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Domain name - Cassazione Civile: il diritto del titolare del marchio non rinomato non sempre prevale sul titolare dell’identico nome a dominio

Domain name - Cassazione Civile: il diritto del titolare del marchio non rinomato non sempre prevale sul titolare dell’identico nome a dominio
Domain name - Cassazione Civile: il diritto del titolare del marchio non rinomato non sempre prevale sul titolare dell’identico nome a dominio

Premessa

Il titolare del marchio previamente registrato non può vietare di per sé l’uso del segno distintivo in qualsiasi forma, e quindi anche come domain name, ove non sussista la confondibilità dei prodotti o servizi.

Lo ha stabilito una recentissima sentenza della Corte di Cassazione, che si è espressa sul delicato tema dei rapporti tra marchio e nome a dominio e, in particolare, sui diritti del titolare del marchio anteriormente registrato nei confronti del nome a dominio corrispondente al marchio registrato, in assenza di un rischio di confusione quanto ai prodotti/servizi.

 

Le argomentazioni del ricorrente

Il ricorrente, titolare del marchio anteriormente registrato, si rivolge alla Corte con l’intento di vedere accolte le proprie ragioni, volte ad ottenere:

- il riconoscimento del proprio diritto di proprietà assoluta del segno in ambito Internet, “nel quale non è possibile la contitolarità”, con la precisazione che “in caso di marchi registrati identici l’uso esclusivo spetta a chi ha utilizzato per primo il segno”;

- il riconoscimento dell’illiceità dell’uso del nome a dominio identico ad un precedente marchio, quale usurpazione di un bene altrui, quando da tale uso possa derivare un rischio di associazione nel pubblico fra i titolari dei rispettivi segni per il fatto che “per il primo titolare del marchio è impossibile l’utilizzo del proprio originario segno su Internet.

 

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte, sulla base della disciplina e dei principi posti a fondamento dei marchi di impresa, non accoglie i motivi proposti dal ricorrente, ritenendoli infondati.

 

Le argomentazioni della Corte si basano essenzialmente sulla valenza del principio di specialità e sulla necessità che, per effetto del contestuale uso dei segni – qualora, come nel caso di specie, non risulti provata la rinomanza del marchio – si determini un rischio di confusione, per giustificare l’operatività dell’esclusiva del titolare del segno anteriore.

I Giudici di legittimità fondano le proprie statuizioni richiamando i rilievi contenuti in precedenti pronunce della stessa Corte, volte ad evidenziare la necessità che il giudizio di identità/confondibilità costituisca l’esito di un esame congiunto tra segni e tra prodotti/servizi in quanto, come correttamente rilevato, i giudizi volti ad accertare l’identità o confondibilità tra segni e tra prodotti “non possono essere considerati tra loro indipendenti  costituiscono entrambi strumenti che consentono di accertare la cosiddetta “confondibilità tra impese””.

Inoltre, quanto all’affinità tra prodotti/servizi, la Corte ribadisce il proprio orientamento, in base al quale devono intendersi affini “quei prodotti che per la loro natura, la loro destinazione alla medesima clientela o alla soddisfazione del medesimo bisogno, risultano in maniera rilevante fungibili e pertanto in concorrenza, con l’ulteriore precisazione che “l’inclusione di due prodotti nella stessa classe non è idonea a provarne l’affinità, così come, al contrario, non può l’affinità essere esclusa per il fatto che due prodotti siano indicati in classi diverse”.

Il ragionamento della Corte è ineccepibile e richiama gli elementi ed il percorso logico e giuridico che devono essere posti a fondamento nella valutazione dei casi di conflitto in questione, in assenza di adeguata prova della rinomanza del marchio.

Ai fini della definizione della controversia, quindi, per la Corte “il titolare del marchio anteriormente registrato non può vietare di per sé l’uso del segno distintivo in qualsiasi forma e quindi anche come domain name, ove non sussista la confondibilità dei prodotti o servizi”.

 

Le motivazioni della Cassazione in merito alla presunta concorrenza sleale

Le doglianze del ricorrente, infine, non convincono la Corte nemmeno dal punto di vista dell’ulteriore angolazione della concorrenza sleale (né convincono le argomentazioni che ritengono sussistente la tutela ultramerceologica “anche quando vi sia identità locale e di pubblico interessato”).

A questo riguardo, infatti, la Corte, nel richiamare la stessa giurisprudenza citata dal ricorrente a fondamento delle proprie ragioni, puntualizza quanto segue:

- la semplice esistenza di un rischio di associazione in senso stretto non consente di presumere l’esistenza di un rischio di confusione, “essendo necessario l’accertamento positivo dell’esistenza di un rischio di confusione, il quale costituisce l’oggetto della prova da produrre”;

- la comunanza di clientela deve essere verificata, anche in via potenziale, “avuto riguardo all’insieme dei soggetti che avvertono il medesimo bisogno di mercato e si rivolgono quindi a tutti i prodotti idonei a soddisfare i bisogni.

Infine, con specifico riferimento all’illecito concorrenziale lamentato dal ricorrente, la Corte evidenzia la necessità che venga fornita la prova della sussistenza di una situazione di concorrenzialità, “derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune e, quindi, la comunanza di clientela”, costituita dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato.

(Corte di Cassazione - Prima Sezione Civile, Sentenza 21 giugno - 18 agosto 2017, n. 20189)