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Le impronte digitali tra fisiologia e valore giuridico

La cronaca giudiziaria, televisiva e della carta stampata ci riempie di notizie poco piacevoli.

Omicidi, rapine e altrettanti efferati crimini fanno parte del nostro vivere quotidiano.

Siamo invasi da fiction, indagini piu’ o meno famose, casi giudiziari affidati a mani esperte e personaggi da “fumetto”. La nostra vita è diventata così “interessante”, tanto da essere noi stessi divenuti opinionisti del crimine.

Quel circo mediatico giudiziario trova un limite insormontabile in quanto la realtà è di certo diversa e diversificata rispetto a quei delitti che ad oggi non hanno portato alla luce i veri autori.

L’eccessivo interesse mediatico, per opinione del tutto personale, incide profondamente su quella imparzialità e serietà della giustizia, la cui verità processuale non sempre coincide con quella sete di “giustizialismo” di quel pubblico mediatico, spesso confuso e eccitato da quanto ci viene raccontato sotto forma di trame romanzesche.

Tradotto in termini pratici, abbiamo avuto modo di leggere di sentenze e di iniziative processuali che hanno avuto impulsi inusitati, che hanno favorito approfondimenti non sempre necessari e ben lontani da fare chiarezza, influenzando lo stesso giudizio (ndr).

Per chi non abbia mai vissuto una esperienza quale operatore del crimine o avuto modo di accedere in prime cure in un contesto dove si è appena consumato un delitto, non è semplice riferire sulle modalità di approccio e su cosa è possibile rinvenire.

Chi scrive, lo fa solo in quanto ha trattato personalmente la materia.

Senza tema di smentita, può sostenere che ogni crimine ha una sua soluzione in quanto frutto del comportamento umano e quindi fallace in sè.

Tuttavia, il delitto diventa “perfetto”, laddove si opera in un contesto dove intrusioni di soggetti estranei al delitto possano addirittura modificare in tutto o in parte lo stato dei luoghi. Così il medesimo repertamento non sempre risulta produttivo di effetti a conclusione dell’attività scientifica, perché inquinato. Ma occorre ricordare che sulla scena del crimine, secondo anche lo stesso principio di Edmond Locard “la persona o le persone sul luogo dove è stato commesso un delitto quasi sempre lasciano qualcosa o portano via qualcosa”[1]. Con questo si vuole evidenziare, senza ipocrisia o presunzione, che spesso la negligenza, la superficialità o la mancata osservanza di un corretto comportamento sulla scena del delitto minano l’applicazione di metodiche avanzate e note in criminalistica.

Un esempio su tutti, l’ evidenziazione di impronte papillari, dove spesso si accerta che quell’impronta, asportata in corso di repertamento, utile al confronto dattiloscopico, appartiene non già al presunto autore del fatto, ma ad un operatore di polizia o piuttosto ad un operatore sanitario o addirittura semplici curiosi che sono intervenuti incautamente sulla scena del delitto, magari prima dell’intervento degli organi inquirenti.

Mi soffermo sulle impronte digitali, dato per certo che la loro valenza scientifica non lascia dubbi sulla identità, rispetto invece agli accertamenti sul DNA assai più complessi, dove spesso le piccole quantità di sangue con cui si opera subiscono alterazioni importanti tali da ledere l’esatta identificazione. Giova ricordare altresì che i gemelli omozigoti, ad esempio, hanno la stessa catena del DNA, ma non i medesimi disegni papillari.

Ciò vuol dire che una impronta papillare utile al confronto dattiloscopico fornisce una identità incensurabile e incontrovertibile sotto ogni punto di vista, scientifico e giuridico, se non fosse per qualche eccesso di tutela richiesto in fase processuale da sentenze di merito e dalla stessa Corte di Cassazione. Questa ha fissato un numero di punti 16 o 17 di confronto, necessari per avere una identità certa, non condivisibile ovviamente.

Occorre dire che le impronte digitali e il loro utilizzo fanno discutere anche in contesti diversi dalle aule giudiziarie. Nel mondo del lavoro hanno dato vita ad un acceso dibattito sul loro utilizzo, anche per quanto attiene allo stesso semplice trattamento quale l’accesso dei lavoratori nel posto di lavoro. Tale argomento oggetto di discussione anche dal Garante della Privacy, è stato già trattato doviziosamente da Filodiritto (Avv. Antonio Zama) e non occorre aggiungere altro se non rileggerne il contenuto [2].

