x

x

Lo sport tradizionale è roba da vecchi

Sport tradizionale
Sport tradizionale

I recenti dati pubblicati dal Corriere della Sera, relativi a uno studio McKinsey/Nielsen, tracciano l’inesorabile crisi dello sport globale, incapace di affascinare gli appassionati più giovani: ciò, inevitabilmente, ha provocato un fisiologico invecchiamento della fanbase. A dire il vero, dal report emerge con chiarezza non tanto la perdita di interesse dei più giovani verso lo sport tout court, quanto piuttosto il disinteresse verso la sua fruizione.

Se la popolazione over 35, nel 90% dei casi esaminati, segue lo sport ancora attraverso il classico apparecchio televisivo, via cavo o antenna, la percentuale si abbassa drasticamente nella fascia di età immediatamente precedente, dove circa il 35% fruisce delle manifestazioni sportive attraverso web-tv, pc, smartphone e tablet. Un dato destinato a crescere a dismisura, considerando la rapida diffusione delle nuove piattaforme video che trasmettono in streaming anche lo sport live, come DAZN e da ultimo addirittura il colosso di Jeff Bezos: Amazon.

 

SPORTIFY

Ma a fare ancora più specie è forse il dato mancante nella ricerca, perché di fatto inesistente. Certo non è ancora possibile, per via di una ridistribuzione dei diritti televisivi ancorata per la maggior parte a emittenti TV tradizionali, ma più della metà degli stessi millennials vorrebbe vedere le partite direttamente sui social. Un desiderio che risponde a alle nuove esigenze di socialità e condivisione presenti ormai nella nostra società. Non a caso, è ormai diventato quasi un requisito essenziale il cosiddetto second screen, un dispositivo connesso con i social, per commentare in tempo reale con la community azioni, episodi, spunti di ogni tipo tratti dall’evento sportivo.

E così, quasi come conseguenza naturale, emerge che ben il 60% degli intervistati ammette di apprendere i risultati delle partite direttamente dai social. L’interesse verso le manifestazioni sportive cala drasticamente se si prendono in considerazione le ragioni che lo rendevano il caposaldo della nostra tradizione: il tifo. Oltre la metà dei millennials ammette di seguirlo solo per socialità, per avere gli argomenti di interazione con i propri coetanei, seguire i grandi match, e non essere tagliati così fuori da trend topic inevitabili.

O magari semplicemente per divertirsi in una dinamica di sport-entertainement molto vicina alla via yankee di intendere lo sport. E infatti proprio gli Stati Uniti, culturalmente più attenti a intercettare le crepe del cambiamento e adeguarsi, reggono bene il colpo di fronte al disinteresse dei millennials. Se in Europa solo il 27% si definisce fan assiduo di sport, in America la percentuale cresce significativamente arrivando al 38%.

 

IL PARADOSSO DEI VIDEOGIOCHI

Il vero problema è che lo sport tradizionale non ha potuto, o voluto, assecondare i cambiamenti sociali della popolazione e così ora, in un mondo che viaggia a velocità siderali attraverso i sistemi di comunicazione più evoluti, la fruizione di una partita di 90 minuti viene vissuta come un supplizio nel quale il tempo, unica nostra vera risorsa, si perde più che investirlo. E al calcio tutto sommato non va nemmeno male, la durata della partita, al netto di fasi a eliminazione diretta, è predeterminata; altri sport, è l’esempio del tennis, vivono il ‘dramma’ di una lunghezza indefinita: un peccato che raramente viene perdonato dagli spettatori occasionali di queste discipline.

L’atro peccato originale è che la fruizione è un momento statico, di pura osservazione in un mondo che favorisce sempre più l’interazione. Ecco che allora i ragazzi, abituati a decidere loro stessi le partite spostando i cursori di simulatori di gioco quali FIFA o PES, si trovano di fronte a uno spettacolo che appare decisamente noioso. Proprio sul tempo è stato quanto mai illuminante il CEO del Liverpool Peter Moore, quando ha dichiarato al País di ritenere il suo avversario più temuto non il City di Pep Guardiola, ma il videogioco Fortnite:

«Entrambi competiamo per il tempo dei giovani, per la loro attenzione. I riti di passaggio di molte generazioni erano legati al giorno in cui tuo padre ti portava alla partita. Andavi al campo, tuo padre ti faceva conoscere la squadra. Non succede più. Non perché i giovani non siano interessati al calcio, ma perché l’offerta è più ampia. Ora possono fare molte altre cose nella vita: possono navigare, possono interagire sui social media. Lo vedi dal successo dei giochi elettronici: un’industria da 240 miliardi di dollari. Non c’è tempo. Questa è la chiave. Competiamo per il tempo. Competiamo per quei periodi in cui possiamo rimanere concentrati su qualcosa. Il bambino moderno vive atomizzato: dieci minuti qui, 15 là. Tutti gli sport affrontano questo problema del pubblico. La NFL (il football americano) offre partite da tre ore e mezza. I fan del futuro si concentreranno davvero su questo?».

