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L’efficacia probatoria dei moduli di constatazione amichevole d’incidente congiuntamente sottoscritti

Una tormentata questione dagli epiloghi inaccettabili

La sentenza 13 luglio 2010 n. 16376 della III Sezione civile della Corte di Cassazione riporta all’attenzione la questione dell’efficacia probatoria delle dichiarazioni contenute nei moduli di constatazione amichevole di incidenti stradali (C.A.I.) congiuntamente sottoscritti dai conducenti coinvolti nel sinistro.

Il verdetto della III Sezione, peraltro, non presenta in sé aspetti di particolare interesse in quanto si uniforma pedissequamente al principio di diritto statuito dalle Sezioni Unite della Corte con una sentenza del 2006 [[1]].

La “querelle” giurisprudenziale che il Consesso plenario fu chiamato a dirimere nasce e si perpetua intorno ad una norma dal significato in sé adamantino, che, tuttavia, si è svelata fonte di tormentosi dubbi e di rinnovati problemi sul piano dei riflessi applicativi.

La norma in questione è oggi contenuta nel secondo comma dell’art. 143 del D.Lgs. 209/2005 - Codice delle Assicurazioni Private (d’ora in avanti CAP), ma è presente nel panorama legislativo italiano sin dagli anni ’70 (naturalmente del secolo passato), introdottavi dall’art. 5 del D.L. 857/1976.

Questo il testo dell’art. 143 CAP (già art. 5 D.L.857/1976), rubricato “Denuncia di sinistro”:

<< 1. Nel caso di sinistro avvenuto tra veicoli a motore per i quali vi sia obbligo di assicurazione, i conducenti dei veicoli coinvolti o, se persone diverse, i rispettivi proprietari sono tenuti a denunciare il sinistro alla propria impresa di assicurazione, avvalendosi del modulo fornito dalla medesima, il cui modello è approvato dall’ISVAP. In caso di mancata presentazione della denuncia di sinistro si applica l’articolo 1915 del codice civile per l’omesso avviso di sinistro>> .

<< 2. Quando il modulo (CAI) sia firmato congiuntamente da entrambi i conducenti coinvolti nel sinistro si presume, salvo prova contraria da parte dell’assicuratore, che il sinistro si sia verificato nelle circostanze, con le modalità e con le conseguenze risultanti dal modulo stesso.>>.

A gettare nello scompiglio gli italici ermellini sembra essere stato il fatto che il secondo comma dell’articolato normativo, stabilendo che la presunzione di conformità al vero dei contenuti dei moduli è superabile solo dall’assicuratore (soggetto terzo rispetto ai firmatari del documento), offre il fianco ad una interpretazione secondo cui la prova contraria offerta dall’assicuratore giova solo a lui; con la conseguenza che il medesimo giudizio risarcitorio promosso contro l’assicuratore e l’assicurato (che ne è litisconsorte necessario per espressa disposizione di legge) può concludersi con pronunce contraddittorie, ossia con l’assoluzione dell’assicuratore che abbia provato la non verità dei fatti dichiarati nel modulo e con la condanna dell’assicurato, per il quale si deve continuare a presumere che l’incidente si è verificato nelle circostanze, secondo le modalità e con le conseguenze indicate nel documento.

E’ così accaduto che alcuni pronunciamenti hanno respinto la domanda risarcitoria proposta contro l’assicuratore ed accolto quella rivolta contro l’assicurato; altri verdetti hanno invece deciso omogeneamente sulla responsabilità dell’assicurato e dell’assicuratore.

Il dilemma su quella delle due letture della norma sia da ritenere corretta ha finito per investire le sezioni semplici della Corte di Cassazione, presso le quali si è tuttavia riproposto e perpetuato attraverso pronunce altalenanti, sino all’ordinanza con cui la III Sezione civile decise di rimettere la palla alle Sezioni Unite.

Nell’ordinanza, la Sezione remittente, rassegnando i principi di diritto individuati come rilevanti per la soluzione della questione, richiamò un pacifico orientamento della stessa Corte di legittimità secondo cui i moduli CAI a firma congiunta, nella misura in cui contengono dichiarazioni di fatti svantaggiosi ai sottoscrittori, costituiscono confessioni (stragiudiziali); dal che, la loro efficacia sul piano probatorio, la quale non può che essere quella che l’art. 2733 del codice civile assegna, per l’appunto, alle dichiarazioni confessorie.

Ciò significa che, in sede processuale, la dichiarazione contenuta nel modulo o forma piena prova contro colui che l’ha fatta (comma 2 art. 2733 c.c.), oppure, in presenza di litisconsorti necessari del confitente, la stessa deve essere liberamente apprezzata dal giudice (comma 3).

Nei giudizi in cui i moduli in questione servono a provare i fatti rilevanti per la decisione della causa (quelli promossi dal danneggiato direttamente contro l’assicuratore del responsabile civile al fine di ottenere dal primo il risarcimento dovuto dal secondo), il responsabile civile-assicurato è, per espressa previsione di legge, litisconsorte necessario dell’assicuratore; le dichiarazioni confessorie contenute nei moduli, per poter fare prova dei fatti dichiarati, dovrebbero essere liberamente apprezzate dal giudice (secondo il terzo comma dell’art. 2733 c.c.); e, a questo punto, l’esito dell’apprezzamento circa la verità o falsità delle dichiarazioni – secondo insegnamenti della stessa Corte – non potrebbe che essere uniforme per tutti i litisconsorti necessari (assicuratore ed assicurato) e, naturalmente, per la controparte di essi (il danneggiato che ha citato l’uno e l’altro).

Rileva la Sezione remittente che, tuttavia, in tema di efficacia probatoria dei moduli CAI congiuntamente sottoscritti, vi sono pronunce della stessa Corte regolatrice secondo cui «il modulo di constatazione amichevole di sinistro stradale... (quando è sottoscritto dai conducenti coinvolti e completo in ogni sua parte, compresa la data) ha valore probatorio di confessione esclusivamente nei riguardi del suo autore, mentre genera soltanto una presunzione “iuris tantum” nei confronti dell’assicuratore, come tale superabile con prova contraria con la possibilità, quindi, che la responsabilità dell’assicurato venga affermata in base alla sua confessione, mentre l’azione diretta nei confronti del l’assicuratore venga respinta ove egli fornisca la prova contraria».

