L’impervio percorso del whistleblowing in italia tra resistenze culturali e difficoltà applicative
*Contributo sottoposto con esito positivo a referaggio secondo le regole della rivista
1. Premessa
Come tutte le disposizioni che contemplano sistemi di segnalazione di illeciti, l’introduzione della disciplina del whistleblowing nel settore pubblico e privato è stata accolta nel nostro ordinamento con preoccupazione e diffidenza. Quello della segnalazione, in qualsiasi contesto normativo si collochi, è infatti un problema innanzitutto di natura culturale: è convinzione diffusa che “segnalare” equivalga a “spiare”, con tutto ciò che questo accostamento comporta, specialmente sotto il profilo psicologico. Invero, la segnalazione interna di illeciti generalmente riguarda fatti che altri intendono tenere segreti, per cui espone ad un rischio personale e professionale il segnalante, che a tale rischio si espone per perseguire finalità di trasparenza e legalità. Con ciò si intende affermare che il whistleblowing può attecchire in un sistema solo se in quel sistema si è già fortemente affermata la cultura dell’etica.
In Europa, il percorso del whistleblowing (termine del quale, peraltro, è impossibile individuare un sinonimo) è stato reso ancor più difficile dall’assenza di una normativa omogenea; solo nel 2019 il legislatore comunitario ha emanato la direttiva (UE) 2019/1937, con la quale impone agli Stati membri l’adozione di una normativa conforme in materia di protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione.
Nelle more del recepimento della citata direttiva, avviato con la recente pubblicazione della legge di delegazione europea 2020, varrà ricordare che la legislazione vigente contempla già l’obbligo di adozione di procedure di whistleblowing, che la l. 179/2017 ha introdotto anche nel settore privato e modificato in quello pubblico, definendo modalità di attuazione totalmente differenti per ampiezza di ambito applicativo e delimitazione del perimetro dei destinatari.
L’applicazione delle disposizioni di cui al d.lgs. 165/2001 e al d.lgs. 231/2001, nell’ambito dei quali è stato rispettivamente introdotto l’obbligo de quo per il settore pubblico e per quello privato, comporta rilevanti conseguenze di tipo organizzativo, connesse alla difficoltà di implementare adeguati sistemi di gestione delle segnalazioni e, prima ancora, all’assenza di consapevolezza sull’argomento nei soggetti destinatari delle prescrizioni in oggetto.
In ambito professionale, l’applicazione del whistleblowing è foriera di problematiche di sicuro interesse per i professionisti: dall’implementazione di adeguati canali di segnalazione alla tutela della riservatezza, fino ai delicati compiti degli organi di controllo individuati quali destinatari delle segnalazioni.
Tali aspetti sono indagati nel documento “La disciplina del whistleblowing: indicazioni e spunti operativi per i professionisti”, recentemente pubblicato dal Consiglio e dalla Fondazione nazionale dei Commercialisti.
Lo studio, che si avvale del prezioso contributo offerto dall’Associazione Bancaria Italiana, dall’Associazione degli Organismi di Vigilanza 231 e dall’Associazione Italiana Trasparenza e Anticorruzione, affronta la spinosa questione del whistleblowing alla vigilia del recepimento della direttiva 2019/1937 sulla protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto all’interno dell’Unione. Ripercorrendo l’evoluzione della normativa internazionale, nonché la sua integrazione con altre normative di settore – bancaria, finanziaria, assicurativa, antiriciclaggio – il documento esamina in particolare gli aspetti della disciplina che impattano sulle funzioni degli organi di controllo, di precipuo interesse per i professionisti che operano nel settore pubblico e in quello privato.
Il documento sottolinea inoltre, sotto il profilo aziendalistico, l’importanza dell’integrazione del whistleblowing nel sistema complessivo delle procedure eventualmente già esistenti al fine di non incorrere in duplicazioni o sovrapposizioni, in un’ottica di vera e propria compliance integrata.
2. Cenni sulla normativa internazionale e nazionale
Il primo riferimento di livello comunitario al whistleblowing è da rinvenire nella Convenzione Civile sulla Corruzione del Consiglio d’Europa del 4 novembre 1999[1], nell’ambito della quale veniva stabilita la necessità di prevedere una tutela contro “qualsiasi sanzione ingiustificata nei confronti di dipendenti i quali, in buona fede e sulla base di ragionevoli sospetti, denunciano fatti di corruzione alle persone o autorità responsabili”.
