Marchi atipici: i requisiti nella giurisprudenza comunitaria

Articolo pubblicato sulla rivista "Avvocato", n. 3 marzo 2009 (Il Sole 24ore)
Colori, profumi, suoni e forma dei prodotti sono sempre più spesso utilizzati dalle imprese per contraddistinguere i propri prodotti e servizi. Le decisioni della Corte di Giustizia delle Comunità Europee e del Tribunale di Prima Istanza dell’Unione Europea, a volte innovative ed a volte decisamente contraddittorie.

Gli artt. 4 e 7 del Regolamento sul Marchio Comunitario prevedono che un segno, per essere registrabile come marchio, debba potere essere rappresentato graficamente e possedere capacità distintiva. A quali condizioni i colori, i profumi, i suoni e la forma di prodotti possono essere registrati come marchi? Come vengono valutati ed applicati i requisiti della rappresentazione grafica e della capacità distintiva con riferimento a detti marchi atipici? Quali sono le soluzioni interpretative proposte dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee e dai Tribunali comunitari?

È sempre più crescente, soprattutto in sede comunitaria, il numero delle domande di registrazione di marchi atipici – i colori, i profumi, i suoni e la forma dei prodotti – che si distinguono da quelli considerati come tradizionali - le parole, le lettere dell’alfabeto, i numeri, le figure ed i disegni.

Ciò corrisponde ad un diffuso tentativo delle imprese di individuare nuovi canali e nuovi metodi per potersi differenziare dai competitors in un mercato sempre più affollato e saturo di offerte di prodotti e di servizi.

Negli ultimi anni, le domande di registrazione di marchi atipici hanno quindi costretto gli esaminatori nazionali, comunitari ed internazionali, in primis, e gli organismi giudiziari nazionali, comunitari ed internazionali, in secundis, a dover applicare a detti marchi la disciplina generale prevista per tutti i tipi di marchi ed, in particolare, affrontare e risolvere le congenite problematiche del diritto dei marchi legate alla funzione del marchio come segno di comunicazione, alla sua rappresentazione grafica, alla sua capacità distintiva e, quindi, al suo ambito di tutela.

Fonti normative e nozione di marchio in generale

In Italia, la materia dei marchi di impresa è attualmente regolata dal Codice della proprietà industriale (di seguito per brevità c.p.i.), di cui al D.Lgs. n. 30/2005 entrato in vigore il 19 marzo 2005. Come noto, il predetto Codice ha abrogato le previgenti norme speciali, ed in particolare, il R.D. n. 929/1942 altrimenti denominato “Legge marchi”.

È opportuno precisare che la normativa italiana in tema di marchi è stata emanata in adempimento della Direttiva comunitaria Ce 89/104 del 21 dicembre 1988 ([1]) - concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri dell’Unione in materia di marchi - che a suo tempo fissò i principi fondamentali della disciplina dei marchi ed offrì il terreno per l’emanazione del successivo Regolamento 40/94 del 20 dicembre 1993 ([2]) sul marchio comunitario.

Lo spirito degli organi legislativi comunitari, trasfuso nella predetta normativa, consisteva, ovviamente, nella necessità di armonizzare le discipline dei diversi Stati membri dell’Unione procedendo ad un ravvicinamento del diritto dei marchi dei singoli Stati dal punto di vista dell’integrazione economica europea.

Ciò, è stato attuato mediante gli strumenti della Direttiva, che presuppone il permanere delle legislazioni nazionali ma elimina quelle disparità esistenti fra le diverse discipline interne, e del Regolamento, che ha creato un diritto di marchio unitario per l’intero territorio comunitario.

Benché il testo della legge italiana non coincida completamente con la Direttiva Ce 89/104 ed il Regolamento 40/94, la normativa interna deve essere necessariamente, e più opportunamente, interpretata in modo conforme alla predetta disciplina comunitaria ([3]).

Per completezza del quadro concernente l’attuale disciplina in tema di marchi debbono essere menzionare anche una serie di convenzioni internazionali quali: l’accordo di Madrid 1891-1967 concernente la registrazione internazionale dei marchi di fabbrica e di commercio; l’accordo di Nizza del 1957 circa la classificazione dei prodotti e dei servizi ai quali si applicano i marchi; il trattato sul diritto dei marchi di Ginevra del 1994 sulla semplificazione della procedura di registrazione ed, infine, l’accordo TRIP’s firmato a Marrakech nel 1994.

Tornando alla nozione di marchio d’impresa, l’art. 7 c.p.i. e gli artt. 4 e 7 del Regolmaneto sul Marchio Comunitario dispongono che possono costituire marchi d’impresa tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persona, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, a condizione che tali segni siano adatti a distinguere i prodotti o i servizi di una impresa da quelli di altre imprese.

In via del tutto generale, non possono, quindi, essere registrati come marchi, i segni costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive; i segni di forma imposta dalla natura stessa del prodotto; i segni contenenti simboli, emblemi e stemmi che rivestono interesse pubblico o protetti da convenzioni internazionali; i segni idonei ad ingannare il pubblico sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti e dei servizi; i segni identici o simili ad un segno già noto come ditta, denominazione o ragione sociale se da ciò può determinarsi un rischio di confusione per il pubblico a causa dell’affinità di prodotti o servizi.

La classificazione in generale dei marchi ed i marchi atipici

Come noto vi sono varie classificazioni dei marchi. Trattasi, ovviamente, di mere distinzioni convenzionali ed accademiche poiché, come già precisato, non esiste alcuna differenza nella disciplina di ciascuna tipologia.

La classificazione più consueta è quella offerta dall’art. 7 c.p.i. che distingue tra marchi: denominativi, figurativi, sonori, di forma ed olfattivi.

Più recente è, invece, la classificazione che distingue tra marchi tipici – i marchi più tradizionali quali: parole, sigle, lettere dell’alfabeto, numeri figure o disegni - ed atipici – i marchi più innovativi quali: colori, profumi, suoni e forme dei prodotti-

Più in dettaglio sono:

-marchi di colore: colori o combinazione di colori purché descritti verbalmente ed identificati mediante un codice di identificazione internazionalmente riconosciuto (si pensi al colore rosso della Ferrari);

-marchi olfattivi: profumi od odori purché riproducibili graficamente, ad esempio, mediante formule chimiche o galeniche, con sistemi di analisi o descrittivamente.

-marchi sonori: note o brani musicali, purché rappresentabili mediante pentagramma e corredati, oltre che dai disegni delle note, da tutti gli elementi accessori della scrittura musicale (chiavi musicali, divisioni, battute, pause, alterazioni - si pensi ai marchi sonori Intel e BMW);

-marchi di forma o tridimensionali: forme di prodotti o loro confezioni (si pensi alla celebre bottiglia della Coca-Cola). Possono essere registrati come marchi solo forme non consuete, arbitrarie o di fantasia. Dette forme non devono avere fini estetici, funzionali o, comunque, di utilità altrimenti la relativa tutela ricade nell’ambito dei brevetti per invenzione industriale o modello.

I requisiti del marchio in generale: novità, liceità e capacità distintiva

Per poter procedere alla registrazione, il marchio deve presentare certi requisiti di validità in mancanza dei quali il marchio potrebbe essere dichiarato nullo ([4]). Detti requisititi sono: la rappresentazione grafica, la novità, la liceità e la capacità distintiva.