Pertanto, nella fattispecie, l’applicazione del terzo comma dell’art. 2733 c.c., che imporrebbe la libera valutazione giudiziale delle dichiarazioni confessorie se rese soltanto da alcuni dei litisconsorti necessari, entra in un insanabile contrasto col disposto dell’altra norma di legge che, invece, stabilendo la presunzione legale di verità delle dichiarazioni in argomento, porta ad escludere decisamente che i fatti dichiarati nei moduli possano essere liberamente valutati dal giudice; il quale giudice, ove l’assicuratore non li smentisca provandone la non verità, dovrà ritenerli veri e decidere consequenzialmente sulla responsabilità di entrambi i convenuti in litisconsorzio oppure dovrà, nel caso l’assicuratore ne provi la non verità, ritenerli falsi, ma nei limiti in cui ciò può giovare al solo assicuratore e non all’assicurato, per il quale ultimo, invece, deve continuare a valere la presunzione legale di verità dei fatti a lui sfavorevoli dichiarati nel modulo.

Illustrate le problematiche retrostanti alla questione, la Sezione remittente prospetta alle SS.UU. le soluzioni che, per sommi capi, vado a compendiare:

1) considerare le dichiarazioni confessorie come facenti piena ed inconfutabile prova contro il confitente, ammettendo nel contempo l’assicuratore a provare il contrario ai meri fini della decisione della domanda risarcitoria rivolta contro di lui e, quindi, ammettendo la possibilità che il giudice accolga la domanda di risarcimento contro il danneggiante–assicurato e rigetti quella promossa contro il relativo assicuratore, se questi prova la non verità dei fatti dichiarati nel modulo;

2) attribuire alle dichiarazioni confessorie contenute nel modulo attitudine probatoria unica nel risultato per tutte le parti processuali, dando prevalenza al dato che i giudizi di responsabilità civile da circolazione di veicoli a motore hanno struttura litisconsortile necessaria dal lato passivo e che, quindi, in tali contesti processuali non può che trovare applicazione il terzo comma dell’art. 2733 c.c., che rende liberamente apprezzabili dal giudice le dichiarazioni confessorie rese soltanto da alcuni dei litisconsorti necessari.

L’approdo risolutore delle SS.UU. è andato nella direzione di un netto accoglimento della seconda soluzione, avendo il Consesso plenario sottolineato come la natura necessariamente litisconsortile dei giudizi considerati – che vedono quale parte obbligatoriamente convenuta, insieme all’assicuratore, il responsabile civile assicurato – imponga di considerare le dichiarazioni confessorie in questione prive dall’efficacia legale di piena prova che esse, in linea generale, produrrebbero secondo il comma 2 dell’art. 2733 c.c., dovendo, invece, essere liberamente valutabili dal giudice nei confronti di tutti i litisconsorti necessari (confitente incluso, se fra costoro); gli esiti di quella libera valutazione giudiziale, inoltre, debbono valere necessariamente per tutti i litisconsorti necessari, sì da portare ad una pronuncia uniforme o, comunque, non contraddittoria nei loro confronti.

Nel solco di questa statuizione ed in coerenza col principio di diritto espressovi, successive pronunce della Corte [[2]] hanno enunciato il corollario secondo cui, nel caso sia convenuto anche il conducente non proprietario del veicolo, le dichiarazioni che egli ha sottoscritto fanno piena prova contro di lui, non essendovi litisconsorzio necessario fra il conducente non assicurato e gli altri convenuti e, quindi, valendo per lui la regola stabilita dal comma 2 e non quella dettata dal comma 3 dell’art. 2733 c.c.

Giunti a questo punto, è impossibile non constatare che la sistemazione data dalle Sezioni Unite alla questione si traduce nella esautorazione “sic et simpliciter” di una disposizione di legge pienamente vigente, la quale si vede conculcare ogni possibilità di operare proprio nelle fattispecie in cui deve trovare la sua fisiologica applicazione.

Per l’arresto delle SS.UU., le risultanze dei moduli CAI a duplice firma non sono assistite da alcuna presunzione di verità al darsi delle situazioni in cui soprattutto debbono esserlo secondo l’art. 143 CAP, ossia quando il danneggiato agisce contro l’assicuratore del danneggiante ed il danneggiate medesimo.

I fatti dichiarati nel documento degradano a semplici elementi di prova circa il modo in cui l’incidente è accaduto e le relative conseguenze. Contrariamente a quanto dispone l’art. 143 CAP, tali fatti non entrano nel processo come un dato già acquisito: il giudizio intorno alla loro corrispondenza al vero deve formarsi nel processo, a seguito di una valutazione discrezionale che il giudice dovrà dare dei contenuti dell’atto tenendo conto di ogni ulteriore dato di fatto reputato idoneo a confermare o smentire la veridicità delle dichiarazioni incorporate nel formulario.

Lo strumento di prova legale si è dunque trasformato in un mezzo di prova semplice. Il che può esattamente esprimersi anche dicendo che il risultato dell’interpretazione è stato quello di attribuire alla disposizione interpretata un significato suicidario, dal momento che essa è destinata a restare inapplicata nelle fattispecie che costituiscono l’ambito fisiologico e centrale di relativa applicazione, ossia quelle in cui si pone come cruciale la prova dei fatti sui quali si fondano le pretese risarcitorie del danneggiato nei confronti dell’assicuratore del danneggiante e di costui.

Per il solo fatto di essere approdata ad un simile risultato, l’esegesi che la Corte regolatrice ha imposto con la sentenza del 2006 e che impone con le pronunce confermative di essa è fallace “in re ipsa”, tutto essendo consentito all’interprete fare tranne che dare alla legge un significato autoabrogativo.

L’interprete, tenendo a mente che “il Legislatore è razionale”, deve prediligere, fra più interpretazioni possibili di una norma, quella che consente di darle un contenuto previsionale che abbia un che di innovativo rispetto a quello di altre norme.

La disposizione di legge in questione, al contrario, è stata giudicata sprovvista di una propria cogenza, essendosi ritenuto che quanto essa contempla e regola ricade nella regolazione di un’altra norma, ossia dall’art. 2733 c.c.

Neppure il fondamentale canone ermeneutico della prevalenza della legge speciale su quella generale sembra essere stato rispettato, dal momento che non pare essersi dato peso alla circostanza che le dichiarazioni contenute dei moduli “de quibus”, essendo presunte veritiere sia contro colui che le ha rese che contro il relativo litisconsorte necessario (che non le ha rese) – l’assicuratore –, sono preordinate a fare piena prova proprio nella particolare situazione processuale in cui, per converso, le dichiarazioni confessorie non possono avere quella valenza secondo il terzo comma dell’art. 2733 c.c.