Ma cos’è l’impronta digitale e come è composta?

L’impronta digitale è composta da elementi organici (urea, acidi grassi etc) e elementi inorganici (ammoniaca, cloruri) e per il 98% di acqua.

Le superfici delle palme delle mani, delle piante dei piedi e delle dita sono costituite dalle cosiddette papille dermiche, così denominate da Marcello Malpighi [3], che nel loro insieme determinano le creste cutanee, ovverosia dei rilievi carnosi che contengono i corpuscoli tattili. Generalmente l’impronta si presenta come deposito di essudato a contatto con una superficie.

La stessa può formarsi per semplice asportazione da una superficie che rimane impressa al polpastrello, oppure per pressione esercitata su materiale plasmabile o per apposizione di sostanze con cui le dita si imbrattano, come vernici, inchiostro, sangue.

Il disegno digitale si forma già dal quarto mese di vita intrauterina, resta immodificato nel tempo sino al suo completo disfacimento dopo la morte.

I polpastrelli delle dita, così come la palma della mano e la pianta del piede sono costituiti da particolari disegni definiti in anatomia dermatoglifi.

Il dermatoglifo non è altro che la linea rilevata della cute che disegna varie forme sulle impronte digitali la cui assenza o presenza determinano l’appartenenza delle stesse ad uno o altro tipo di figura.

La classificazione italiana dell’impronta è data da quattro figure

· Figura adelta (assenza del delta o scarsamente definito)

. Figura monodelta (presenza di un solo delta posto alla base circa del polpastrello)

. Figura bidelta (presenza di due delta)

. Figura composta (impronta caratterizzata da due delta con sistemi di linee papillari ad ansa racchiusi uno nell’altro)

Il delta è così definito in quanto tale figura sui polpastrelli assume una figurazione che ricorda la lettera delta in maiuscolo dell’alfabeto greco, costituita appunto da un triangolo.

Dunque su questi spunti ciò che è rilevante nell’attività scientifica è la dimostrazione dell’identità dal latino “idem” lo stesso.

Filosofi, studiosi, matematici hanno trattato questo argomento assai interessante, pur tuttavia senza mai addivenire ad una certezza assoluta sul medesimo concetto.

Quindi l’accertamento dell’identità potrà rilevarsi e trovare il proprio appoggio sui concetti di identità assoluta e relativa, nonché relativa propria e impropria.

Veniamo ora a chiarire questi aspetti divisi per punto:

· Identità assoluta si ha quando un soggetto, un oggetto è uguale a se stesso nel medesimo istante; dunque dato per certo, che ogni soggetto e oggetto è uguale solo a se stesso in quel medesimo istante, tutto cio’ che non lo è in quell’istante, è da definirsi identità relativa .

· Identità relativa impropria rappresenta invece, qualsiasi impronta, proiezione o riproduzione di un oggetto che non puo’ essere fatta risalire con certezza provata attraverso l’esame dei caratteri generali e particolari al solo oggetto che le ha prodotte, ma a quantità imprecisabili di oggetti della medesima specie.

· Identità relativa propria rappresenta invece, in sede di confronto con certezza provata che il rilevamento dei caratteri generali e particolari sia da ricondurre a quel solo oggetto e non ad altri.

In ragione di tali concetti è da stabilire ora qual è il numero minimo di particolarità necessarie perché in una comparazione tra parti di impronta papillare rilevata sulla scena del crimine e quella di una persona sospettata si possa parlare di identità.

Il matematico Balthazard stabilì, alquanto semplicisticamente che sulla base di 16 -17 punti caratteristici, la probabilità di avere le stesse “minuzie” su persone diverse è talmente piccolo (1:17.179.869.184) che, anche valutando la popolazione mondiale è possibile ritenere certa la prova dell’identità dattiloscopia.

Lo stesso autore, ammise parimenti, che tale somma poteva essere ridotta a 11 o 12 se la popolazione interessata era ovviamente in numero minore rispetto a quella mondiale.