Da un lato il mondo dello sport business sta tentando di avvicinarsi ai giovani, cavalcando l’onda e-sport. Ovviamente, la creazione di improbabili team di gamers che indossano le casacche con il logo del club risponde alla necessità di riavvicinare la fanbase all’universo di squadra, limitando quanto più possibile la perdita di valore del brand che il loro allontanamento comporterebbe. Un sistema dopato da un’esigenza commerciale che non riconosce più la squadra come simbolo di una società sportiva, ma piuttosto come azienda di profitto. Una deriva che rischia non solo di diluire l’identità stessa della squadra, ma anche di comprometterne definitivamente il suo ruolo di aggregatore sociale.

D’altra parte, anche le leghe si stanno impegnando per rendere il proprio prodotto, le partite, più appetibile: agli appassionati non sarà sfuggito durante il Clásico della scorsa settimana una costante ricerca di inquadrature sperimentali, sovente improbabili, che a ben vedere scimmiottano proprio le visuali dei videogiochi più noti. Tentativi abbastanza patetici per rendere il match più attraente per le nuove generazioni, mantenendo così alto il valore di un prodotto che proprio sui contratti televisivi riesce a sopravvivere in precario equilibrio.

I più progressisti si sono spinti anche oltre, proponendo alcuni cambi regolamentari che migliorino la fruizione dello spettacolo. Nel calcio sta trovando sempre più seguaci l’idea del tempo effettivo, riducendo a 60 minuti la durata totale delle partite. Nella pallacanestro il tiro da 4 punti sarebbe l’ennesima trovata per rendere ancora più spettacolari partite già abbondantemente gonfiate di punti. Nel tennis l’obiettivo è limitare l’impatto dei grandi bombardieri magari abolendo la seconda palla di servizio, e soprattutto disputare anche i tornei del Grande Slam al meglio dei 3 set per non perdere/annoiare i più giovani.

Proposte che fanno inorridire i puristi, eppure anche i conservatori più accesi si sono piegati all’incedere dirompente del tempo che sta modificando i dogmi del gioco. Sembrava impossibile che nel tempio di Wimbledon potesse approdare quella trovata tutta americana del tie-break, e invece non solo ha trovato spazio nei set regolari, ma ha sfondato anche la resistenza della quinta e decisiva partita, mai attaccata prima dalle novità, dove ora scatta automaticamente al 12 pari.

E che dire del calcio, passato da non concedere alcun tipo di sostituzione ad ammetterne ora addirittura 5: una scelta forzata dalla crisi post-Covid, ma rivoluzionaria per le sue influenze decisive sullo stile di gioco. Sempre nel pallone sembrava inaccettabile il concetto del time-out, eppure il cooling break ha sfatato l’ennesimo mito. Non vale la pena nemmeno citare la stratificazione di regole relative al fuorigioco o ai tempi supplementari, compreso quella sciagurata idea apparsa a inizio millennio del golden gol, del quale purtroppo noi italiani siamo diventati involontari esperti.

 

IL VUOTO DELLE IDEE

Nemmeno il modo di giocare si è potuto sottrarre a questo vortice rivoluzionario. Fino a qualche stagione fa godevamo ancora del piacere della contrapposizione delle scuole. Nel calcio si poteva assistere a una battaglia ideologica, di cui, per semplicità, assumeremo il mantra che in Argentina hanno sintetizzato come menottismo e bilardismo. Atteggiamenti volti a un calcio sfrontato e propositivo da un lato, concreto e cinico dall’altro.

Una bella storia di contrapposizione di correnti, entrambe vincenti, che sono da sempre le due strade intraprese e sviluppate dagli allenatori del calcio moderno. Così il grande erede di Menotti, El Loco Bielsa, mostrava al mondo il suo gioco scoppiettante. In Italia il Maestro del tridente Zeman creava a Foggia un lunapark di emozioni ribattezzato Zemanlandia. A Barcellona nasceva la filosofia catalana incentrata sul Totaalvoetbal di Cruijff ereditato dal genio di Rinus Michel.

Sulla scia del bilardismo si muovevano gli italianissimi eredi del catenaccio del Parón Rocco, Trapattoni e Lippi, e dal generale Lobanovsky nell’ex Unione Sovietica a una serie indefinita di figure minori, arcigne e sanguigne, in tanti raccontavano storie e si portavano dietro caratteri e tradizioni più o meno nazionali. Ma lo scontro ideologico è culminato anche recentemente: da una parte il Pep del Tiki-Taka, dall’altra il Mou del bus davanti alla porta e Sameul Eto’o terzino.