Questo chiaro dato di fatto, per l’interprete che muova dal presupposto che le dichiarazioni contenute nei moduli in questione sono confessioni stragiudiziali, non può non instradare l’interprete stesso verso la conclusione che il comma 2 dell’art. 143 CAP è norma specializzante rispetto al comma 3 dell’art. 2733 c.c., giacché, in deroga a quest’ultimo, è attribuita a dichiarazioni confessorie provenienti da uno solo dei litisconsorti necessari valenza pleniprobatoria contro tutti i litisconsorti.

Dunque, sulla base della premessa di fondo postulata dal Consesso plenario, ossia che le dichiarazioni contenute nei moduli CAI congiuntamente sottoscritti sono confessioni (stragiudiziali) in senso tecnico-giuridico, le conclusioni non possono essere quelle cui la Corte è pervenuta, vale a dire che le dichiarazioni presenti nei formulare considerati soggiacciono alla regola generale dettata dal terzo comma dell’art. 2733 c.c., e questo perché, all’evidenza, l’art. 143 CAP contempla una deroga proprio a quella regola.

Ma – come si sta per dire – è proprio l’assioma in base al quale le dichiarazioni in parola rilevano come confessioni a non avere alcun fondamento; dal che discende che il rapporto intercorrente fra il comma 2 dell’art. 143 CAP ed il comma 3 dell’art.2733 c.c. non si configura neppure in termini di specialità-generalità, bensì di reciproca indipendenza.

E’ indubbio, ad esempio, che abbiano natura confessoria le dichiarazioni contenute nei moduli CAI redatti e sottoscritti separatamente da ciascun conducente coinvolto nell’incidente, nella misura in cui – s’intende – quelle dichiarazioni riflettano fatti sfavorevoli al conducente che le ha rese e favorevoli al conducente e, se persona diversa, al proprietario dell’altro veicolo coinvolto nell’incidente e, di riflesso, all’assicuratore di costoro.

Ma le dichiarazioni incorporate nei moduli CAI a firma congiunta non sono confessioni, o meglio, la legge non le considera e non le tratta come tali.

A differenza dei moduli CAI sottoscritti singolarmente – atti la cui efficacia probatoria non è presa in specifica considerazione né dall’art. 143 CAP nè da altre norme ed è, quindi, quella che tali documenti hanno in base alle disposizioni generali del codice civile in tema di prove –, la valenza probante delle dichiarazioni riportate nei formulari CAI congiuntamente sottoscritti è oggetto di una disciplina “ad hoc”.

Ipotizzando che la presunzione legale poggi sulla stessa “ratio” che fonda la regola per cui le confessioni fanno piena prova contro chi le ha rese (“ratio” sintetizzabile nella massima di esperienza secondo cui “nessuno dichiara fatti a sé sfavorevoli se non sono veri”), la finalità perseguita dal comma 2 dell’art. 143 CAP è quella di introdurre una deroga al comma 3 dell’art. 2733 c.c., consentendo alle dichiarazioni espresse nei moduli a firma congiunta di fare piena prova contro il dichiarane nei casi in cui, al contrario, dovrebbero essere liberamente apprezzate dal giudice.

Sebbene – come più su sottolineato – quella finalità derogatoria determini che la previsione del comma 2 dell’art. 143 CAP, contrariamente a quanto reputa al Corte di Cassazione, prevale senz’altro su quella del comma 3 dell’art. 2733 c.c., resta tuttavia incomprensibile il perché l’art. 143 CAP abbia previsto quella eccezione per le sole confessioni contenute nei moduli congiuntamente firmati.

Difatti, le dichiarazioni contenute nei moduli a doppia firma hanno identica attitudine confessoria e pari potenzialità probatorie non solo di quelle eventualmente contenute nei moduli CAI che ciascun conducente firmi singolarmente, ma di qualunque confessione stragiudiziale sulle circostanze, modalità e conseguenze dell’incidente comunque resa dal conducente (o, se presente, dal proprietario – non conducente del veicolo), a prescindere dal fatto che sia o non sia contenuta nel contesto della denuncia del sinistro.

Cosa può avere motivato il discrimine operato, “in parte qua”, dal Legislatore fra le dichiarazioni rese dai conducenti nei moduli congiuntamente firmati e quelle, provenienti dagli stessi soggetto, eventualmente contenute in qualunque altro atto?

La risposta arriva quasi da sé, senza costringere l’ermeneuta a compiere particolari sforzi intellettivi: il comma 2 dell’art. 143 CAP non vuole costituire una deroga alla disposizione generale in tema di valenza probatoria delle confessioni dettata dal comma 3 dell’art. 2733 c.c.

La norma non introduce un’eccezione all’efficacia probante che le risultanze dei documenti da essa considerati già hanno o possono avere applicando le regole generali in tema di prova dei fatti giuridici, ma intende stabilire una regola a sé stante per ciò che concerne la valenza di quei particolari atti in sede processuale.

Il comma 2 dell’art. 143 CAP, in altri termini, si sovrappone e si sostituisce in tutto e per tutto ad ogni altra regola ipoteticamente applicabile alla fattispecie riguardata, poiché si pone esso stesso come una regola “sui generis” segnatamente pensata e calibrata per il raggiungimento di particolari obiettivi di interesse generale [[3]].

Alla base della presunzione legale istituita dal comma 2 dell’art. 143 CAP sta il chiaro intento legislativo di promuovere e, nel contempo, riconoscere una particolare modalità tipizzata di formulazione delle denunce di sinistro, modalità cui vengono preordinatamente ricondotti certi effetti tipici non solo processuali, ma anche sostanziali (vds. art. 148, co.1, ultimo periodo, CAP).

Per il comma 2 dell’art. 143 CAP (e, prima di esso, per l’art. 5 del D.L. D.L. 857/1976) non assume rilievo il fatto che uno o entrambi i sottoscrittori del modulo abbiano dichiarato fatti contrari ai loro interessi, ma la circostanza che i diretti protagonisti dell’incidente si siano dati reciprocamente atto, con la sottoscrizione di un documento unitario, che l’incidente si è verificato in un dato modo e con certe conseguenze.

Da un canto, tale reciproco (e contestuale) riconoscimento è ispirato da una meritoria volontà conciliativa che il Legislatore ha inteso assecondare e, in pari tempo, sancire rendendo incontestabili i fatti dichiarati nei moduli in questione; dall’altro, quel vicendevole riconoscimento garantisce un alto grado di attendibilità delle dichiarazioni stesse, attendibilità che fa apparire non arbitrario ed, anzi, alquanto ragionevole presumere che i fatti dichiarati nei documenti in questione rispondano a verità.