Rappresentazione grafica:

La normativa sopra richiamata elenca una lista di segni che possono essere rappresentati graficamente, ossia: parole, ivi compresi i nomi di persona, disegni, lettere, numeri, la forma dei prodotti. Non include espressamente i colori, i profumi e i suoni. Tuttavia, è opinione comune che la lista non sia esaustiva e che non possa essere interpretata nel senso di escludere la registrabilità come marchio di colori, profumi e suoni, purché tali segni siano idonei ad essere rappresentati graficamente e dotati di capacità distintiva.

Novità:

la novità di un marchio consiste nell’assenza sul mercato di prodotti o servizi contraddistinti da segni uguali o simili e di marchi confondibili depositati in precedenza da terzi e ancora validi, se pure non usati. Il marchio deve essere, quindi, qualche cosa di nuovo rispetto ad altri marchi o segni distintivi già esistenti sul mercato.

Il legislatore non detta espressamente una definizione del requisito della novità, bensì, detta all’art. 12 ([5]) c.p.i., una lunga e dettagliata elencazione di casi in cui vi è carenza di novità.

Riassumendo quanto stabilito dall’articolo 12 c.p.i., il marchio è “nuovo” quanto, in un determinato ambito territoriale, non esistono marchi registrati anteriori, identici o simili a quello che si vuole tutelare.

Liceità:

In virtù del combinato disposto degli artt. 14 e 8 c.p.i., il marchio deve contenere segni o parole conformi alla legge, all’ordine pubblico ed al buon costume. È, quindi, vietata l’utilizzazione di bandiere e stemmi di Stati o segni confondibili con altri protetti da convenzioni internazionali (ad esempio l’emblema della croce rossa o il simbolo olimpico) e di segni il cui uso costituisce violazione di un altrui diritto d’autore di proprietà industriale o altro diritto esclusivo di terzi.

Con riferimento al requisito della liceità, particolarmente problematico è l’uso come marchio di nomi o pseudonimi altrui. In via generale, è lecito utilizzare il nome proprio o lo pseudonimo di una persona nota, o anche non conosciuta, previo suo consenso o dei suoi eredi.

Il nome di una persona non nota può essere inserito nel marchio, anche senza il consenso, purché l’uso non leda la fama, il credito o il decoro del soggetto medesimo ([6]). Inoltre, non sono utilizzabili come marchio, se non dal titolare o con il suo consenso, i nomi di persona, i segni usati in campo artistico, letterario, scientifico, politico o sportivo, denominazioni e sigle di manifestazioni e di enti ed associazioni non afferenti finalità economiche, nonché, emblemi caratteristici di questi.

Quanto ai ritratti di persone, non possono essere registrati come marchio senza il consenso delle medesime e, dopo la morte, senza il consenso del coniuge e dei figli ed, in loro mancanza o dopo la morte di questi ultimi, dei parenti fino al quarto grado incluso.

Il marchio registrato in violazione delle regole sopra esposte, è nullo. L’avente diritto può agire per l’accertamento della nullità, o in alternativa, per ottenere che la domanda di registrazione venga trasferita a proprio nome o che la già avvenuta registrazione sia trasferita a proprio nome con sentenza avente efficacia retroattiva o, infine, può depositare una nuova domanda con effetti risalenti alla data della prima.

Capacità distintiva:

Consiste nella capacità di distinguere un prodotto o servizio da quello di altri. Il marchio non deve consistere in una parola, figura o segno di uso generico o in una denominazione o indicazione che descriva il prodotto. La capacità distintiva è il principale tra i requisiti di validità di un marchio. La distintività consiste sostanzialmente nelle caratteristiche che il segno deve presentare per essere idoneo ad identificare un determinato prodotto o servizio e, quindi, a renderlo diverso dalla denominazione generica del prodotto o del servizio, nonché, da qualsiasi segno idoneo a identificare quel tipo di prodotto o servizio, le sue qualità o la sua destinazione. In altri termini, il marchio deve poter distinguere il prodotto da tutti gli altri prodotti dello stesso genere presenti sul mercato. Ciò, avviene in presenza di due condizioni disciplinate espressamente dal legislatore.

Ed, infatti, l’art. 7 c.p.i. stabilisce che il marchio, munito di capacità distintiva, deve essere idoneo «a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese». Vi è poi il disposto di cui all’art. 13 c.p.i. il quale dispone che “non possono costituire oggetto di registrazione come marchio di impresa i segni privi di carattere distintivo ed in particolare quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio posso servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica, ovvero, l’epoca di fabbricazione del prodotto e della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio”.

Conseguentemente, un marchio munito di capacità distintiva è dotato di “carattere distintivo” e “non è descrittivo”.

È necessario precisare che il “carattere distintivo” e la “carenza di descrittività” non sono termini tra loro sinonimi, bensì, autonome e distinte accezioni della capacità distintiva. Detta separazione concettuale è conforme all’impostazione della Direttiva Ce 89/104 ([7]) nella quale le due predette fattispecie sono disciplinate distintamente dall’art. 2 ([8]) e dagli artt. 3/1b e 3/1c ([9]) come specifici impedimenti alla registrazione o motivi di nullità di un marchio.

Come sopra delineato, non possono, quindi, costituire oggetto di valido marchio i segni formati esclusivamente dalle denominazioni generiche e dalle indicazioni descrittive elencate nell’art. 13/1 c.p.i. Tali denominazioni ed indicazioni possono però essere parte di un marchio complesso i cui altri elementi costitutivi siano dotati di capacità distintiva. Ovviamente, in tali ipotesi, la registrazione del marchio non comporterà la tutela dell’elemento descrittivo in sé considerato ma solo quella dei componenti distintivi del medesimo.

Conseguentemente, il divieto di impiegare come marchio le denominazioni generiche e le indicazioni descrittive è pienamente rispettato quando viene scelto un marchio totalmente avulso da qualsiasi riferimento al relativo prodotto o servizio. Ciò avviene, ad esempio, adottando come marchio una parola o una figura in sé privi di significato semantico (di fantasia – si pensi al marchio Fanta per le bevande analcoliche ed al marchio Adidas per gli articoli sportivi) o, invece, scegliendo un segno munito di un proprio significato, ma che non ha alcuna attinenza con il prodotto o servizio da contraddistinguere (si pensi al marchio Puma per le calzature ed al marchio Panda per le autovetture).

Tuttavia, in alcuni settori merceologici, la scelta di un marchio è spesso condizionata dalla necessità per il titolare di descrivere in qualche modo i propri prodotti o servizi usando segni che fungano da richiamo dei prodotti o dei servizi medesimi, delle loro caratteristiche o della loro destinazione.

In tale questo caso, il marchio assume anche un contenuto informativo che, se opportunamente utilizzato e sfruttato, può orientare il pubblico ed il consumatore nella scelta tra più prodotti e servizi ed, in ogni caso, facilitare la collocazione ed il successo del prodotto o servizio sul mercato.

Trattasi, nel caso di specie, dei c.d. marchi espressivi ([10]) le cui registrazioni non sono necessariamente illegittime. Detti marchi possono, infatti, contenere elementi descrittivi ed elementi differenziatori, quali spesso suffissi e prefissi, che diversificano il marchio dai termini impiegati nel linguaggio comune.