Nell’ottobre 2003, con la Convenzione ONU contro la corruzione[2] venne introdotta la possibilità di prevedere, nell’ordinamento di ciascuno Stato, adeguate misure di tutela per coloro i quali segnalino alle autorità competenti eventi concernenti i reati contemplati all’interno della Convenzione stessa. Tra i presupposti della segnalazione, la Convenzione individuava la buona fede e l’esistenza di “ragionevoli sospetti”, ovvero i pilastri della struttura normativa e regolamentare del whistleblowing.
I menzionati riferimenti internazionali hanno fornito importanti indicazioni, ferma restando l’autonomia di ciascuno Stato nel declinare la propria disciplina nazionale, da cui è derivato un quadro abbastanza frammentato ed eterogeneo tra i vari paesi.
Al perseguimento dei citati obiettivi di armonizzazione a livello comunitario è ispirata la direttiva 2019/1937, riguardante "la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione”, che rafforza e uniforma le misure di protezione, stabilendo l’obbligo di creare canali di segnalazione interni per soggetti giuridici privati con oltre 50 dipendenti, tutti i soggetti del settore pubblico (compresi soggetti di proprietà o sotto il controllo di tali soggetti) o comuni con più di 10.000 abitanti. La direttiva dovrà essere recepita entro il 17 dicembre 2021, tranne che per il settore privato e per le imprese che impiegano meno di 250 lavoratori, nel cui caso il termine in questione è esteso al 17 dicembre 2023.
Con la l. 22 aprile 2021, n. 53[3] è stato avviato l’iter di recepimento della citata direttiva a livello nazionale.
In particolare, l’art. 23 della legge di delegazione europea stabilisce i seguenti principi e criteri direttivi specifici che il Governo dovrà osservare l’attuazione della direttiva (UE) 2019/1937:
- modificare, in conformità alla disciplina della direttiva, la normativa vigente in materia di tutela degli autori di segnalazioni delle violazioni di cui all’art. 2 della citata direttiva di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un contesto lavorativo pubblico o privato e dei soggetti indicati dall’art. 4, par. 4, della stessa direttiva;
- curare il coordinamento con le disposizioni vigenti, assicurando un alto grado di protezione e tutela dei soggetti di cui alla lettera a), operando le necessarie abrogazioni e adottando le opportune disposizioni transitorie;
- esercitare l’opzione di cui all’art. 25, par. 1, della direttiva, che consente l'introduzione o il mantenimento delle disposizioni più favorevoli ai diritti delle persone segnalanti e di quelle indicate dalla direttiva, al fine di assicurare comunque il massimo livello di protezione e tutela dei medesimi soggetti.
L’attuazione della direttiva implicherà, pertanto, una modifica dell’assetto normativo attualmente vigente.
Nel nostro ordinamento, lo sviluppo di una vera e propria normativa relativa al whistleblowing è avvenuto inizialmente nel settore pubblico con la l. 190/2012 (c.d. legge anticorruzione), che ha modificato il d.lgs. 165/2001 (recante “norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”) introducendo l’art. 54-bis, rubricato “Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”.
Ma è solo con l’avvento della l. 179/2017[4] che il tema della tutela da assicurare ai soggetti che segnalano le violazioni di cui siano venuti a conoscenza – anche nell’ambito di un rapporto di lavoro privato – si è imposto all’attenzione degli operatori.
Con riferimento al settore pubblico, tale norma ha ampliato l’ambito soggettivo di applicazione del whistleblowing, che oggi ricomprende non solo il personale appartenente alle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2 del d.lgs. 165/2001, ma anche gli enti che impiegano personale in regime di diritto pubblico di cui all’art. 3 del medesimo decreto, nonché gli enti e le società private in controllo pubblico ai sensi dell’art. 2359 c.c.
Altra novità di rilievo introdotta dalla l. 179/2017 riguarda l’estensione della disciplina del whistleblowing e della relativa tutela anche ai lavoratori e collaboratori delle imprese fornitrici di beni e servizi che realizzano opere a favore della pubblica amministrazione.