Invero, la comune sottoscrizione dell’atto, per un verso, riflette la concorde volontà dei firmatari di agevolare e velocizzare il più possibile la definizione delle questioni giuridiche correlate alle conseguenze del sinistro che li ha coinvolti, sì da evitare future contrapposizioni ed inopportuni sviluppi in sede contenziosa della vicenda per ciò che attiene alla dinamica dell’evento ed alla portata delle sue conseguenze. Per altro verso, la concorde ricostruzione dell’incidente e presa d’atto delle relative conseguenze da parte dei suoi diretti protagonisti fa assumere alla ricostruzione stessa una particolare valenza in termini di plausibilità, soprattutto considerando che la verifica delle circostanze in cui l’incidente è avvenuto e delle sue modalità di accadimento e conseguenze avviene, generalmente, nella flagranza del fatto e da parte di soggetti che pongono una particolare attenzione a che nel comune atto di denuncia del sinistro non siano riportati fatti non veritieri che potrebbero compromettere ovvero compromettere in maggior misura la posizione di ciascuno.

Il dispiegarsi della speciale forza probante conferita ai moduli in esame trova l’unico limite nella possibilità data (esclusivamente) all’assicuratore del presunto responsabile civile del sinistro di sconfiggere, fornendo la prova contraria, la presunzione di verità che circonda le risultanze del modulo.

Si tratta di un limite la cui “ratio” è comprensibile se si tiene presente che l’assicuratore di colui che dalle risultanze dei moduli appare essere il responsabile civile dell’incidente è esposto ad uno specifico rischio connesso proprio all’operare della presunzione legale di che trattasi, ossia quello dell’uso simulatorio e fraudolento del documento: se le risultanze del modulo non fossero sconfessabili dall’assicuratore, esse costituirebbero un’arma potentissima e pressoché invincibile per obbligare quel soggetto a sborsare indennizzi assicurativi a fronte di sinistri mai accaduti o, seppure accaduti, con conseguenze diverse o più limitate di quelle denunciate.

Conclusivamente, si può dire che, con l’art. 5 del D.L. 857/1976 ed, oggi, con l’art. 143 C.A.P., il Legislatore ha vincolato il giudice a ritenere che la dinamica e le conseguenze degli incidenti fra veicoli con obbligo di assicurazione R.C.A. siano quelle che risultano concordemente attestate dai conducenti che del sinistro sono stati i diretti protagonisti. Ciò il Legislatore ha fatto costruendo una presunzione legale di verità intorno alle risultanze dei moduli di denuncia di sinistro sottoscritti congiuntamente, presunzione vincibile solo dalla sola prova contraria eventualmente fornita dall’assicuratore di colui che, in base alle stesse risultanze, dovrebbe rispondere civilmente dei danni prodotti dal sinistro.

Nel fare ciò, peraltro, lo stesso Legislatore (che è razionale per definizione) ha tenuto pienamente conto del fatto che, per sua stessa volontà, i giudizi in cui i suddetti moduli sono destinati a spiegare la speciale forza probante loro conferita hanno struttura litisconsortile necessaria dal lato passivo. Ciò nondimeno, non considerando confessioni le dichiarazioni contenute in quei documenti, ha disposto che esse, nei processi in questione, facciano piena prova a favore e/o contro tutte le parti, compreso l’assicuratore litisconsorte necessario del responsabile civile ove non possa o non voglia provare il contrario.

Resta ora da capire se la presunzione di verità delle risultanze dei moduli, una volta sconfitta dall’assicuratore, debba continuare ad operare per le altre parti processuali.

La norma non puntualizza nulla a questo riguardo; eppure, leggendola, si ha quasi la percezione intuitiva di cosa accade una volta che l’assicuratore abbia sconfitto la presunzione legale: <<Quando il modulo sia firmato congiuntamente da entrambi i conducenti coinvolti nel sinistro si presume, salvo prova contraria da parte dell’assicuratore, che il sinistro si sia verificato nelle circostanze, con le modalità e con le conseguenze risultanti dal modulo stesso.>>.

Ciò che a lume di naso la norma sembra volerci dire è che, provato dall’assicuratore che il sinistro non si è verificato nelle circostanze, con le modalità e le conseguenze risultanti dal modulo, non v’è più ragione perché prevalga, a beneficio o contro chiunque, una realtà ormai svelatasi fittizia su quella effettuale: i fatti oggetto della presunzione si presumono veri....salvo prova contraria “tuot court”, ossia, ancorché ed a prescindere dal fatto che la non verità di essi sia stata acclarata dal giudice per iniziativa di uno solo dei soggetti processuali interessati a smentirli.

Che la norma possa essere ragionevolmente intesa in questo senso è, altresì, il portato della fondamentale considerazione che la presunzione legale che assiste le risultanze dei moduli considerati non poggia sulla natura confessoria di esse, seguendone che la loro valenza probatoria non possiede necessariamente i caratteri di incontrovertibilità propri delle confessioni (nei casi in cui, ovviamente, queste facciano piena prova contro la parte che le ha rese).

Si tratta pur sempre di una presunzione legale “iuris tanum”, per quanto “sui generis”, dato che fra i soggetti che potrebbero avere interesse a sconfiggerla, ad uno solo è dato farlo. Ma una volta che, per iniziativa di quel soggetto, il giudice abbia accertato che i fatti non sono andati come descritto nel documento, non appare conforme ad alcuna necessità di giustizia o anche soltanto pratica perché l’organo giudicante decida la causa considerando per alcuni ancora vero ciò che egli ha provatamente accertato essere falso per tutti.

Smentita la verità di ciò che i conducenti hanno falsamente o erroneamente dichiarato nel modulo, cade la stessa ragion pratica della presunzione legale e le modalità dell’accertamento giudiziale dei fatti sono regolate dalle comuni norme in tema di prova dei fatti giuridici.



[1] Cassazione civile SS.UU., sentenza 05.05.2006 n° 10311

[2] Cass. civ., 7 maggio 2007, n. 10304

[3] Dal fatto che le dichiarazioni in questione non vengono in rilievo come confessioni discende anche l’importante conseguenza che le stesse provano pienamente non solo i fatti contrari all’interesse di uno dei dichiaranti, ma anche quelli che attestino l’assenza di responsabilità in capo ad entrambi i firmatari (caso fortuito, forza maggiore, colpa del terzo ecc...).