Il problema della registrabilità dei marchi espressivi, nonostante il divieto di cui all’art. 13 c.p.i., viene spesso risolto dalla giurisprudenza adottando un criterio apparentemente univoco: la presenza di capacità distintiva, e quindi la validità di un marchio espressivo, sussiste in presenza di denominazioni generiche o indicazioni descrittive modificate (nella grafia, nel colore o nella fonetica) o combinate con altre parole in modo nuovo ed originale.

In molti casi il limite tra validità ed invalidità del segno è difficilmente individuabile e talora opinabile. Per tale motivo, i marchi espressivi vengono solitamente definiti marchi deboli, ossia, muniti di scarsa capacità distintiva, sebbene un marchio originariamente debole può sempre rafforzarsi con l’uso ed un’attenta tutela di esso ([11]).

Una particolare problematica riguarda l’applicazione dell’art. 13 c.p.i. con riferimento alle indicazioni sulla provenienza geografica di un prodotto. Ciò, in virtù del fatto che simili indicazioni contenute in un marchio possono essere direttamente o indirettamente descrittive del prodotto, ed in particolare, della qualità del medesimo. La questione riguarda specificatamente il settore agricolo e, più in generale, i prodotti alimentari o la produzione industriale e artigianale di prodotti tipici di un determinato territorio (si pensi alla pizza napoletana, agli orologi svizzeri, al prosciutto di Parma o al parmigiano Reggiano).

In questi casi, l’art. 13 c.p.i. ne vieta la registrabilità come marchi individuali; per contro il legislatore ne ammette la tutelabilità come marchi colletivi[12] ex art. 11 c.p.i.

Ovviamente, il problema della descrittività appena affrontato non si pone qualora il luogo di produzione non influenzi le caratteristiche di un determinato prodotto o servizio (si pensi alle cartiere Fabriano ed ai filati Tollegno). In tale ipotesi, il nome geografico è utilizzato in modo originale ed arbitrario ed il relativo marchio viene indubbiamente ritenuto di fantasia.

Diverso problema riguarda, invece, l’ipotesi in cui il nome geografico differisce da quello in cui risiede il produttore. In questo caso la legge (art. 14 c.p.i.) vieta la registrabilità solo qualora il marchio e l’uso del medesimo inganni il pubblico circa la provenienza, la natura o la qualità del prodotto (si pensi ipoteticamente al segno Milano come marchio per contraddistinguere profumi, articoli sportivi o sigari).

La Giurisprudenza ed il problema della rappresentazione grafica e della capacità distintiva dei marchi atipici

Con riferimento ai marchi atipici si riscontrano notevoli difficoltà nell’individuare, e conseguentemente verificare, la sussistenza dei requisiti della rappresentazione grafica e della capacità distintiva.

Per quanto concerne il requisito della rappresentazione grafica non presentano particolari problemi i marchi anticipi quali le forme dei prodotti ed i colori.

A tal riguardo, il Regolamento sul Marchio Comunitario stabilisce che un marchio tridimensionale di forma è rappresentabile mediante la riproduzione fotografica o grafica del marchio medesimo. Per contro, la rappresentazione del colore dovrà prevedere l’indicazione e la riproduzione del colore del segno oggetto del marchio.

In tema di rappresentazione grafica di marchi di colore, l’Ufficio per l’Armonizzazione del Mercato Interno (di seguito per brevità UAMI), l’ente competente per il rilascio dei marchi comunitari, si è orientato in passato respingendo la mera indicazione del colore, senza la relativa rappresentazione grafica (Commissione di Ricorso, 12.2.1998, R 7/97-3). Successivamente, nel noto caso Libertel (Corte di Giustizia 6 maggio 2003, C 104/01), la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha affermato che il requisito della rappresentazione grafica non è soddisfatto dalla mera riproduzione del colore nei documenti di deposito del marchio, ed è invece necessario identificare il colore per mezzo di un codice di identificazione internazionalmente riconosciuto (12).

Decisamente più problematica è la rappresentazione grafica dei marchi atipici quali i profumi, gli odori, i suoni ed i rumori. Ciò, a causa della loro intrinseca natura immateriale.

Numerose a tal riguardo sono state le decisioni degli organismi comunitari. In via del tutto generale la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha dettato il principio (Corte di Giustizia del 27 novembre 2003, nel noto caso Shield Mark C-283/01) che può essere registrato come marchio un segno che di per sé non è suscettibile di essere percepito visivamente, a condizione che possa essere oggetto di una rappresentazione grafica, in particolare mediante figure, linee o caratteri, che sia chiara, precisa, di per sé completa, facilmente accessibile, intelligibile, durevole ed oggettiva.

Quanto ai marchi sonori, e più precisamente a quelli musicali, la rappresentazione grafica può consistere nella riproduzione delle note musicali sul pentagramma. Nel caso Shield Mark, sopra citato, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha affermato che il segno sonoro costituente il marchio può essere rappresentato da un pentagramma diviso in battute in cui figurino, in particolare, una chiave, note musicali e pause la cui forma indichi il valore relativo ed, eventualmente, gli accidenti.

Decisamente più difficile è la rappresentabilità grafica del marchio rappresentato da un rumore, piuttosto che da un suono. Vi è da rilevare che recentemente l’UAMI ha concesso la registrazione come marchio comunitario del celebre “L’urlo di Tartan” (domanda depositata dagli eredi dello scrittore Edgar Rice Burroughs) mediante l’utilizzo del sistema dell’e-filing, ossia, tramite l’allegazione alla domanda di marchio di un file musicale.

Ed infatti, l’accoglimento della domanda di marchio comunitario “Urlo di Tartan” è stato possibile grazie all’intervenuta modifica della normativa UAMI che dal 2005 permette all’Ufficio di ricevere domande di marchi sonori con allegati file MP3.

Si ritiene che il medesimo sistema dell’e-filing possa nel futuro più prossimo essere applicato anche ai marchi olfattivi. Ciò grazie allo sviluppo di nuove tecnologie che permettono di trasmettere sensazioni olfattive via internet, sms, ecc.

In tema di marchi olfattivi, in passato l’UAMI ha avuto modo di pronunciarsi in termini decisamente contraddittori con riferimento a domande di marchio quali profumi ed odori.

In taluni casi l’UAMI ha ritenuto sufficiente la descrizione meramente verbale del profumo mediante l’uso di espressioni quali: "L’odore dell’erba appena tagliata" (per contraddistinguere palle da tennis), "Il profumo di lamponi" (per contraddistinguere carburanti e gasolio per autotrazione) e“L’odore di fragola matura” (per contraddistinguere prodotti cosmetici, di cartoleria e di pelletteria).

Secondo l’opinione UAMI queste espressioni e descrizioni meramente verbali sarebbero già di per se sufficienti per permettere agli interessati di ottenere un’idea immediata ed inequivocabile del segno distintivo che costituisce l’oggetto dal marchio.

Ciò con particolare riferimento a “L’odore dell’erba appena tagliata" sulla base del presupposto che trattasi nel caso di specie di un odore preciso, che ciascun individuo può immediatamente e facilmente desumere dalla propria esperienza.

I casi quali "L’odore dell’erba appena tagliata" non devono però essere ritenuti dei precedenti vincolanti poiché, di regola, l’UAMI non consente che un profumo possa essere rappresentato per mezzo di una mera descrizione verbale.