Restano fuori dall’ampliamento del perimetro applicativo operato dal nuovo art. 54-bis del d.lgs. 165/2001 solo gli enti di diritto privato a partecipazione pubblica non di controllo, peraltro esclusi anche dall’applicazione della normativa sulla trasparenza (d.lgs. 33/2013) stabilita dal d.lgs. 175/2016.
Le segnalazioni di cui all’ art. 54-bis del d.lgs. 165/2001 vanno indirizzate al Responsabile per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT), ovvero all’ANAC nel caso in cui il fatto segnalato riguardi direttamente quest’ultimo. Di conseguenza, al contrario di quanto avveniva in base alla previgente versione dell’articolo, la nuova formulazione della norma esclude in maniera esplicita la trasmissione della segnalazione al superiore gerarchico o altri soggetti diversi dal RPCT, al fine di evitare eventuali situazioni di soggezione o timore che potrebbero pregiudicare la volontà da parte del segnalante di dare inizio alla procedura di whistleblowing.
3. L’attuazione sui generis del whistleblowing nel settore privato
L’applicazione del whistleblowing nel settore privato è avvenuta attraverso una modifica della disciplina della responsabilità amministrativa degli enti ai sensi del d.lgs. 231/2001, al fine di introdurre nei modelli di organizzazione, gestione e controllo da esso normati l’obbligo di previsione di uno o più canali che consentano di veicolare segnalazioni circostanziate di condotte illecite (rilevanti ai sensi del decreto) o di violazioni del modello dell’ente, di cui i segnalanti – soggetti in posizione apicale o subordinata – siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte. I canali implementati dall’ente devono essere tali da garantire la riservatezza dell’identità del segnalante nelle attività di gestione della segnalazione.
Deve osservarsi che, anche prima di tale intervento normativo, l’introduzione di procedure di whistleblowing nei modelli 231 era fortemente caldeggiata nell’ambito delle linee guida Confindustria, ove a tale riguardo si legge: “Infine, si possono anche prevedere, accanto alle sanzioni disciplinari, meccanismi premiali riservati a quanti coopereranno al fine dell’efficace attuazione del modello, per esempio denunciando comportamenti individuali devianti (es. attraverso la regolazione di sistemi di whistleblowing). Spesso, infatti, quando si intende promuovere il rispetto delle regole, la prospettazione dei vantaggi derivanti dalla loro osservanza può risultare più efficace della minaccia di conseguenze negative per la loro violazione”.
Nondimeno, una simile scelta legislativa finisce per limitare l’applicazione della norma in questione solo agli enti dotati di un modello 231, escludendo sostanzialmente tutti gli altri enti del settore privato, nei confronti dei quali – almeno ad oggi – la disciplina del whistleblowing non è stata attuata.
In dettaglio, l’art. 2 della l. 179/2017 attraverso una modifica all’art. 6 del d.lgs. 231/2001 e, in particolare, tramite l’aggiunta del comma 2-bis, rende obbligatoria la previsione nei modelli 231:
- di uno o più canali che consentano ai soggetti indicati nell’art. 5, co. 1, lett. a) e b), di presentare, a tutela dell’integrità dell’ente, segnalazioni circostanziate di condotte illecite, rilevanti ai sensi del medesimo d.lgs. 231/2001 e fondate su elementi di fatto precisi e concordanti, o di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell'ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte. Tali canali devono garantire la riservatezza dell'identità del segnalante nelle attività di gestione della segnalazione;
- di almeno un canale alternativo di segnalazione idoneo a garantire, con modalità informatiche, la riservatezza dell’identità del segnalante;
- del divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi collegati, direttamente o indirettamente, alla segnalazione;
- di sanzioni disciplinari nei confronti di chi viola le misure di tutela del segnalante, nonché di chi effettua con dolo o colpa grave segnalazioni che si rivelano infondate.
Di fatto, dunque, l’individuazione di una procedura di whistleblowing assurge a requisito di idoneità del modello: ne discende che l’assenza dei canali all’uopo previsti, ovvero la loro non conformità rispetto alle caratteristiche richieste ex lege, potrebbe determinare l’inidoneità del modello in sede di vaglio giudiziale del medesimo.