Pertanto secondo un criterio logico investigativo, un numero inferiore di punti di confronto, a quello indicato dal Balthazard , può essere sicuramente idoneo a ritenere accertata l’identità, rispetto ad un numero assai inferiore di persone [4].

Dunque su tale calcolo la giurisprudenza italiana, ancora oggi, ritiene che un’impronta papillare è giuridicamente utile alle comparazioni quanto possiede almeno 16 punti caratteristi, uguali per forma e posizione [5].

Allo stesso modo quando trattasi di impronte palmari “ai fini probatori, le impronte palmari, al pari di quelle digitali, sono dotate di una propria individualità, sono immutabili nel tempo e permettono rapporti di identità assolutamente significativi, con l’effetto che i rilievi di tali impronte hanno piena validità” [6].

Ma tale assunto non trova alcun fondamento laddove già nel 1973 l’I.A.I. (International Association for Identification) ha ritenuto che “Non esiste ai giorni nostri nessuna base legale per esigere un numero minimo di punti di riscontro comune a due dita per stabilire una identificazione positiva” [7].

Un’impronta caratterizzata da pochissimi punti caratteristici, va riconosciuta valida ai fini dei giudizi identificativi. Un numero di 7 o 8 minuzie ben chiare e distinguibili è sicuramente idonea per fornire un giudizio di identità.

In definitiva, a parere dello scrivente, gli accertamenti dattiloscopici la cui valenza scientifica è incensurabile, ancora oggi, pur potendo essere utilizzati dal giudice come fonte di prova, nel rispetto del libero convincimento anche laddove gli stessi non hanno carattere formale e sostanziale di perizia (art. 359 e 360 codice di procedura penale), trovano dei limiti in ragione di una non necessaria attribuzione in sede di confronto di 16-17 punti uguali per forma e posizione.

Risulta dissonante, anche rispetto a quel medesimo principio matematico cui la Corte di Cassazione fa riferimento, che in un contesto dove i confronti vanno effettuati su di un numero ridotto di persone, contestualizzato su di un luogo ben preciso, con eventuali sospettati o indagati di un crimine, pretendere la sussistenza di un così numero elevato di punti di confronto tra due impronte. Un’impronta caratterizzata da un numero insufficiente di minuzie, esprime ancora la possibilità di confronti validi per l’esclusione o piuttosto per il prosieguo delle indagini da parte della Polizia Giudiziaria.

Pertanto, nonostante la riforma della procedura penale e i numerosi libri scritti sulle tecniche criminalistiche e sul loro utilizzo (basta connettersi ad internet per conoscere ditte che producono e commercializzano strumenti tecnici utilizzati per le scienze forensi) resta un certo scetticismo in ordine alla genuinità delle tecniche di investigazione scientifica, dato per certo che gli ultimi processi che hanno avuto come protagonisti personaggi illustri del mondo della polizia scientifica, non sempre hanno portato a risultati incontrovertibili.

Sarà giunto il tempo di rivalutare il vecchio investigatore, pare da tempo accantonato?

Ritengo e sostengo che la polizia scientifica non può da sola portare alla soluzione dei delitti, in assenza di quella necessaria, silente attività di controllo, osservazione, informazione tipica dell’investigatore di un tempo, capace di addivenire al caposaldo di trame delittuose assai più complesse e articolate pur in assenza di “altisonanti” tecniche investigative.

La scienza senza coscienza, senza il contributo attivo dell’uomo capace, non è altro che una rappresentazione cinematografica dove solo in quel contesto il crimine resta imperfetto.



[1] 1 E. Locard, Traité de criminalistique ; les empreintes et les traces dans l’enquête criminelle. Desvigne, Lyon, 1931

[2] FILODIRITTO - contributi del 15.12.05 e 30.07.05 dell’Avv Antonio ZAMA

[3] Marcello Malpighi nato a Crevalcore (BO) nel 1628 e morto a Roma nel 1694, medico, anatomista e fisiologo

[4] Champod “Edmond Locard- Numerical standards and probable identifications” J forensic ident. 1995)

[5] Corte di cassazione Penale ex pluribus sez 2 del 14/11/1959 e sez 4 n.4254 del 02.02.1989, sez.5 nr.24341 del 23.5.2005

[6] Cassazione penale sez. 2 nr.11220 del 23.11.1985

[7] Champod “Edmond Locard- Numerical standards and probable identifications” J forensic ident. 1995

La cronaca giudiziaria, televisiva e della carta stampata ci riempie di notizie poco piacevoli.