La sentenza 13 luglio 2010 n. 16376 della III Sezione civile della Corte di Cassazione riporta all’attenzione la questione dell’efficacia probatoria delle dichiarazioni contenute nei moduli di constatazione amichevole di incidenti stradali (C.A.I.) congiuntamente sottoscritti dai conducenti coinvolti nel sinistro.

Il verdetto della III Sezione, peraltro, non presenta in sé aspetti di particolare interesse in quanto si uniforma pedissequamente al principio di diritto statuito dalle Sezioni Unite della Corte con una sentenza del 2006 [[1]].

La “querelle” giurisprudenziale che il Consesso plenario fu chiamato a dirimere nasce e si perpetua intorno ad una norma dal significato in sé adamantino, che, tuttavia, si è svelata fonte di tormentosi dubbi e di rinnovati problemi sul piano dei riflessi applicativi.

La norma in questione è oggi contenuta nel secondo comma dell’art. 143 del D.Lgs. 209/2005 - Codice delle Assicurazioni Private (d’ora in avanti CAP), ma è presente nel panorama legislativo italiano sin dagli anni ’70 (naturalmente del secolo passato), introdottavi dall’art. 5 del D.L. 857/1976.

Questo il testo dell’art. 143 CAP (già art. 5 D.L.857/1976), rubricato “Denuncia di sinistro”:

<< 1. Nel caso di sinistro avvenuto tra veicoli a motore per i quali vi sia obbligo di assicurazione, i conducenti dei veicoli coinvolti o, se persone diverse, i rispettivi proprietari sono tenuti a denunciare il sinistro alla propria impresa di assicurazione, avvalendosi del modulo fornito dalla medesima, il cui modello è approvato dall’ISVAP. In caso di mancata presentazione della denuncia di sinistro si applica l’articolo 1915 del codice civile per l’omesso avviso di sinistro>> .

<< 2. Quando il modulo (CAI) sia firmato congiuntamente da entrambi i conducenti coinvolti nel sinistro si presume, salvo prova contraria da parte dell’assicuratore, che il sinistro si sia verificato nelle circostanze, con le modalità e con le conseguenze risultanti dal modulo stesso.>>.

A gettare nello scompiglio gli italici ermellini sembra essere stato il fatto che il secondo comma dell’articolato normativo, stabilendo che la presunzione di conformità al vero dei contenuti dei moduli è superabile solo dall’assicuratore (soggetto terzo rispetto ai firmatari del documento), offre il fianco ad una interpretazione secondo cui la prova contraria offerta dall’assicuratore giova solo a lui; con la conseguenza che il medesimo giudizio risarcitorio promosso contro l’assicuratore e l’assicurato (che ne è litisconsorte necessario per espressa disposizione di legge) può concludersi con pronunce contraddittorie, ossia con l’assoluzione dell’assicuratore che abbia provato la non verità dei fatti dichiarati nel modulo e con la condanna dell’assicurato, per il quale si deve continuare a presumere che l’incidente si è verificato nelle circostanze, secondo le modalità e con le conseguenze indicate nel documento.

E’ così accaduto che alcuni pronunciamenti hanno respinto la domanda risarcitoria proposta contro l’assicuratore ed accolto quella rivolta contro l’assicurato; altri verdetti hanno invece deciso omogeneamente sulla responsabilità dell’assicurato e dell’assicuratore.

Il dilemma su quella delle due letture della norma sia da ritenere corretta ha finito per investire le sezioni semplici della Corte di Cassazione, presso le quali si è tuttavia riproposto e perpetuato attraverso pronunce altalenanti, sino all’ordinanza con cui la III Sezione civile decise di rimettere la palla alle Sezioni Unite.

Nell’ordinanza, la Sezione remittente, rassegnando i principi di diritto individuati come rilevanti per la soluzione della questione, richiamò un pacifico orientamento della stessa Corte di legittimità secondo cui i moduli CAI a firma congiunta, nella misura in cui contengono dichiarazioni di fatti svantaggiosi ai sottoscrittori, costituiscono confessioni (stragiudiziali); dal che, la loro efficacia sul piano probatorio, la quale non può che essere quella che l’art. 2733 del codice civile assegna, per l’appunto, alle dichiarazioni confessorie.

Ciò significa che, in sede processuale, la dichiarazione contenuta nel modulo o forma piena prova contro colui che l’ha fatta (comma 2 art. 2733 c.c.), oppure, in presenza di litisconsorti necessari del confitente, la stessa deve essere liberamente apprezzata dal giudice (comma 3).

Nei giudizi in cui i moduli in questione servono a provare i fatti rilevanti per la decisione della causa (quelli promossi dal danneggiato direttamente contro l’assicuratore del responsabile civile al fine di ottenere dal primo il risarcimento dovuto dal secondo), il responsabile civile-assicurato è, per espressa previsione di legge, litisconsorte necessario dell’assicuratore; le dichiarazioni confessorie contenute nei moduli, per poter fare prova dei fatti dichiarati, dovrebbero essere liberamente apprezzate dal giudice (secondo il terzo comma dell’art. 2733 c.c.); e, a questo punto, l’esito dell’apprezzamento circa la verità o falsità delle dichiarazioni – secondo insegnamenti della stessa Corte – non potrebbe che essere uniforme per tutti i litisconsorti necessari (assicuratore ed assicurato) e, naturalmente, per la controparte di essi (il danneggiato che ha citato l’uno e l’altro).

Rileva la Sezione remittente che, tuttavia, in tema di efficacia probatoria dei moduli CAI congiuntamente sottoscritti, vi sono pronunce della stessa Corte regolatrice secondo cui «il modulo di constatazione amichevole di sinistro stradale... (quando è sottoscritto dai conducenti coinvolti e completo in ogni sua parte, compresa la data) ha valore probatorio di confessione esclusivamente nei riguardi del suo autore, mentre genera soltanto una presunzione “iuris tantum” nei confronti dell’assicuratore, come tale superabile con prova contraria con la possibilità, quindi, che la responsabilità dell’assicurato venga affermata in base alla sua confessione, mentre l’azione diretta nei confronti del l’assicuratore venga respinta ove egli fornisca la prova contraria».