Decisamente restrittiva è stata infatti l’opinione espressa dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, nel caso Ralph Sieckermann (Corte di Giustizia del 12 dicembre 2002, C-273/00) la quale ha ritenuto che il requisito della rappresentabilità grafica di un marchio olfattivo non sia soddisfatto dall’enunciazione della sua formula chimica, o dalla descrizione verbale, o dal deposito di un campione del profumo o dell’odore, o da una combinazione di tali elementi.

Per quanto concerne invece il requisito della capacità distintiva applicato ai marchi atipici, si ricorda che il presupposto normativo è rinvenibile negli artt. 4 e 7 del Regolamento sul Marchio Comunitario i quali prevedono che l’UAMI non dovrà procedere alla registrazione come marchio di segni privi di carattere distintivo, ossia di segni che non siano idonei a distinguere i beni o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese.

Numerosissime sono state le decisioni UAMI, del Tribunale di Primo Grado e della Corte di Giustizia delle Comunità Europee in merito al carattere distintivo dei marchi di forma e della forma dei prodotti: il Tribunale di Primo Grado si è pronunciato in casi significativi che avevano quali parti Procter & Gamble, Glabervel, Axions, Daimler Chrysler, Nestlé Waters France, Unilever N.V., Deutsche SiSi-Werke mentre la Corte di Giustizia ha deciso il noto caso Philips - Remington (Corte di Giustizia del 18 giugno 2002, C-299/99).

Nella presente trattazione si omette volutamente l’esposizione delle molteplici problematicità legate alla capacità distintiva dei marchi di forma. Ci si limita in questa sede a precisare che secondo la giurisprudenza comunitaria un marchio di prodotto è in grado di distinguere i beni ai quali si riferisce, in particolare, se è sufficientemente originale, arbitrario o insolito.

Con riferimento invece ai marchi di colore, nel caso Libertel sopra citato, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha ritenuto che una tonalità di colore sia munita di capacità distintiva quando, avuto riguardo alla percezione del pubblico rilevante, il marchio sia suscettibile di identificare il prodotto o il servizio. Nel valutare la distintività di un colore, l’autorità competente per la registrazione del marchio dovrà tenere conto di tutte le circostanze del caso, ed in particolare dell’uso che sia stato fatto del marchio, così come dell’interesse generale che non venga indebitamente ristretta la disponibilità del colore per le altre imprese.

Conseguentemente, il colore possiede carattere distintivo se è insolito per i beni o servizi per i quali il marchio è depositato.

Decisamente più rari sono i casi che trattano approfonditamente della capacità distintiva dei segni olfattivi e sonori. Come sopra riportato, le decisioni dell’UAMI relative al marchio olfattivo "L’odore dell’erba appena tagliata" e “L’urlo di Tartan” hanno stabilito che detti marchi costituiscono segni del tutto particolari e, pertanto, muniti di intrinseca capacità distintiva.

Parimenti muniti di capacità distintiva sono stati ritenuti il colore “Magenta”, definito dal codice CTM 002534774, utilizzato nella “T” del logo della potente azienda di telecomunicazioni tedesca Deutsche Telekom e dalla tonalità blue/silver registrato da Red Bull per le lattine di bevande energetiche che si è attribuita la proprietà del CTM 002534774.

Pertanto, anche i marchi atipici devono avere un carattere distinto dai prodotti e debbono essere stabili. Questa relazione tra i prodotti ed il marchio deve essere costante e stabile nel corso del tempo, in modo tale che la scelta d’acquisto in relazione ad un marchio si svolga sempre nelle stesse condizioni.

Conclusioni

Le decisioni rese in sede comunitaria con riferimento ai requisiti di validità dei marchi atipici ha evidenziato di fatto l’impossibilità di attribuire a questi tipi di marchi la parità di trattamento con quelli più propriamente tradizionali. Le decisioni UAMI e le sentenze del Tribunale di Primo Grado e della Corte di Giustizia delle Comunità Europee dimostrano infatti che per i marchi atipici i requisiti della rappresentazione grafica e della capacità distintiva devono necessariamente essere valutati in modo del tutto peculiare ed a se stante. Se ad oggi le domande di marchi anticipi sono state ad appannaggio di poche e coraggiose imprese, le nuove tecnologie e le nuove modalità di deposito dei marchi permetteranno in futuro, di ampliare le possibilità di accoglimento di domande di marchi atipici e finalmente di attribuire a queste tipologie di marchi valore e dignità pari a quelli tradizionali. Ciò con evidenti ed interessanti ripercussioni nel mercato e nelle politiche pubblicitarie e di marketing delle imprese.



[1] Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee del 19 luglio 1989 – L’Italia ha dato attuazione alla Direttiva con il D.Lgs. n. 480/1992.

[2] Gazzetta Ufficiale Delle Comunità Europee del 14 gennaio 1994.

[3] In questo senso si è pronunziata anche la Corte di Giustizia Europea statuendo che “nell’applicare il diritto nazionale, il giudice nazionale deve interpretarlo quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva, al fine di conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi così all’art. 189, terzo comma, del Trattato CE” – cfr. sentenza CGE 11 luglio 2002 C-62/00, ma anche, CGE 5 marzo 2002 C-386/00; CGE 22 settembre 1998 C-185/97; CGE 20 marzo 1997 C-352/95; CGE del 13 novembre 1990 n. C-106/89; CGE del 10 aprile 1984 C-79/83 e CGE 10 aprile 1984 C-14/83.

[4] L’art. 3 della Direttiva Ce 89/104 utilizza i termini di “esclusione dalla registrazione” e “nullità”.

[5] La corrispondente disposizione della Direttiva 89/104 è l’art. 4.

[6] La lesione della fama del credito o del decoro sussiste tutte le volte in cui il nome è associato ad un prodotto volgare poco decoroso o anche semplicemente non confacente alla persona contraddistinta da tale nome.

[7] Anche la più recente giurisprudenza del Tribunale di Prima Istanza e della Corte di Giustizia Europea ha individuato sulla base della direttiva 89/104 ipotesi di mancanza di carattere distintivo diverse dalla descrittività.

[8] Art. 2: “Possono costituire marchi di impresa tutti i segni che possono essere riprodotti graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, la forma del prodotto o il suo confezionamento, a condizione che tali segni siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di una impresa da quelli di altre imprese”.

[9] Art. 3: «Sono esclusi dalla registrazione, o se registrati, possono essere dichiarati nulli: … b) i marchi di impresa privi di carattere distintivo; c) i marchi di impresa composti esclusivamente da segni o indicazioni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o servizio…».

[10] Si pensi ad esempio ai marchi Oransoda, Cotonelle, Fluimucil, Benagol.

[11]Altri casi relativi ai marchi di colore sono stati decisi dal Tribunale di Primo Grado delle Comunità Europee, quali KWS Saat (9.10. 2000, T-173/00), Viking (25.9.2002, T-316/00), Andreas Stihl (9.7.2003, T-234-01).

[11] In dottrina AA.VV. Diritto Industriale - Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2005; Vanzetti-Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano 2003.

[12] I marchi collettivi sono registrati da soggetti quali associazioni o consorzi di tutela che svolgono la funzione di “garanzia di provenienza” o di “qualità” di certi prodotti e sono concessi in uso a soggetti che si impegnano a rispettare nella loro attività determinati e talvolta rigidissimi capitolati produttivi (si pensi al marchio Parmigiano Reggiano).