Omicidi, rapine e altrettanti efferati crimini fanno parte del nostro vivere quotidiano.

Siamo invasi da fiction, indagini piu’ o meno famose, casi giudiziari affidati a mani esperte e personaggi da “fumetto”. La nostra vita è diventata così “interessante”, tanto da essere noi stessi divenuti opinionisti del crimine.

Quel circo mediatico giudiziario trova un limite insormontabile in quanto la realtà è di certo diversa e diversificata rispetto a quei delitti che ad oggi non hanno portato alla luce i veri autori.

L’eccessivo interesse mediatico, per opinione del tutto personale, incide profondamente su quella imparzialità e serietà della giustizia, la cui verità processuale non sempre coincide con quella sete di “giustizialismo” di quel pubblico mediatico, spesso confuso e eccitato da quanto ci viene raccontato sotto forma di trame romanzesche.

Tradotto in termini pratici, abbiamo avuto modo di leggere di sentenze e di iniziative processuali che hanno avuto impulsi inusitati, che hanno favorito approfondimenti non sempre necessari e ben lontani da fare chiarezza, influenzando lo stesso giudizio (ndr).

Per chi non abbia mai vissuto una esperienza quale operatore del crimine o avuto modo di accedere in prime cure in un contesto dove si è appena consumato un delitto, non è semplice riferire sulle modalità di approccio e su cosa è possibile rinvenire.

Chi scrive, lo fa solo in quanto ha trattato personalmente la materia.

Senza tema di smentita, può sostenere che ogni crimine ha una sua soluzione in quanto frutto del comportamento umano e quindi fallace in sè.

Tuttavia, il delitto diventa “perfetto”, laddove si opera in un contesto dove intrusioni di soggetti estranei al delitto possano addirittura modificare in tutto o in parte lo stato dei luoghi. Così il medesimo repertamento non sempre risulta produttivo di effetti a conclusione dell’attività scientifica, perché inquinato. Ma occorre ricordare che sulla scena del crimine, secondo anche lo stesso principio di Edmond Locard “la persona o le persone sul luogo dove è stato commesso un delitto quasi sempre lasciano qualcosa o portano via qualcosa”[1]. Con questo si vuole evidenziare, senza ipocrisia o presunzione, che spesso la negligenza, la superficialità o la mancata osservanza di un corretto comportamento sulla scena del delitto minano l’applicazione di metodiche avanzate e note in criminalistica.

Un esempio su tutti, l’ evidenziazione di impronte papillari, dove spesso si accerta che quell’impronta, asportata in corso di repertamento, utile al confronto dattiloscopico, appartiene non già al presunto autore del fatto, ma ad un operatore di polizia o piuttosto ad un operatore sanitario o addirittura semplici curiosi che sono intervenuti incautamente sulla scena del delitto, magari prima dell’intervento degli organi inquirenti.

Mi soffermo sulle impronte digitali, dato per certo che la loro valenza scientifica non lascia dubbi sulla identità, rispetto invece agli accertamenti sul DNA assai più complessi, dove spesso le piccole quantità di sangue con cui si opera subiscono alterazioni importanti tali da ledere l’esatta identificazione. Giova ricordare altresì che i gemelli omozigoti, ad esempio, hanno la stessa catena del DNA, ma non i medesimi disegni papillari.

Ciò vuol dire che una impronta papillare utile al confronto dattiloscopico fornisce una identità incensurabile e incontrovertibile sotto ogni punto di vista, scientifico e giuridico, se non fosse per qualche eccesso di tutela richiesto in fase processuale da sentenze di merito e dalla stessa Corte di Cassazione. Questa ha fissato un numero di punti 16 o 17 di confronto, necessari per avere una identità certa, non condivisibile ovviamente.

Occorre dire che le impronte digitali e il loro utilizzo fanno discutere anche in contesti diversi dalle aule giudiziarie. Nel mondo del lavoro hanno dato vita ad un acceso dibattito sul loro utilizzo, anche per quanto attiene allo stesso semplice trattamento quale l’accesso dei lavoratori nel posto di lavoro. Tale argomento oggetto di discussione anche dal Garante della Privacy, è stato già trattato doviziosamente da Filodiritto (Avv. Antonio Zama) e non occorre aggiungere altro se non rileggerne il contenuto [2].