Pertanto, nella fattispecie, l’applicazione del terzo comma dell’art. 2733 c.c., che imporrebbe la libera valutazione giudiziale delle dichiarazioni confessorie se rese soltanto da alcuni dei litisconsorti necessari, entra in un insanabile contrasto col disposto dell’altra norma di legge che, invece, stabilendo la presunzione legale di verità delle dichiarazioni in argomento, porta ad escludere decisamente che i fatti dichiarati nei moduli possano essere liberamente valutati dal giudice; il quale giudice, ove l’assicuratore non li smentisca provandone la non verità, dovrà ritenerli veri e decidere consequenzialmente sulla responsabilità di entrambi i convenuti in litisconsorzio oppure dovrà, nel caso l’assicuratore ne provi la non verità, ritenerli falsi, ma nei limiti in cui ciò può giovare al solo assicuratore e non all’assicurato, per il quale ultimo, invece, deve continuare a valere la presunzione legale di verità dei fatti a lui sfavorevoli dichiarati nel modulo.

Illustrate le problematiche retrostanti alla questione, la Sezione remittente prospetta alle SS.UU. le soluzioni che, per sommi capi, vado a compendiare:

1) considerare le dichiarazioni confessorie come facenti piena ed inconfutabile prova contro il confitente, ammettendo nel contempo l’assicuratore a provare il contrario ai meri fini della decisione della domanda risarcitoria rivolta contro di lui e, quindi, ammettendo la possibilità che il giudice accolga la domanda di risarcimento contro il danneggiante–assicurato e rigetti quella promossa contro il relativo assicuratore, se questi prova la non verità dei fatti dichiarati nel modulo;

2) attribuire alle dichiarazioni confessorie contenute nel modulo attitudine probatoria unica nel risultato per tutte le parti processuali, dando prevalenza al dato che i giudizi di responsabilità civile da circolazione di veicoli a motore hanno struttura litisconsortile necessaria dal lato passivo e che, quindi, in tali contesti processuali non può che trovare applicazione il terzo comma dell’art. 2733 c.c., che rende liberamente apprezzabili dal giudice le dichiarazioni confessorie rese soltanto da alcuni dei litisconsorti necessari.

L’approdo risolutore delle SS.UU. è andato nella direzione di un netto accoglimento della seconda soluzione, avendo il Consesso plenario sottolineato come la natura necessariamente litisconsortile dei giudizi considerati – che vedono quale parte obbligatoriamente convenuta, insieme all’assicuratore, il responsabile civile assicurato – imponga di considerare le dichiarazioni confessorie in questione prive dall’efficacia legale di piena prova che esse, in linea generale, produrrebbero secondo il comma 2 dell’art. 2733 c.c., dovendo, invece, essere liberamente valutabili dal giudice nei confronti di tutti i litisconsorti necessari (confitente incluso, se fra costoro); gli esiti di quella libera valutazione giudiziale, inoltre, debbono valere necessariamente per tutti i litisconsorti necessari, sì da portare ad una pronuncia uniforme o, comunque, non contraddittoria nei loro confronti.

Nel solco di questa statuizione ed in coerenza col principio di diritto espressovi, successive pronunce della Corte [[2]] hanno enunciato il corollario secondo cui, nel caso sia convenuto anche il conducente non proprietario del veicolo, le dichiarazioni che egli ha sottoscritto fanno piena prova contro di lui, non essendovi litisconsorzio necessario fra il conducente non assicurato e gli altri convenuti e, quindi, valendo per lui la regola stabilita dal comma 2 e non quella dettata dal comma 3 dell’art. 2733 c.c.

Giunti a questo punto, è impossibile non constatare che la sistemazione data dalle Sezioni Unite alla questione si traduce nella esautorazione “sic et simpliciter” di una disposizione di legge pienamente vigente, la quale si vede conculcare ogni possibilità di operare proprio nelle fattispecie in cui deve trovare la sua fisiologica applicazione.

Per l’arresto delle SS.UU., le risultanze dei moduli CAI a duplice firma non sono assistite da alcuna presunzione di verità al darsi delle situazioni in cui soprattutto debbono esserlo secondo l’art. 143 CAP, ossia quando il danneggiato agisce contro l’assicuratore del danneggiante ed il danneggiate medesimo.

I fatti dichiarati nel documento degradano a semplici elementi di prova circa il modo in cui l’incidente è accaduto e le relative conseguenze. Contrariamente a quanto dispone l’art. 143 CAP, tali fatti non entrano nel processo come un dato già acquisito: il giudizio intorno alla loro corrispondenza al vero deve formarsi nel processo, a seguito di una valutazione discrezionale che il giudice dovrà dare dei contenuti dell’atto tenendo conto di ogni ulteriore dato di fatto reputato idoneo a confermare o smentire la veridicità delle dichiarazioni incorporate nel formulario.

Lo strumento di prova legale si è dunque trasformato in un mezzo di prova semplice. Il che può esattamente esprimersi anche dicendo che il risultato dell’interpretazione è stato quello di attribuire alla disposizione interpretata un significato suicidario, dal momento che essa è destinata a restare inapplicata nelle fattispecie che costituiscono l’ambito fisiologico e centrale di relativa applicazione, ossia quelle in cui si pone come cruciale la prova dei fatti sui quali si fondano le pretese risarcitorie del danneggiato nei confronti dell’assicuratore del danneggiante e di costui.

Per il solo fatto di essere approdata ad un simile risultato, l’esegesi che la Corte regolatrice ha imposto con la sentenza del 2006 e che impone con le pronunce confermative di essa è fallace “in re ipsa”, tutto essendo consentito all’interprete fare tranne che dare alla legge un significato autoabrogativo.

L’interprete, tenendo a mente che “il Legislatore è razionale”, deve prediligere, fra più interpretazioni possibili di una norma, quella che consente di darle un contenuto previsionale che abbia un che di innovativo rispetto a quello di altre norme.

La disposizione di legge in questione, al contrario, è stata giudicata sprovvista di una propria cogenza, essendosi ritenuto che quanto essa contempla e regola ricade nella regolazione di un’altra norma, ossia dall’art. 2733 c.c.

Neppure il fondamentale canone ermeneutico della prevalenza della legge speciale su quella generale sembra essere stato rispettato, dal momento che non pare essersi dato peso alla circostanza che le dichiarazioni contenute dei moduli “de quibus”, essendo presunte veritiere sia contro colui che le ha rese che contro il relativo litisconsorte necessario (che non le ha rese) – l’assicuratore –, sono preordinate a fare piena prova proprio nella particolare situazione processuale in cui, per converso, le dichiarazioni confessorie non possono avere quella valenza secondo il terzo comma dell’art. 2733 c.c.