Colori, profumi, suoni e forma dei prodotti sono sempre più spesso utilizzati dalle imprese per contraddistinguere i propri prodotti e servizi. Le decisioni della Corte di Giustizia delle Comunità Europee e del Tribunale di Prima Istanza dell’Unione Europea, a volte innovative ed a volte decisamente contraddittorie.

Gli artt. 4 e 7 del Regolamento sul Marchio Comunitario prevedono che un segno, per essere registrabile come marchio, debba potere essere rappresentato graficamente e possedere capacità distintiva. A quali condizioni i colori, i profumi, i suoni e la forma di prodotti possono essere registrati come marchi? Come vengono valutati ed applicati i requisiti della rappresentazione grafica e della capacità distintiva con riferimento a detti marchi atipici? Quali sono le soluzioni interpretative proposte dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee e dai Tribunali comunitari?

È sempre più crescente, soprattutto in sede comunitaria, il numero delle domande di registrazione di marchi atipici – i colori, i profumi, i suoni e la forma dei prodotti – che si distinguono da quelli considerati come tradizionali - le parole, le lettere dell’alfabeto, i numeri, le figure ed i disegni.

Ciò corrisponde ad un diffuso tentativo delle imprese di individuare nuovi canali e nuovi metodi per potersi differenziare dai competitors in un mercato sempre più affollato e saturo di offerte di prodotti e di servizi.

Negli ultimi anni, le domande di registrazione di marchi atipici hanno quindi costretto gli esaminatori nazionali, comunitari ed internazionali, in primis, e gli organismi giudiziari nazionali, comunitari ed internazionali, in secundis, a dover applicare a detti marchi la disciplina generale prevista per tutti i tipi di marchi ed, in particolare, affrontare e risolvere le congenite problematiche del diritto dei marchi legate alla funzione del marchio come segno di comunicazione, alla sua rappresentazione grafica, alla sua capacità distintiva e, quindi, al suo ambito di tutela.

Fonti normative e nozione di marchio in generale

In Italia, la materia dei marchi di impresa è attualmente regolata dal Codice della proprietà industriale (di seguito per brevità c.p.i.), di cui al D.Lgs. n. 30/2005 entrato in vigore il 19 marzo 2005. Come noto, il predetto Codice ha abrogato le previgenti norme speciali, ed in particolare, il R.D. n. 929/1942 altrimenti denominato “Legge marchi”.

È opportuno precisare che la normativa italiana in tema di marchi è stata emanata in adempimento della Direttiva comunitaria Ce 89/104 del 21 dicembre 1988 ([1]) - concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri dell’Unione in materia di marchi - che a suo tempo fissò i principi fondamentali della disciplina dei marchi ed offrì il terreno per l’emanazione del successivo Regolamento 40/94 del 20 dicembre 1993 ([2]) sul marchio comunitario.

Lo spirito degli organi legislativi comunitari, trasfuso nella predetta normativa, consisteva, ovviamente, nella necessità di armonizzare le discipline dei diversi Stati membri dell’Unione procedendo ad un ravvicinamento del diritto dei marchi dei singoli Stati dal punto di vista dell’integrazione economica europea.

Ciò, è stato attuato mediante gli strumenti della Direttiva, che presuppone il permanere delle legislazioni nazionali ma elimina quelle disparità esistenti fra le diverse discipline interne, e del Regolamento, che ha creato un diritto di marchio unitario per l’intero territorio comunitario.

Benché il testo della legge italiana non coincida completamente con la Direttiva Ce 89/104 ed il Regolamento 40/94, la normativa interna deve essere necessariamente, e più opportunamente, interpretata in modo conforme alla predetta disciplina comunitaria ([3]).

Per completezza del quadro concernente l’attuale disciplina in tema di marchi debbono essere menzionare anche una serie di convenzioni internazionali quali: l’accordo di Madrid 1891-1967 concernente la registrazione internazionale dei marchi di fabbrica e di commercio; l’accordo di Nizza del 1957 circa la classificazione dei prodotti e dei servizi ai quali si applicano i marchi; il trattato sul diritto dei marchi di Ginevra del 1994 sulla semplificazione della procedura di registrazione ed, infine, l’accordo TRIP’s firmato a Marrakech nel 1994.

Tornando alla nozione di marchio d’impresa, l’art. 7 c.p.i. e gli artt. 4 e 7 del Regolmaneto sul Marchio Comunitario dispongono che possono costituire marchi d’impresa tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persona, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, a condizione che tali segni siano adatti a distinguere i prodotti o i servizi di una impresa da quelli di altre imprese.

In via del tutto generale, non possono, quindi, essere registrati come marchi, i segni costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive; i segni di forma imposta dalla natura stessa del prodotto; i segni contenenti simboli, emblemi e stemmi che rivestono interesse pubblico o protetti da convenzioni internazionali; i segni idonei ad ingannare il pubblico sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti e dei servizi; i segni identici o simili ad un segno già noto come ditta, denominazione o ragione sociale se da ciò può determinarsi un rischio di confusione per il pubblico a causa dell’affinità di prodotti o servizi.

La classificazione in generale dei marchi ed i marchi atipici

Come noto vi sono varie classificazioni dei marchi. Trattasi, ovviamente, di mere distinzioni convenzionali ed accademiche poiché, come già precisato, non esiste alcuna differenza nella disciplina di ciascuna tipologia.

La classificazione più consueta è quella offerta dall’art. 7 c.p.i. che distingue tra marchi: denominativi, figurativi, sonori, di forma ed olfattivi.

Più recente è, invece, la classificazione che distingue tra marchi tipici – i marchi più tradizionali quali: parole, sigle, lettere dell’alfabeto, numeri figure o disegni - ed atipici – i marchi più innovativi quali: colori, profumi, suoni e forme dei prodotti-

Più in dettaglio sono:

-marchi di colore: colori o combinazione di colori purché descritti verbalmente ed identificati mediante un codice di identificazione internazionalmente riconosciuto (si pensi al colore rosso della Ferrari);

-marchi olfattivi: profumi od odori purché riproducibili graficamente, ad esempio, mediante formule chimiche o galeniche, con sistemi di analisi o descrittivamente.

-marchi sonori: note o brani musicali, purché rappresentabili mediante pentagramma e corredati, oltre che dai disegni delle note, da tutti gli elementi accessori della scrittura musicale (chiavi musicali, divisioni, battute, pause, alterazioni - si pensi ai marchi sonori Intel e BMW);

-marchi di forma o tridimensionali: forme di prodotti o loro confezioni (si pensi alla celebre bottiglia della Coca-Cola). Possono essere registrati come marchi solo forme non consuete, arbitrarie o di fantasia. Dette forme non devono avere fini estetici, funzionali o, comunque, di utilità altrimenti la relativa tutela ricade nell’ambito dei brevetti per invenzione industriale o modello.

I requisiti del marchio in generale: novità, liceità e capacità distintiva

Per poter procedere alla registrazione, il marchio deve presentare certi requisiti di validità in mancanza dei quali il marchio potrebbe essere dichiarato nullo ([4]). Detti requisititi sono: la rappresentazione grafica, la novità, la liceità e la capacità distintiva.