Ma cos’è l’impronta digitale e come è composta?

L’impronta digitale è composta da elementi organici (urea, acidi grassi etc) e elementi inorganici (ammoniaca, cloruri) e per il 98% di acqua.

Le superfici delle palme delle mani, delle piante dei piedi e delle dita sono costituite dalle cosiddette papille dermiche, così denominate da Marcello Malpighi [3], che nel loro insieme determinano le creste cutanee, ovverosia dei rilievi carnosi che contengono i corpuscoli tattili. Generalmente l’impronta si presenta come deposito di essudato a contatto con una superficie.

La stessa può formarsi per semplice asportazione da una superficie che rimane impressa al polpastrello, oppure per pressione esercitata su materiale plasmabile o per apposizione di sostanze con cui le dita si imbrattano, come vernici, inchiostro, sangue.

Il disegno digitale si forma già dal quarto mese di vita intrauterina, resta immodificato nel tempo sino al suo completo disfacimento dopo la morte.

I polpastrelli delle dita, così come la palma della mano e la pianta del piede sono costituiti da particolari disegni definiti in anatomia dermatoglifi.

Il dermatoglifo non è altro che la linea rilevata della cute che disegna varie forme sulle impronte digitali la cui assenza o presenza determinano l’appartenenza delle stesse ad uno o altro tipo di figura.

La classificazione italiana dell’impronta è data da quattro figure

· Figura adelta (assenza del delta o scarsamente definito)

. Figura monodelta (presenza di un solo delta posto alla base circa del polpastrello)

. Figura bidelta (presenza di due delta)

. Figura composta (impronta caratterizzata da due delta con sistemi di linee papillari ad ansa racchiusi uno nell’altro)

Il delta è così definito in quanto tale figura sui polpastrelli assume una figurazione che ricorda la lettera delta in maiuscolo dell’alfabeto greco, costituita appunto da un triangolo.

Dunque su questi spunti ciò che è rilevante nell’attività scientifica è la dimostrazione dell’identità dal latino “idem” lo stesso.

Filosofi, studiosi, matematici hanno trattato questo argomento assai interessante, pur tuttavia senza mai addivenire ad una certezza assoluta sul medesimo concetto.

Quindi l’accertamento dell’identità potrà rilevarsi e trovare il proprio appoggio sui concetti di identità assoluta e relativa, nonché relativa propria e impropria.

Veniamo ora a chiarire questi aspetti divisi per punto:

· Identità assoluta si ha quando un soggetto, un oggetto è uguale a se stesso nel medesimo istante; dunque dato per certo, che ogni soggetto e oggetto è uguale solo a se stesso in quel medesimo istante, tutto cio’ che non lo è in quell’istante, è da definirsi identità relativa .

· Identità relativa impropria rappresenta invece, qualsiasi impronta, proiezione o riproduzione di un oggetto che non puo’ essere fatta risalire con certezza provata attraverso l’esame dei caratteri generali e particolari al solo oggetto che le ha prodotte, ma a quantità imprecisabili di oggetti della medesima specie.

· Identità relativa propria rappresenta invece, in sede di confronto con certezza provata che il rilevamento dei caratteri generali e particolari sia da ricondurre a quel solo oggetto e non ad altri.

In ragione di tali concetti è da stabilire ora qual è il numero minimo di particolarità necessarie perché in una comparazione tra parti di impronta papillare rilevata sulla scena del crimine e quella di una persona sospettata si possa parlare di identità.

Il matematico Balthazard stabilì, alquanto semplicisticamente che sulla base di 16 -17 punti caratteristici, la probabilità di avere le stesse “minuzie” su persone diverse è talmente piccolo (1:17.179.869.184) che, anche valutando la popolazione mondiale è possibile ritenere certa la prova dell’identità dattiloscopia.

Lo stesso autore, ammise parimenti, che tale somma poteva essere ridotta a 11 o 12 se la popolazione interessata era ovviamente in numero minore rispetto a quella mondiale.

Pertanto secondo un criterio logico investigativo, un numero inferiore di punti di confronto, a quello indicato dal Balthazard , può essere sicuramente idoneo a ritenere accertata l’identità, rispetto ad un numero assai inferiore di persone [4].