Questo chiaro dato di fatto, per l’interprete che muova dal presupposto che le dichiarazioni contenute nei moduli in questione sono confessioni stragiudiziali, non può non instradare l’interprete stesso verso la conclusione che il comma 2 dell’art. 143 CAP è norma specializzante rispetto al comma 3 dell’art. 2733 c.c., giacché, in deroga a quest’ultimo, è attribuita a dichiarazioni confessorie provenienti da uno solo dei litisconsorti necessari valenza pleniprobatoria contro tutti i litisconsorti.

Dunque, sulla base della premessa di fondo postulata dal Consesso plenario, ossia che le dichiarazioni contenute nei moduli CAI congiuntamente sottoscritti sono confessioni (stragiudiziali) in senso tecnico-giuridico, le conclusioni non possono essere quelle cui la Corte è pervenuta, vale a dire che le dichiarazioni presenti nei formulare considerati soggiacciono alla regola generale dettata dal terzo comma dell’art. 2733 c.c., e questo perché, all’evidenza, l’art. 143 CAP contempla una deroga proprio a quella regola.

Ma – come si sta per dire – è proprio l’assioma in base al quale le dichiarazioni in parola rilevano come confessioni a non avere alcun fondamento; dal che discende che il rapporto intercorrente fra il comma 2 dell’art. 143 CAP ed il comma 3 dell’art.2733 c.c. non si configura neppure in termini di specialità-generalità, bensì di reciproca indipendenza.

E’ indubbio, ad esempio, che abbiano natura confessoria le dichiarazioni contenute nei moduli CAI redatti e sottoscritti separatamente da ciascun conducente coinvolto nell’incidente, nella misura in cui – s’intende – quelle dichiarazioni riflettano fatti sfavorevoli al conducente che le ha rese e favorevoli al conducente e, se persona diversa, al proprietario dell’altro veicolo coinvolto nell’incidente e, di riflesso, all’assicuratore di costoro.

Ma le dichiarazioni incorporate nei moduli CAI a firma congiunta non sono confessioni, o meglio, la legge non le considera e non le tratta come tali.

A differenza dei moduli CAI sottoscritti singolarmente – atti la cui efficacia probatoria non è presa in specifica considerazione né dall’art. 143 CAP nè da altre norme ed è, quindi, quella che tali documenti hanno in base alle disposizioni generali del codice civile in tema di prove –, la valenza probante delle dichiarazioni riportate nei formulari CAI congiuntamente sottoscritti è oggetto di una disciplina “ad hoc”.

Ipotizzando che la presunzione legale poggi sulla stessa “ratio” che fonda la regola per cui le confessioni fanno piena prova contro chi le ha rese (“ratio” sintetizzabile nella massima di esperienza secondo cui “nessuno dichiara fatti a sé sfavorevoli se non sono veri”), la finalità perseguita dal comma 2 dell’art. 143 CAP è quella di introdurre una deroga al comma 3 dell’art. 2733 c.c., consentendo alle dichiarazioni espresse nei moduli a firma congiunta di fare piena prova contro il dichiarane nei casi in cui, al contrario, dovrebbero essere liberamente apprezzate dal giudice.

Sebbene – come più su sottolineato – quella finalità derogatoria determini che la previsione del comma 2 dell’art. 143 CAP, contrariamente a quanto reputa al Corte di Cassazione, prevale senz’altro su quella del comma 3 dell’art. 2733 c.c., resta tuttavia incomprensibile il perché l’art. 143 CAP abbia previsto quella eccezione per le sole confessioni contenute nei moduli congiuntamente firmati.

Difatti, le dichiarazioni contenute nei moduli a doppia firma hanno identica attitudine confessoria e pari potenzialità probatorie non solo di quelle eventualmente contenute nei moduli CAI che ciascun conducente firmi singolarmente, ma di qualunque confessione stragiudiziale sulle circostanze, modalità e conseguenze dell’incidente comunque resa dal conducente (o, se presente, dal proprietario – non conducente del veicolo), a prescindere dal fatto che sia o non sia contenuta nel contesto della denuncia del sinistro.

Cosa può avere motivato il discrimine operato, “in parte qua”, dal Legislatore fra le dichiarazioni rese dai conducenti nei moduli congiuntamente firmati e quelle, provenienti dagli stessi soggetto, eventualmente contenute in qualunque altro atto?

La risposta arriva quasi da sé, senza costringere l’ermeneuta a compiere particolari sforzi intellettivi: il comma 2 dell’art. 143 CAP non vuole costituire una deroga alla disposizione generale in tema di valenza probatoria delle confessioni dettata dal comma 3 dell’art. 2733 c.c.

La norma non introduce un’eccezione all’efficacia probante che le risultanze dei documenti da essa considerati già hanno o possono avere applicando le regole generali in tema di prova dei fatti giuridici, ma intende stabilire una regola a sé stante per ciò che concerne la valenza di quei particolari atti in sede processuale.

Il comma 2 dell’art. 143 CAP, in altri termini, si sovrappone e si sostituisce in tutto e per tutto ad ogni altra regola ipoteticamente applicabile alla fattispecie riguardata, poiché si pone esso stesso come una regola “sui generis” segnatamente pensata e calibrata per il raggiungimento di particolari obiettivi di interesse generale [[3]].

Alla base della presunzione legale istituita dal comma 2 dell’art. 143 CAP sta il chiaro intento legislativo di promuovere e, nel contempo, riconoscere una particolare modalità tipizzata di formulazione delle denunce di sinistro, modalità cui vengono preordinatamente ricondotti certi effetti tipici non solo processuali, ma anche sostanziali (vds. art. 148, co.1, ultimo periodo, CAP).

Per il comma 2 dell’art. 143 CAP (e, prima di esso, per l’art. 5 del D.L. D.L. 857/1976) non assume rilievo il fatto che uno o entrambi i sottoscrittori del modulo abbiano dichiarato fatti contrari ai loro interessi, ma la circostanza che i diretti protagonisti dell’incidente si siano dati reciprocamente atto, con la sottoscrizione di un documento unitario, che l’incidente si è verificato in un dato modo e con certe conseguenze.

Da un canto, tale reciproco (e contestuale) riconoscimento è ispirato da una meritoria volontà conciliativa che il Legislatore ha inteso assecondare e, in pari tempo, sancire rendendo incontestabili i fatti dichiarati nei moduli in questione; dall’altro, quel vicendevole riconoscimento garantisce un alto grado di attendibilità delle dichiarazioni stesse, attendibilità che fa apparire non arbitrario ed, anzi, alquanto ragionevole presumere che i fatti dichiarati nei documenti in questione rispondano a verità.