Rappresentazione grafica:

La normativa sopra richiamata elenca una lista di segni che possono essere rappresentati graficamente, ossia: parole, ivi compresi i nomi di persona, disegni, lettere, numeri, la forma dei prodotti. Non include espressamente i colori, i profumi e i suoni. Tuttavia, è opinione comune che la lista non sia esaustiva e che non possa essere interpretata nel senso di escludere la registrabilità come marchio di colori, profumi e suoni, purché tali segni siano idonei ad essere rappresentati graficamente e dotati di capacità distintiva.

Novità:

la novità di un marchio consiste nell’assenza sul mercato di prodotti o servizi contraddistinti da segni uguali o simili e di marchi confondibili depositati in precedenza da terzi e ancora validi, se pure non usati. Il marchio deve essere, quindi, qualche cosa di nuovo rispetto ad altri marchi o segni distintivi già esistenti sul mercato.

Il legislatore non detta espressamente una definizione del requisito della novità, bensì, detta all’art. 12 ([5]) c.p.i., una lunga e dettagliata elencazione di casi in cui vi è carenza di novità.

Riassumendo quanto stabilito dall’articolo 12 c.p.i., il marchio è “nuovo” quanto, in un determinato ambito territoriale, non esistono marchi registrati anteriori, identici o simili a quello che si vuole tutelare.

Liceità:

In virtù del combinato disposto degli artt. 14 e 8 c.p.i., il marchio deve contenere segni o parole conformi alla legge, all’ordine pubblico ed al buon costume. È, quindi, vietata l’utilizzazione di bandiere e stemmi di Stati o segni confondibili con altri protetti da convenzioni internazionali (ad esempio l’emblema della croce rossa o il simbolo olimpico) e di segni il cui uso costituisce violazione di un altrui diritto d’autore di proprietà industriale o altro diritto esclusivo di terzi.

Con riferimento al requisito della liceità, particolarmente problematico è l’uso come marchio di nomi o pseudonimi altrui. In via generale, è lecito utilizzare il nome proprio o lo pseudonimo di una persona nota, o anche non conosciuta, previo suo consenso o dei suoi eredi.

Il nome di una persona non nota può essere inserito nel marchio, anche senza il consenso, purché l’uso non leda la fama, il credito o il decoro del soggetto medesimo ([6]). Inoltre, non sono utilizzabili come marchio, se non dal titolare o con il suo consenso, i nomi di persona, i segni usati in campo artistico, letterario, scientifico, politico o sportivo, denominazioni e sigle di manifestazioni e di enti ed associazioni non afferenti finalità economiche, nonché, emblemi caratteristici di questi.

Quanto ai ritratti di persone, non possono essere registrati come marchio senza il consenso delle medesime e, dopo la morte, senza il consenso del coniuge e dei figli ed, in loro mancanza o dopo la morte di questi ultimi, dei parenti fino al quarto grado incluso.

Il marchio registrato in violazione delle regole sopra esposte, è nullo. L’avente diritto può agire per l’accertamento della nullità, o in alternativa, per ottenere che la domanda di registrazione venga trasferita a proprio nome o che la già avvenuta registrazione sia trasferita a proprio nome con sentenza avente efficacia retroattiva o, infine, può depositare una nuova domanda con effetti risalenti alla data della prima.

Capacità distintiva:

Consiste nella capacità di distinguere un prodotto o servizio da quello di altri. Il marchio non deve consistere in una parola, figura o segno di uso generico o in una denominazione o indicazione che descriva il prodotto. La capacità distintiva è il principale tra i requisiti di validità di un marchio. La distintività consiste sostanzialmente nelle caratteristiche che il segno deve presentare per essere idoneo ad identificare un determinato prodotto o servizio e, quindi, a renderlo diverso dalla denominazione generica del prodotto o del servizio, nonché, da qualsiasi segno idoneo a identificare quel tipo di prodotto o servizio, le sue qualità o la sua destinazione. In altri termini, il marchio deve poter distinguere il prodotto da tutti gli altri prodotti dello stesso genere presenti sul mercato. Ciò, avviene in presenza di due condizioni disciplinate espressamente dal legislatore.

Ed, infatti, l’art. 7 c.p.i. stabilisce che il marchio, munito di capacità distintiva, deve essere idoneo «a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese». Vi è poi il disposto di cui all’art. 13 c.p.i. il quale dispone che “non possono costituire oggetto di registrazione come marchio di impresa i segni privi di carattere distintivo ed in particolare quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio posso servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica, ovvero, l’epoca di fabbricazione del prodotto e della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio”.

Conseguentemente, un marchio munito di capacità distintiva è dotato di “carattere distintivo” e “non è descrittivo”.

È necessario precisare che il “carattere distintivo” e la “carenza di descrittività” non sono termini tra loro sinonimi, bensì, autonome e distinte accezioni della capacità distintiva. Detta separazione concettuale è conforme all’impostazione della Direttiva Ce 89/104 ([7]) nella quale le due predette fattispecie sono disciplinate distintamente dall’art. 2 ([8]) e dagli artt. 3/1b e 3/1c ([9]) come specifici impedimenti alla registrazione o motivi di nullità di un marchio.

Come sopra delineato, non possono, quindi, costituire oggetto di valido marchio i segni formati esclusivamente dalle denominazioni generiche e dalle indicazioni descrittive elencate nell’art. 13/1 c.p.i. Tali denominazioni ed indicazioni possono però essere parte di un marchio complesso i cui altri elementi costitutivi siano dotati di capacità distintiva. Ovviamente, in tali ipotesi, la registrazione del marchio non comporterà la tutela dell’elemento descrittivo in sé considerato ma solo quella dei componenti distintivi del medesimo.

Conseguentemente, il divieto di impiegare come marchio le denominazioni generiche e le indicazioni descrittive è pienamente rispettato quando viene scelto un marchio totalmente avulso da qualsiasi riferimento al relativo prodotto o servizio. Ciò avviene, ad esempio, adottando come marchio una parola o una figura in sé privi di significato semantico (di fantasia – si pensi al marchio Fanta per le bevande analcoliche ed al marchio Adidas per gli articoli sportivi) o, invece, scegliendo un segno munito di un proprio significato, ma che non ha alcuna attinenza con il prodotto o servizio da contraddistinguere (si pensi al marchio Puma per le calzature ed al marchio Panda per le autovetture).

Tuttavia, in alcuni settori merceologici, la scelta di un marchio è spesso condizionata dalla necessità per il titolare di descrivere in qualche modo i propri prodotti o servizi usando segni che fungano da richiamo dei prodotti o dei servizi medesimi, delle loro caratteristiche o della loro destinazione.

In tale questo caso, il marchio assume anche un contenuto informativo che, se opportunamente utilizzato e sfruttato, può orientare il pubblico ed il consumatore nella scelta tra più prodotti e servizi ed, in ogni caso, facilitare la collocazione ed il successo del prodotto o servizio sul mercato.

Trattasi, nel caso di specie, dei c.d. marchi espressivi ([10]) le cui registrazioni non sono necessariamente illegittime. Detti marchi possono, infatti, contenere elementi descrittivi ed elementi differenziatori, quali spesso suffissi e prefissi, che diversificano il marchio dai termini impiegati nel linguaggio comune.