Dunque su tale calcolo la giurisprudenza italiana, ancora oggi, ritiene che un’impronta papillare è giuridicamente utile alle comparazioni quanto possiede almeno 16 punti caratteristi, uguali per forma e posizione [5].

Allo stesso modo quando trattasi di impronte palmari “ai fini probatori, le impronte palmari, al pari di quelle digitali, sono dotate di una propria individualità, sono immutabili nel tempo e permettono rapporti di identità assolutamente significativi, con l’effetto che i rilievi di tali impronte hanno piena validità” [6].

Ma tale assunto non trova alcun fondamento laddove già nel 1973 l’I.A.I. (International Association for Identification) ha ritenuto che “Non esiste ai giorni nostri nessuna base legale per esigere un numero minimo di punti di riscontro comune a due dita per stabilire una identificazione positiva” [7].

Un’impronta caratterizzata da pochissimi punti caratteristici, va riconosciuta valida ai fini dei giudizi identificativi. Un numero di 7 o 8 minuzie ben chiare e distinguibili è sicuramente idonea per fornire un giudizio di identità.

In definitiva, a parere dello scrivente, gli accertamenti dattiloscopici la cui valenza scientifica è incensurabile, ancora oggi, pur potendo essere utilizzati dal giudice come fonte di prova, nel rispetto del libero convincimento anche laddove gli stessi non hanno carattere formale e sostanziale di perizia (art. 359 e 360 codice di procedura penale), trovano dei limiti in ragione di una non necessaria attribuzione in sede di confronto di 16-17 punti uguali per forma e posizione.

Risulta dissonante, anche rispetto a quel medesimo principio matematico cui la Corte di Cassazione fa riferimento, che in un contesto dove i confronti vanno effettuati su di un numero ridotto di persone, contestualizzato su di un luogo ben preciso, con eventuali sospettati o indagati di un crimine, pretendere la sussistenza di un così numero elevato di punti di confronto tra due impronte. Un’impronta caratterizzata da un numero insufficiente di minuzie, esprime ancora la possibilità di confronti validi per l’esclusione o piuttosto per il prosieguo delle indagini da parte della Polizia Giudiziaria.

Pertanto, nonostante la riforma della procedura penale e i numerosi libri scritti sulle tecniche criminalistiche e sul loro utilizzo (basta connettersi ad internet per conoscere ditte che producono e commercializzano strumenti tecnici utilizzati per le scienze forensi) resta un certo scetticismo in ordine alla genuinità delle tecniche di investigazione scientifica, dato per certo che gli ultimi processi che hanno avuto come protagonisti personaggi illustri del mondo della polizia scientifica, non sempre hanno portato a risultati incontrovertibili.

Sarà giunto il tempo di rivalutare il vecchio investigatore, pare da tempo accantonato?

Ritengo e sostengo che la polizia scientifica non può da sola portare alla soluzione dei delitti, in assenza di quella necessaria, silente attività di controllo, osservazione, informazione tipica dell’investigatore di un tempo, capace di addivenire al caposaldo di trame delittuose assai più complesse e articolate pur in assenza di “altisonanti” tecniche investigative.

La scienza senza coscienza, senza il contributo attivo dell’uomo capace, non è altro che una rappresentazione cinematografica dove solo in quel contesto il crimine resta imperfetto.



[1] 1 E. Locard, Traité de criminalistique ; les empreintes et les traces dans l’enquête criminelle. Desvigne, Lyon, 1931

[2] FILODIRITTO - contributi del 15.12.05 e 30.07.05 dell’Avv Antonio ZAMA

[3] Marcello Malpighi nato a Crevalcore (BO) nel 1628 e morto a Roma nel 1694, medico, anatomista e fisiologo

[4] Champod “Edmond Locard- Numerical standards and probable identifications” J forensic ident. 1995)

[5] Corte di cassazione Penale ex pluribus sez 2 del 14/11/1959 e sez 4 n.4254 del 02.02.1989, sez.5 nr.24341 del 23.5.2005

[6] Cassazione penale sez. 2 nr.11220 del 23.11.1985

[7] Champod “Edmond Locard- Numerical standards and probable identifications” J forensic ident. 1995