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A Natale nessuna resa!

Il significato del dono
Il significato del dono

La scimmia che legge

Ogni volta che si avvicina il Natale, il cristiano si rende conto di essere in trincea. Durante il resto dell’anno infatti riesce ad illudersi di poter trovare, volendo solo cercare, una minuta fiamma d’amore per Cristo nel cuore di ognuno, tanto da potersi consolare considerando il cristianesimo come vivo e ardente sotto un sottile strato di cenere. Nel momento in cui però l’imponente macchina del natale commerciale si dispiega, quel sogno tiepido si spegne con violenza. Ciò che maggiormente lo mette sulla difensiva è la ricerca di senso: la società contemporanea, perlomeno quella occidentale, gli appare come sinceramente impegnata nel trovare uno scopo ad una festività di cui rammenta la bellezza ignorandone la natura. Quei tentativi, più o meno goffi, che cercano di riscrivere la trama del Natale scaturiscono difatti non dai machiavellici piani di una diabolica cerchia, ma dalla diffusa ignoranza circa la causa di una gioia di cui ben chiaramente si rammenta il tepore.

Una simile consapevolezza è disarmante; è infatti segno di un vero analfabetismo spirituale che, lungi dal portare ad un umile cammino di conversione, spinge l’infantile ego contemporaneo a leggere un testo di cui comprende solo sparute parole. Di fronte a questa desolazione il cristiano, posto appunto sulla difensiva, cerca di definire quella coscienza religiosa del Natale che costituisce il suo vallo. Nello spogliare quindi la festa, almeno nel suo cuore, di tutto ciò che non è direttamente spirituale, il credente finisce per scorgere nelle luci festose e nei gioiosi doni i segni di un feroce assalto.  

 

Le due metà della notte

Ecco che quindi si viene a creare una situazione paradossale: sia credenti che non credenti concordano nel riconoscere l’esistenza di due festività differenti: il Santo Natale, nutrito e consapevole dei beni spirituali ricevuti nella fede, ed il natale commerciale, visto solo come un ventre gonfio in un parco di luci. Questo, come tutti i dualismi, si nutre ovviamente della contrapposizione delle parti, tanto che se il non credente rifiuta il senso spirituale, in virtù dei suoi propri limiti, il credente si sente in dovere di rifiutare i segni materiali della festa.

Questo rifiuto, intendiamoci bene, non consiste in un abbandono fisico di tali segni, bensì in una loro sottovalutazione e riduzione che li racchiude fra una condiscendente tolleranza ed una sospettosa sorveglianza. I doni in particolare, in quanto visti come radice malata del natale commerciale, sono spesso ridotti ad essere considerati come una simpatica tradizione che, se non eliminabile, deve perlomeno essere ben distinta dal reale senso spirituale.

Vi sarete resi conto che le due posizioni che ho delineato a tinte così nette hanno un valore esclusivamente esplicativo: la realtà vive invece di sfumature e rifugge gli schemi rigidi. Per questo, a mio modo di vedere, il vero problema che soggiace a questa situazione, celato dalla foschia delle scelte concrete, rischia di non essere scorto. In verità la sua natura è palese, poiché fondata su quella fra le due parti che per prima finì per definirsi rispetto all’altra. Quando infatti alcuni si trovarono nel desiderio di vivere una festa della quale non condividevano i fondamenti,  compirono un atto di violenza che li portò a strappare un aspetto dalla totalità. E mentre il triste orrore del natale commerciale nasceva da quei segni fisici spogliati di senso, il Santo Natale veniva, per reazione, spogliato dell’apporto che la materia sempre dà alla totalità della sostanza.

 

Riconquista

Il cristiano che non cogliesse più l’apporto dei doni, come degli altri segni fisici della festa, avrebbe implicitamente riconosciuto la validità della scissione da essa subita. Questa appare quindi come una sorta di resa che, implicitamente, ammette di non poter riconquistare i regali al loro vero senso spirituale e si contenta di abbandonare quelli nelle nebbia dell’anima e la festa negli ondivaghi luoghi dello spirito.

Contro questo improvvido armistizio, ispirate appaiono le parole del cardinale Giacomo Biffi, pronunciate durante l’omelia della messa della notte di Natale del 1989[1]. Egli, parlando dei doni, ne da due letture: prima di tutto afferma che sono “[…] una consuetudine gentile, che manifesta il nostro desiderio di rinsaldare i vincoli di affetto e di amicizia con le persone che amiamo e la nostra volontà di accrescere, in occasione del Natale di Cristo, la letizia dei nostri cari”; in seguito, approfondendo l’analisi, prosegue dicendo che “[…], la cultura cristiana ricorda in questo modo concreto e eloquente che questi sono i giorni del grande dono che il cielo ha fatto alla terra, […][2].

Con queste poche parola il cardinal Biffi ci ricorda una semplicissima realtà: il regalo non è altro che una parola d’amore e, in quanto tale, da un lato testimonia la relazione fra amante ed amato, dall’altro rammenta all’amante di essere a sua volta amato e quindi ricevente oltre che donante. Il dono del cristiano quindi non deve essere né esclusivamente spirituale, come se il contatto con la materialità affievolisse o spirito, né un segno di condiscendenza verso gli usi di gente meno elevata. Deve invece farsi parola d’amore che, nella sua concretezza, radica nel reale quella gioia e quei benefici che troppo facilmente smarriamo nella vaghezza dei nostri pensieri.

Vivendo così il regalo, il fedele non solo lo purificherà con sorprendente facilità da ogni scoria consumistica, ma renderà vero e sincero omaggio a quel Dio che, nell’amarci, ci ha fatto dono della totalità di Sé nella corporeità di Suo Figlio Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo.

 

[1]L’omelia in questione fu edita per la prima volta nel Bollettino dell’Archidiocesi di Bologna, LXXX, 11\1989, pp. 423-425.

[2] Per entrambe le citazioni cfr Giacomo Biffi, Un Natale vero?, ESD, Bologna 2006, p. 53.

Letture consigliate:

Giacomo Biffi, Un Natale vero?, ESD, Bologna 2006.