Il problema della registrabilità dei marchi espressivi, nonostante il divieto di cui all’art. 13 c.p.i., viene spesso risolto dalla giurisprudenza adottando un criterio apparentemente univoco: la presenza di capacità distintiva, e quindi la validità di un marchio espressivo, sussiste in presenza di denominazioni generiche o indicazioni descrittive modificate (nella grafia, nel colore o nella fonetica) o combinate con altre parole in modo nuovo ed originale.

In molti casi il limite tra validità ed invalidità del segno è difficilmente individuabile e talora opinabile. Per tale motivo, i marchi espressivi vengono solitamente definiti marchi deboli, ossia, muniti di scarsa capacità distintiva, sebbene un marchio originariamente debole può sempre rafforzarsi con l’uso ed un’attenta tutela di esso ([11]).

Una particolare problematica riguarda l’applicazione dell’art. 13 c.p.i. con riferimento alle indicazioni sulla provenienza geografica di un prodotto. Ciò, in virtù del fatto che simili indicazioni contenute in un marchio possono essere direttamente o indirettamente descrittive del prodotto, ed in particolare, della qualità del medesimo. La questione riguarda specificatamente il settore agricolo e, più in generale, i prodotti alimentari o la produzione industriale e artigianale di prodotti tipici di un determinato territorio (si pensi alla pizza napoletana, agli orologi svizzeri, al prosciutto di Parma o al parmigiano Reggiano).

In questi casi, l’art. 13 c.p.i. ne vieta la registrabilità come marchi individuali; per contro il legislatore ne ammette la tutelabilità come marchi colletivi[12] ex art. 11 c.p.i.

Ovviamente, il problema della descrittività appena affrontato non si pone qualora il luogo di produzione non influenzi le caratteristiche di un determinato prodotto o servizio (si pensi alle cartiere Fabriano ed ai filati Tollegno). In tale ipotesi, il nome geografico è utilizzato in modo originale ed arbitrario ed il relativo marchio viene indubbiamente ritenuto di fantasia.

Diverso problema riguarda, invece, l’ipotesi in cui il nome geografico differisce da quello in cui risiede il produttore. In questo caso la legge (art. 14 c.p.i.) vieta la registrabilità solo qualora il marchio e l’uso del medesimo inganni il pubblico circa la provenienza, la natura o la qualità del prodotto (si pensi ipoteticamente al segno Milano come marchio per contraddistinguere profumi, articoli sportivi o sigari).

La Giurisprudenza ed il problema della rappresentazione grafica e della capacità distintiva dei marchi atipici

Con riferimento ai marchi atipici si riscontrano notevoli difficoltà nell’individuare, e conseguentemente verificare, la sussistenza dei requisiti della rappresentazione grafica e della capacità distintiva.

Per quanto concerne il requisito della rappresentazione grafica non presentano particolari problemi i marchi anticipi quali le forme dei prodotti ed i colori.

A tal riguardo, il Regolamento sul Marchio Comunitario stabilisce che un marchio tridimensionale di forma è rappresentabile mediante la riproduzione fotografica o grafica del marchio medesimo. Per contro, la rappresentazione del colore dovrà prevedere l’indicazione e la riproduzione del colore del segno oggetto del marchio.

In tema di rappresentazione grafica di marchi di colore, l’Ufficio per l’Armonizzazione del Mercato Interno (di seguito per brevità UAMI), l’ente competente per il rilascio dei marchi comunitari, si è orientato in passato respingendo la mera indicazione del colore, senza la relativa rappresentazione grafica (Commissione di Ricorso, 12.2.1998, R 7/97-3). Successivamente, nel noto caso Libertel (Corte di Giustizia 6 maggio 2003, C 104/01), la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha affermato che il requisito della rappresentazione grafica non è soddisfatto dalla mera riproduzione del colore nei documenti di deposito del marchio, ed è invece necessario identificare il colore per mezzo di un codice di identificazione internazionalmente riconosciuto (12).

Decisamente più problematica è la rappresentazione grafica dei marchi atipici quali i profumi, gli odori, i suoni ed i rumori. Ciò, a causa della loro intrinseca natura immateriale.

Numerose a tal riguardo sono state le decisioni degli organismi comunitari. In via del tutto generale la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha dettato il principio (Corte di Giustizia del 27 novembre 2003, nel noto caso Shield Mark C-283/01) che può essere registrato come marchio un segno che di per sé non è suscettibile di essere percepito visivamente, a condizione che possa essere oggetto di una rappresentazione grafica, in particolare mediante figure, linee o caratteri, che sia chiara, precisa, di per sé completa, facilmente accessibile, intelligibile, durevole ed oggettiva.

Quanto ai marchi sonori, e più precisamente a quelli musicali, la rappresentazione grafica può consistere nella riproduzione delle note musicali sul pentagramma. Nel caso Shield Mark, sopra citato, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha affermato che il segno sonoro costituente il marchio può essere rappresentato da un pentagramma diviso in battute in cui figurino, in particolare, una chiave, note musicali e pause la cui forma indichi il valore relativo ed, eventualmente, gli accidenti.

Decisamente più difficile è la rappresentabilità grafica del marchio rappresentato da un rumore, piuttosto che da un suono. Vi è da rilevare che recentemente l’UAMI ha concesso la registrazione come marchio comunitario del celebre “L’urlo di Tartan” (domanda depositata dagli eredi dello scrittore Edgar Rice Burroughs) mediante l’utilizzo del sistema dell’e-filing, ossia, tramite l’allegazione alla domanda di marchio di un file musicale.

Ed infatti, l’accoglimento della domanda di marchio comunitario “Urlo di Tartan” è stato possibile grazie all’intervenuta modifica della normativa UAMI che dal 2005 permette all’Ufficio di ricevere domande di marchi sonori con allegati file MP3.

Si ritiene che il medesimo sistema dell’e-filing possa nel futuro più prossimo essere applicato anche ai marchi olfattivi. Ciò grazie allo sviluppo di nuove tecnologie che permettono di trasmettere sensazioni olfattive via internet, sms, ecc.

In tema di marchi olfattivi, in passato l’UAMI ha avuto modo di pronunciarsi in termini decisamente contraddittori con riferimento a domande di marchio quali profumi ed odori.

In taluni casi l’UAMI ha ritenuto sufficiente la descrizione meramente verbale del profumo mediante l’uso di espressioni quali: "L’odore dell’erba appena tagliata" (per contraddistinguere palle da tennis), "Il profumo di lamponi" (per contraddistinguere carburanti e gasolio per autotrazione) e“L’odore di fragola matura” (per contraddistinguere prodotti cosmetici, di cartoleria e di pelletteria).

Secondo l’opinione UAMI queste espressioni e descrizioni meramente verbali sarebbero già di per se sufficienti per permettere agli interessati di ottenere un’idea immediata ed inequivocabile del segno distintivo che costituisce l’oggetto dal marchio.

Ciò con particolare riferimento a “L’odore dell’erba appena tagliata" sulla base del presupposto che trattasi nel caso di specie di un odore preciso, che ciascun individuo può immediatamente e facilmente desumere dalla propria esperienza.

I casi quali "L’odore dell’erba appena tagliata" non devono però essere ritenuti dei precedenti vincolanti poiché, di regola, l’UAMI non consente che un profumo possa essere rappresentato per mezzo di una mera descrizione verbale.

