio studio, deve precisarle che può essere accompagnata da un legale di fiducia (articolo 65, comma 2, C.d.f.).

La violazione dei doveri sopra citati comporta l’applicazione della sanzione della censura (art. 65, comma 4; articolo 41, comma 5; articolo 66, comma 2, C.d.f.), la quale “consiste nel biasimo formale e si applica quando la gravità dell’infrazione, il grado di responsabilità, i precedenti dell’incolpato e il suo comportamento successivo al fatto inducono a ritenere che egli non incorrerà in un’altra infrazione” (articolo 22, comma 1, lett. b), C.d.f.). Tuttavia, nei casi più gravi, tale sanzione “può essere aumentata, nel suo massimo, (…) fino alla sospensione dall’esercizio dell’attività professionale non superiore ad un anno” (articolo 22, comma 2, lett. b), C.d.f.), mentre, nei casi meno gravi può essere diminuita all’avvertimento (articolo 22, comma 3, lett. a), C.d.f.), che “consiste nell’informare l’incolpato che la sua condotta non è stata conforme alle norme deontologiche e di legge, con invito ad astenersi dal compiere altre infrazioni; può essere deliberato quando il fatto contestato non è grave e vi è motivo di ritenere che l’incolpato non commetta altre infrazioni” (articolo 22, comma 1, lett. a), C.d.f.). Di poi, “nei casi di infrazioni lievi e scusabili, all’incolpato è fatto richiamo verbale, non avente carattere di sanzione disciplinare” (articolo 22, comma 4, C.d.f.).

Ancora, alla controparte si possono addebitare competenze e spese per l’attività prestata in sede stragiudiziale, purché la richiesta di pagamento sia fatta a favore del proprio cliente (articolo 65, comma 3, C.d.f.), pena l’applicazione della sanzione disciplinare della censura ai sensi dell’articolo 65, comma 4, C.d.f., con l’aumento o la diminuzione della stessa, a seconda che si tratti di infrazione più o meno grave, ai sensi dell’articolo 22 C.d.f. sopra citato.

L’avvocato non deve, però, richiedere alla controparte il pagamento del proprio compenso professionale, salvo che ciò sia oggetto di specifica pattuizione e vi sia l’accordo del proprio cliente, nonché in ogni altro caso previsto dalla legge (articolo 67, Richiesta di compenso professionale alla controparte, comma 1, C.d.f.). Invece, “nel caso di inadempimento del cliente, può chiedere alla controparte il pagamento del proprio compenso ma solo a seguito di accordi, presi in qualsiasi forma, con i quali viene definito un procedimento giudiziale o arbitrale” (articolo 67, comma 2, C.d.f.). La violazione di tali doveri comporta l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento (articolo 67, comma 3, C.d.f.), che, nei casi più gravi, può essere aumentata, nel suo massimo, “fino alla sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per due mesi” (articolo 22, comma 2, lett. a), C.d.f.), mentre, nei casi di infrazioni lievi e scusabili, è sostituita da un mero richiamo verbale, non avente carattere di sanzione disciplinare (articolo 22, comma 4, C.d.f.).

Particolare menzione merita al riguardo l’articolo 68 del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, Ordinamento della professione di avvocato, convertito nella Legge 22 gennaio 1934, n. 36, non abrogato a seguito dell’entrata in vigore della Legge 31 dicembre 2012, n. 247, contenente la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, a mente del quale “quando un giudizio è definito con transazione, tutte le parti che hanno transatto sono solidalmente obbligate al pagamento degli onorari e al rimborso delle spese di cui gli avvocati che hanno partecipato al giudizio negli ultimi tre anni fossero tuttora creditori per il giudizio stesso”.

La norma in questione deroga al principio per cui il legale può rivolgersi per il compenso solo al proprio cliente e rappresenta dunque uno di quei casi che non integrano illecito disciplinare ai sensi dell’articolo 67, comma 1, C.d.f., salvo che la condotta dell’avvocato si ponga in contrasto con l’articolo 68 della legge professionale.

La formula adoperata dall’articolo 68 cit. è ampia, nel senso che il concetto di transazione non va ricondotto nello schema tipico e delimitato del negozio connotato dei requisiti di sostanza e di forma previsti dagli articoli 1965 ss. del codice civile, ma va inteso nella sua più ampia accezione di accordo che abbia l’effetto di estinguere la lite senza l’intervento del giudice (in tal senso, cfr. Cass. civ., sez. II, 23 agosto 1993 n. 8899 e 11 gennaio 1997 n. 242). Difatti, secondo la giurisprudenza, solidarietà sussiste anche nel caso di un accordo col quale sia stato previsto semplicemente l’abbandono della causa e la cancellazione della stessa dal ruolo, o la rinuncia agli atti del giudizio (così, Cass. civ., sez. II, 11 giugno 1994 n. 5705 e Cass. civ. sez. lav., 23 giugno 2000 n. 8589), oppure nel caso di conciliazione ai sensi dell’art. 411 c.p.c. (Cass. civ., sez. II, 13 settembre 2004 n. 18343), mentre è indifferente che gli avvocati abbiano partecipato alla sua redazione (Cass. civ., sez. III, 1 giugno 2006 n. 13135) o che il loro ministero professionale persista ancora (Cass. civ., sez. un., 12 novembre 1992 n. 12203).

Condizione essenziale è, malgrado ciò, la preesistenza di un processo, non meramente potenziale ma effettivo ed attuale, caratterizzato da un rituale contraddittorio, nel corso del quale le parti stipulino la transazione, senza soddisfare le competenze del professionista. L’articolo 68, infatti, “è norma di diritto singolare, di stretta interpretazione, sicché il difensore può invocare la solidarietà passiva dell’avversario del cliente solo se quest’ultimo ha stipulato la transazione che ha definito il giudizio e non anche se egli si è limitato ad avvalersi di una transazione stipulata inter alios” (in questi termini, Cass. civ., sez. II, 13 agosto 2015 n. 16856). Ciò può desumersi dal riferimento testuale del citato art. 68 alla qualità di “creditori” dei professionisti, ovviamente verso i rispettivi clienti, e dalla ratio della disposizione, “ravvisabile nell’intento di evitare che il cliente possa eludere le legittime aspettative di compenso del suo difensore, mediante accordi con la controparte che pongano fine alla controversia” (così, Cass. civ., sez. II, 20 settembre 1997 n. 9325 e 18 agosto 1998 n. 8159).

Il principio della solidarietà non trova applicazione, invece, in caso di attività stragiudiziale (Cass. civ., sez. II, 5 febbraio 1974 n. 318).

Il diritto è ovviamente disponibile: infatti, è buona prassi inserire nella transazione che viene stipulata un’apposita clausola di rinuncia da parte dei professionisti al vincolo di solidarietà con impegno, pertanto, a reclamare il pagamento solo dal proprio assistito. Tuttavia, secondo la giurisprudenza di legittimità, i difensori possono anche, intervenendo nella transazione, liberare il cliente dalla relativa obbligazione ed accettare che, nei loro confronti, a detto titolo, resti tenuta solo l’altra parte, a carico della quale la transazione medesima abbia definitivamente posto le spese giudiziali nel loro complesso (cfr. Cass. civ., sez. III, 26 settembre 2005 n. 18786 e 1 giugno 2006 n. 13135, cit.).