Con riferimento al presupposto soggettivo, l’obbligo di segnalazione incombe sui soggetti di cui all’art. 5, co. 1, lett. a) e b), del d.lgs. 231/2001, vale a dire sui cd. apicali (persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso) e sui cd. subordinati (persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti apicali). Si tratta evidentemente di un novero di soggetti che non coincide appieno con il personale della società, individuandosi in tale circostanza il secondo elemento di “anomalia” nell’attuazione della disciplina del whistleblowing nel comparto privato[5]. Sul punto, è lecito chiedersi se l’ente possa ampliare autonomamente questo ambito soggettivo, con l’obiettivo di incrementare il numero delle segnalazioni e anche di migliorare la tutela per l’ente a fini di maggiore garanzia della liceità del comportamento di tutti i soggetti appartenenti all’ente.
Quanto al requisito oggettivo, sembra evidente che le condotte illecite oggetto di segnalazione “circostanziata” siano esclusivamente quelle rilevanti ai sensi del d.lgs. 231/2001. È altrettanto evidente che la valutazione inerente all’ammissibilità della segnalazione è rimessa all’ente, non potendosi richiedere al segnalante una competenza specifica sulla fattispecie illecita oggetto di segnalazione.
Il legislatore specifica, inoltre, che le segnalazioni devono essere fondate su elementi di fatto “precisi e concordanti”, con ciò verosimilmente volendo escludere tutte quelle segnalazioni non suffragate da una serie di elementi che consentano di effettuare il dovuto approfondimento successivo. Ferma restando la possibilità di segnalare fatti che, dal punto di vista del segnalante, siano precisi e concordanti, l’ente potrà senz’altro archiviare la segnalazione non supportata dai necessari elementi, senza che si configuri alcuna responsabilità in capo al soggetto che ha deciso di archiviare.
Sempre sotto il profilo oggettivo, la norma prevede poi la segnalazione di fatti che riguardino violazioni del modello adottato dall’ente. Questa indicazione appare in qualche modo comprensiva di quella precedente, dal momento che un fatto che integri un reato previsto dal d.lgs. 231/2001 molto probabilmente configura anche una violazione del modello organizzativo: in caso contrario, ci troveremmo in presenza di un modello non idoneo, in quanto quella determinata fattispecie di reato non è stata adeguatamente “mappata”. Inoltre, la segnalazione di violazioni del modello appare più semplice da effettuare per il segnalante, al quale sarà sufficiente verificare se il modello prevede una determinata regola per capire se questa nel concreto sia stata violata, senza necessariamente dovere attingere a conoscenze di diritto penale. È evidente che, in caso di estensione del novero soggettivo, occorrerebbe consentire a tutti i soggetti coinvolti la possibilità di conoscere il modello, diffondendolo nei modi opportuni.
L’ultima parte della lett. a) del comma 2-bis dispone che i canali individuati per il whistleblowing debbano garantire la riservatezza dell’identità del segnalante nelle attività di gestione della segnalazione. La riservatezza del segnalante è un requisito essenziale dei canali di segnalazione e non va confusa con l’anonimato: è evidente che non può esserci tutela della riservatezza se c’è l’anonimato, in quanto la prima può essere garantita solo se il segnalante ha reso note le proprie generalità. Ciò non vuol dire che le segnalazioni anonime siano vietate, dal momento che la norma nulla dispone in tal senso e quindi si ritiene che gli enti siano liberi di decidere se accettare tali segnalazioni, sempre che – è evidente – le stesse siano fondate su elementi precisi e concordanti.
Si è osservato che senza anonimato viene meno uno dei pilastri su cui il whistleblowing si fonda: anonimato e incentivazione (anche economica). Del problema dell’incentivazione economica vi è traccia nei lavori preparatori della legge[6], da cui si apprende che era stato proposto di creare un fondo alimentato dalle sanzioni applicate ai soggetti che hanno posto in essere comportamenti ritorsivi per risarcire i danni subiti dal soggetto segnalante (spese legali, ma anche legate alla qualità della vita, ad es. spese per assistenza di tipo psicologico resa necessaria dalle difficoltà della convivenza in un ambiente di lavoro ostile). In altri ordinamenti addirittura sono previsti incentivi economici legati al beneficio, anzi più correttamente al danno che, attraverso la segnalazione, viene evitato dall’ente[7]. Pur senza entrare nel merito delle scelte legislative, è evidente che l’assenza di anonimato, alla quale il sistema vigente ricollega le tutele successive alla segnalazione (divieto di licenziamento e di atti ritorsivi), costituisce un fattore deterrente rispetto alla crescita delle segnalazioni interne.
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