Decisamente restrittiva è stata infatti l’opinione espressa dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, nel caso Ralph Sieckermann (Corte di Giustizia del 12 dicembre 2002, C-273/00) la quale ha ritenuto che il requisito della rappresentabilità grafica di un marchio olfattivo non sia soddisfatto dall’enunciazione della sua formula chimica, o dalla descrizione verbale, o dal deposito di un campione del profumo o dell’odore, o da una combinazione di tali elementi.

Per quanto concerne invece il requisito della capacità distintiva applicato ai marchi atipici, si ricorda che il presupposto normativo è rinvenibile negli artt. 4 e 7 del Regolamento sul Marchio Comunitario i quali prevedono che l’UAMI non dovrà procedere alla registrazione come marchio di segni privi di carattere distintivo, ossia di segni che non siano idonei a distinguere i beni o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese.

Numerosissime sono state le decisioni UAMI, del Tribunale di Primo Grado e della Corte di Giustizia delle Comunità Europee in merito al carattere distintivo dei marchi di forma e della forma dei prodotti: il Tribunale di Primo Grado si è pronunciato in casi significativi che avevano quali parti Procter & Gamble, Glabervel, Axions, Daimler Chrysler, Nestlé Waters France, Unilever N.V., Deutsche SiSi-Werke mentre la Corte di Giustizia ha deciso il noto caso Philips - Remington (Corte di Giustizia del 18 giugno 2002, C-299/99).

Nella presente trattazione si omette volutamente l’esposizione delle molteplici problematicità legate alla capacità distintiva dei marchi di forma. Ci si limita in questa sede a precisare che secondo la giurisprudenza comunitaria un marchio di prodotto è in grado di distinguere i beni ai quali si riferisce, in particolare, se è sufficientemente originale, arbitrario o insolito.

Con riferimento invece ai marchi di colore, nel caso Libertel sopra citato, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha ritenuto che una tonalità di colore sia munita di capacità distintiva quando, avuto riguardo alla percezione del pubblico rilevante, il marchio sia suscettibile di identificare il prodotto o il servizio. Nel valutare la distintività di un colore, l’autorità competente per la registrazione del marchio dovrà tenere conto di tutte le circostanze del caso, ed in particolare dell’uso che sia stato fatto del marchio, così come dell’interesse generale che non venga indebitamente ristretta la disponibilità del colore per le altre imprese.

Conseguentemente, il colore possiede carattere distintivo se è insolito per i beni o servizi per i quali il marchio è depositato.

Decisamente più rari sono i casi che trattano approfonditamente della capacità distintiva dei segni olfattivi e sonori. Come sopra riportato, le decisioni dell’UAMI relative al marchio olfattivo "L’odore dell’erba appena tagliata" e “L’urlo di Tartan” hanno stabilito che detti marchi costituiscono segni del tutto particolari e, pertanto, muniti di intrinseca capacità distintiva.

Parimenti muniti di capacità distintiva sono stati ritenuti il colore “Magenta”, definito dal codice CTM 002534774, utilizzato nella “T” del logo della potente azienda di telecomunicazioni tedesca Deutsche Telekom e dalla tonalità blue/silver registrato da Red Bull per le lattine di bevande energetiche che si è attribuita la proprietà del CTM 002534774.

Pertanto, anche i marchi atipici devono avere un carattere distinto dai prodotti e debbono essere stabili. Questa relazione tra i prodotti ed il marchio deve essere costante e stabile nel corso del tempo, in modo tale che la scelta d’acquisto in relazione ad un marchio si svolga sempre nelle stesse condizioni.

Conclusioni

Le decisioni rese in sede comunitaria con riferimento ai requisiti di validità dei marchi atipici ha evidenziato di fatto l’impossibilità di attribuire a questi tipi di marchi la parità di trattamento con quelli più propriamente tradizionali. Le decisioni UAMI e le sentenze del Tribunale di Primo Grado e della Corte di Giustizia delle Comunità Europee dimostrano infatti che per i marchi atipici i requisiti della rappresentazione grafica e della capacità distintiva devono necessariamente essere valutati in modo del tutto peculiare ed a se stante. Se ad oggi le domande di marchi anticipi sono state ad appannaggio di poche e coraggiose imprese, le nuove tecnologie e le nuove modalità di deposito dei marchi permetteranno in futuro, di ampliare le possibilità di accoglimento di domande di marchi atipici e finalmente di attribuire a queste tipologie di marchi valore e dignità pari a quelli tradizionali. Ciò con evidenti ed interessanti ripercussioni nel mercato e nelle politiche pubblicitarie e di marketing delle imprese.



[1] Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee del 19 luglio 1989 – L’Italia ha dato attuazione alla Direttiva con il D.Lgs. n. 480/1992.

[2] Gazzetta Ufficiale Delle Comunità Europee del 14 gennaio 1994.

[3] In questo senso si è pronunziata anche la Corte di Giustizia Europea statuendo che “nell’applicare il diritto nazionale, il giudice nazionale deve interpretarlo quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva, al fine di conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi così all’art. 189, terzo comma, del Trattato CE” – cfr. sentenza CGE 11 luglio 2002 C-62/00, ma anche, CGE 5 marzo 2002 C-386/00; CGE 22 settembre 1998 C-185/97; CGE 20 marzo 1997 C-352/95; CGE del 13 novembre 1990 n. C-106/89; CGE del 10 aprile 1984 C-79/83 e CGE 10 aprile 1984 C-14/83.

[4] L’art. 3 della Direttiva Ce 89/104 utilizza i termini di “esclusione dalla registrazione” e “nullità”.

[5] La corrispondente disposizione della Direttiva 89/104 è l’art. 4.

[6] La lesione della fama del credito o del decoro sussiste tutte le volte in cui il nome è associato ad un prodotto volgare poco decoroso o anche semplicemente non confacente alla persona contraddistinta da tale nome.

[7] Anche la più recente giurisprudenza del Tribunale di Prima Istanza e della Corte di Giustizia Europea ha individuato sulla base della direttiva 89/104 ipotesi di mancanza di carattere distintivo diverse dalla descrittività.

[8] Art. 2: “Possono costituire marchi di impresa tutti i segni che possono essere riprodotti graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, la forma del prodotto o il suo confezionamento, a condizione che tali segni siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di una impresa da quelli di altre imprese”.

[9] Art. 3: «Sono esclusi dalla registrazione, o se registrati, possono essere dichiarati nulli: … b) i marchi di impresa privi di carattere distintivo; c) i marchi di impresa composti esclusivamente da segni o indicazioni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o servizio…».

[10] Si pensi ad esempio ai marchi Oransoda, Cotonelle, Fluimucil, Benagol.

[11]Altri casi relativi ai marchi di colore sono stati decisi dal Tribunale di Primo Grado delle Comunità Europee, quali KWS Saat (9.10. 2000, T-173/00), Viking (25.9.2002, T-316/00), Andreas Stihl (9.7.2003, T-234-01).

[11] In dottrina AA.VV. Diritto Industriale - Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2005; Vanzetti-Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano 2003.

[12] I marchi collettivi sono registrati da soggetti quali associazioni o consorzi di tutela che svolgono la funzione di “garanzia di provenienza” o di “qualità” di certi prodotti e sono concessi in uso a soggetti che si impegnano a rispettare nella loro attività determinati e talvolta rigidissimi capitolati produttivi (si pensi al marchio Parmigiano Reggiano).