Invero, la comune sottoscrizione dell’atto, per un verso, riflette la concorde volontà dei firmatari di agevolare e velocizzare il più possibile la definizione delle questioni giuridiche correlate alle conseguenze del sinistro che li ha coinvolti, sì da evitare future contrapposizioni ed inopportuni sviluppi in sede contenziosa della vicenda per ciò che attiene alla dinamica dell’evento ed alla portata delle sue conseguenze. Per altro verso, la concorde ricostruzione dell’incidente e presa d’atto delle relative conseguenze da parte dei suoi diretti protagonisti fa assumere alla ricostruzione stessa una particolare valenza in termini di plausibilità, soprattutto considerando che la verifica delle circostanze in cui l’incidente è avvenuto e delle sue modalità di accadimento e conseguenze avviene, generalmente, nella flagranza del fatto e da parte di soggetti che pongono una particolare attenzione a che nel comune atto di denuncia del sinistro non siano riportati fatti non veritieri che potrebbero compromettere ovvero compromettere in maggior misura la posizione di ciascuno.

Il dispiegarsi della speciale forza probante conferita ai moduli in esame trova l’unico limite nella possibilità data (esclusivamente) all’assicuratore del presunto responsabile civile del sinistro di sconfiggere, fornendo la prova contraria, la presunzione di verità che circonda le risultanze del modulo.

Si tratta di un limite la cui “ratio” è comprensibile se si tiene presente che l’assicuratore di colui che dalle risultanze dei moduli appare essere il responsabile civile dell’incidente è esposto ad uno specifico rischio connesso proprio all’operare della presunzione legale di che trattasi, ossia quello dell’uso simulatorio e fraudolento del documento: se le risultanze del modulo non fossero sconfessabili dall’assicuratore, esse costituirebbero un’arma potentissima e pressoché invincibile per obbligare quel soggetto a sborsare indennizzi assicurativi a fronte di sinistri mai accaduti o, seppure accaduti, con conseguenze diverse o più limitate di quelle denunciate.

Conclusivamente, si può dire che, con l’art. 5 del D.L. 857/1976 ed, oggi, con l’art. 143 C.A.P., il Legislatore ha vincolato il giudice a ritenere che la dinamica e le conseguenze degli incidenti fra veicoli con obbligo di assicurazione R.C.A. siano quelle che risultano concordemente attestate dai conducenti che del sinistro sono stati i diretti protagonisti. Ciò il Legislatore ha fatto costruendo una presunzione legale di verità intorno alle risultanze dei moduli di denuncia di sinistro sottoscritti congiuntamente, presunzione vincibile solo dalla sola prova contraria eventualmente fornita dall’assicuratore di colui che, in base alle stesse risultanze, dovrebbe rispondere civilmente dei danni prodotti dal sinistro.

Nel fare ciò, peraltro, lo stesso Legislatore (che è razionale per definizione) ha tenuto pienamente conto del fatto che, per sua stessa volontà, i giudizi in cui i suddetti moduli sono destinati a spiegare la speciale forza probante loro conferita hanno struttura litisconsortile necessaria dal lato passivo. Ciò nondimeno, non considerando confessioni le dichiarazioni contenute in quei documenti, ha disposto che esse, nei processi in questione, facciano piena prova a favore e/o contro tutte le parti, compreso l’assicuratore litisconsorte necessario del responsabile civile ove non possa o non voglia provare il contrario.

Resta ora da capire se la presunzione di verità delle risultanze dei moduli, una volta sconfitta dall’assicuratore, debba continuare ad operare per le altre parti processuali.

La norma non puntualizza nulla a questo riguardo; eppure, leggendola, si ha quasi la percezione intuitiva di cosa accade una volta che l’assicuratore abbia sconfitto la presunzione legale: <<Quando il modulo sia firmato congiuntamente da entrambi i conducenti coinvolti nel sinistro si presume, salvo prova contraria da parte dell’assicuratore, che il sinistro si sia verificato nelle circostanze, con le modalità e con le conseguenze risultanti dal modulo stesso.>>.

Ciò che a lume di naso la norma sembra volerci dire è che, provato dall’assicuratore che il sinistro non si è verificato nelle circostanze, con le modalità e le conseguenze risultanti dal modulo, non v’è più ragione perché prevalga, a beneficio o contro chiunque, una realtà ormai svelatasi fittizia su quella effettuale: i fatti oggetto della presunzione si presumono veri....salvo prova contraria “tuot court”, ossia, ancorché ed a prescindere dal fatto che la non verità di essi sia stata acclarata dal giudice per iniziativa di uno solo dei soggetti processuali interessati a smentirli.

Che la norma possa essere ragionevolmente intesa in questo senso è, altresì, il portato della fondamentale considerazione che la presunzione legale che assiste le risultanze dei moduli considerati non poggia sulla natura confessoria di esse, seguendone che la loro valenza probatoria non possiede necessariamente i caratteri di incontrovertibilità propri delle confessioni (nei casi in cui, ovviamente, queste facciano piena prova contro la parte che le ha rese).

Si tratta pur sempre di una presunzione legale “iuris tanum”, per quanto “sui generis”, dato che fra i soggetti che potrebbero avere interesse a sconfiggerla, ad uno solo è dato farlo. Ma una volta che, per iniziativa di quel soggetto, il giudice abbia accertato che i fatti non sono andati come descritto nel documento, non appare conforme ad alcuna necessità di giustizia o anche soltanto pratica perché l’organo giudicante decida la causa considerando per alcuni ancora vero ciò che egli ha provatamente accertato essere falso per tutti.

Smentita la verità di ciò che i conducenti hanno falsamente o erroneamente dichiarato nel modulo, cade la stessa ragion pratica della presunzione legale e le modalità dell’accertamento giudiziale dei fatti sono regolate dalle comuni norme in tema di prova dei fatti giuridici.



[1] Cassazione civile SS.UU., sentenza 05.05.2006 n° 10311

[2] Cass. civ., 7 maggio 2007, n. 10304

[3] Dal fatto che le dichiarazioni in questione non vengono in rilievo come confessioni discende anche l’importante conseguenza che le stesse provano pienamente non solo i fatti contrari all’interesse di uno dei dichiaranti, ma anche quelli che attestino l’assenza di responsabilità in capo ad entrambi i firmatari (caso fortuito, forza maggiore, colpa del terzo ecc...).