Una fioritura di stili, che si sono spesso fusi con la cultura stessa dei loro artefici, ora tremendamente appiattite alla ricerca di spettacolarizzazione che fa gongolare le emittenti televisive, ma mortifica l’estro. Perché è troppo facile etichettare per forza e necessità ‘migliore’ un calcio all’attacco, un prodotto confezionato in cui l’esito non è mai banale né scontato, un thriller che tiene con il fiato sospeso fino all’ultimo istante. Eppure, non ci sembra che questo necessariamente premi l’eccellenza, quell'orchestra armoniosa che si può ottenere anche con invidiabile solidità difensiva, non esclusivamente nella sbilanciata ricerca del gol.

Un paradigma che sembra aver svuotato anche i più strenui rappresentanti dell’ordine e del rigore. La stagione appena iniziata sta mostrando un Antonio Conte spregiudicato, non più preoccupato della sua traballante fase difensiva, ma soddisfatto della produzione offensiva tracimante della sua squadra. José Mourinho, l’uomo di ferro della difesa contro tutto e tutti – e non solo di campo - , un paio di settimane fa si è fatto raggiungere nell’ultimo quarto d’ora dilapidando un vantaggio di 3 gol, roba che ripensando al Triplete nerazzurro sanguinano gli occhi.

Il paradosso è che nel tentativo di rendere appetibile lo spettacolo alle nuove generazioni stiamo mutuando uno sport che somiglia quanto mai ai videogiochi, con ritmi indiavolati e gol, o punti, a grappoli. La cosa buffa è che naturalmente sarebbero i videogiochi a dover imitare la realtà, ecco perché il paradosso, se non un’aporia, sembra davvero destinato a essere tale, quindi irrisolvibile.

 

LO SPORT COME VALORE

Sorge spontaneo chiedersi se l’unico modo di coinvolgere i giovani sia avvicinare lo sport alle loro abitudini e non invece avvicinare loro stessi allo sport. Perché nella cultura di massa lo sport, in Italia specialmente il calcio, è stato a lungo proiezione ideale di ragazzini disordinatamente disposti sul cemento e sui campetti spelacchiati di tutta la penisola: questi imitavano le giocate dei grandi campioni, compagni della loro immaginazione, e si affezionavano a un calcio che era vicino ma rimaneva quanto mai lontano. Una tradizione più grande di loro in cui potevano, in minima parte, entrare.

Più che l’interesse verso la fruizione dello sport, il nostro timore è che stiamo perdendo l’interesse verso lo sport in generale, ampliando e ribaltando lo studio da cui abbiamo preso le mosse. E non sarebbe magari il caso di riprendere quelle politiche educative e sociali sempre ventilate, ma mai nemmeno abbozzate, per la promozione dello sport giovanile, nelle scuole e negli altri luoghi di aggregazione del complesso sistema didattico ed educativo? Il punto non è infatti solo lo sport ma la “cultura” sportiva: questa, nell'epoca dell'istantaneità, del tutto e subito, se non coltivata e tramandata rischia di essere letteralmente sommersa e dimenticata.

Sempre uno studio, questa volta del domestico ISTAT, racconta che oltre il 25% della popolazione tra i 3 e i 17 anni è sovrappeso. Già, sembrava un problema di esclusivo interesse della popolazione anglofona (Regno Unito e Stati Uniti in prima linea), invece eccoci cascati anche noi, afflitti da un immobilismo che nemmeno le sane abitudini della dieta mediterranea hanno potuto redimere.

E così invece di portare proposte serie per coltivare un ‘senso sportivo’ nelle scuole, dove il misero paio di ore settimanali dell’obsoleta “educazione fisica” si gioca insieme all’ora di religione il primato di materia più insignificante, investiamo risorse a cercare di rendere i nostri sport più appetibili solo spolverandone i rami, senza innaffiare mai le radici. La conseguenza, ancora più paradossale, è uno scollamento che distanzia ancora di più i ragazzi, affascinati da modelli irraggiungibili di superuomini in grado di correre a 35 km/h, ma incapaci di ispirare la fantasia di un bambino.

Non è detto che una cura ci sia, tutti gli sport che conosciamo sono poco più che centenari e non è detto che possano protrarsi in eterno. Questo però non toglie che le istituzioni debbano orientare più che correggere, programmare un futuro invece che calcolare i danni. Se appare obsoleto e nostalgico l'elogio alla strada di Marco Giampaolo, non possiamo però esimerci dall'incentivare il movimento e lo sport come elementi cardine della formazione giovanile. Non sappiamo quale sia lo sport del futuro, ma manteniamo una consapevolezza: qualunque esso sia, dobbiamo fare di tutto perché si esprima in modo reale e non in forma virtuale.