Non basta la domanda ma occorre la registrazione del marchio per sanzionare i delitti di cui agli articoli 473 e 474 del Codice Penale
La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha affermato che l’avvenuta registrazione del marchio o del segno distintivo rappresenta una condizione imprescindibile affinchè venga assicurata la “tutela penale dei marchi o degli altri segni distintivi”.
Infatti, la Cassazione, sulla scorta di un pregresso orientamento ermeneutico e dottrinale, ha rilevato che, con la riforma introdotta dalla legge n. 99/2009 (la quale ha posto, come condizione di punibilità per i reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p., “che siano state osservate le norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale”), si è “inteso ratificare la giurisprudenza che richiedeva, per la tutela penale, l’avvenuta registrazione del marchio o del segno, non bastando la semplice domanda” posto che si può conoscere “solo un titolo già rilasciato mentre la semplice richiesta dello stesso non dà luogo di per sé alla garanzia dell’esito positivo della avviata procedura amministrativa”.
Inoltre, tale opzione interpretativa è stata ritenuta corretta anche alla luce della voluntas legislatoris dato che non risulta “dall’andamento dei lavori preparatori, che il legislatore avesse manifestato in modo chiaro una volontà diversa da quella risultante dalla lettera della legge così come promulgata”; circostanza questa puntualmente rilevata anche dalla dottrina la quale ha osservato, allo stesso modo, che la volontà del legislatore abbia ribadito “l’applicabilità di questa norma esclusivamente ai marchi e ai brevetti già concessi”[1] sicchè la norma definitivamente approvata richiede la sola conoscibilità del «titolo» - che si acquista con la brevettazione e la registrazione”[2].
In effetti, sostiene questa letteratura scientifica, il disegno di legge n. 1195, nella sua formulazione originaria, prevedeva “che, fermo il rispetto della normativa nazionale e internazionale di riferimento, le disposizioni incriminatrici di cui ai primi due commi dell’art. 473 c.p. si sarebbero dovute applicare «sin dal momento del deposito delle domande di registrazione o di brevetto”[3] mentre, invece, questa parte del comma terzo dell’art. 473 c.p. è stata poi espunta dal “testo definitivo”[4].
Né può ritenersi, ritornando al ragionamento intrapreso della Corte, “che il citato inciso, formulato testualmente con riferimento alla posizione del contraffattore materiale del marchio, non estendesse la propria efficacia, limitatrice dell’operatività del precetto, alla posizione, menzionata nello stesso comma della norma e rilevante per il caso di specie, dell’utilizzatore del marchio contraffatto” atteso che “anche per la fattispecie di cui all’articolo 474 cod. pen. in cui la citata novella della legge 99/2009 ha inciso il terzo comma, secondo il quale "i delitti previsti dai commi primo e secondo sono punibili a condizione che siano state osservate le norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale"”.
Ciò premesso, tale approdo ermeneutico è condivisibile sicchè si allinea (come sinteticamente suesposto) lungo il solco di un precedente orientamento nomofilattico secondo il quale “per la configurabilità dei delitti contemplati dai precedenti commi del medesimo articolo è necessario che il marchio o il segno distintivo, di cui si assume la falsità, sia stato depositato, registrato o brevettato nelle forme di legge all’esito della prevista procedura, sicché la falsificazione dell’opera dell’ingegno può aversi soltanto se essa sia stata formalmente riconosciuta come tale”[5] “poichè la tutela penale dei marchi o dei segni distintivi delle opere dell’ingegno o di prodotti industriali è finalizzata alla garanzia dell’interesse pubblico preminente della fede pubblica”[6].
Del resto, pur a fronte di un diverso filone interpretativo secondo il quale, al contrario, da un lato, è “sufficiente la presentazione della domanda di registrazione o brevetto a far scattare la protezione penale del marchio, perché già da tale momento si rende formalmente conoscibile il modello e possibile la sua illecita riproduzione”[7], dall’altro lato, questa “forma di tutela anticipata del segno distintivo sussiste anche dopo l’entrata in vigore della nuova normativa in materia di marchi introdotta dalla l. n. 99 del 2009, la cui ratio è quella di garantire una risposta repressiva più efficace al fenomeno della contraffazione anche con l’esplicita osservanza della normativa comunitaria”[8], è preferibile, ad umile avviso di chi scrive, il primo percorso ermeneutico[9].
Infatti, la riforma su emarginata, nel condizionare, come già rilevato in precedenza, la punibilità degli autori dei delitti di cui all’art. 473 e 474 c.p. all’osservanza delle “norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale”, richiede che il procedimento, volto ad ottenere la registrazione di marchi o segni distintivi, nazionali o esteri, di prodotti industriali, si sia concluso.
Orbene, posto che detto procedimento è assai articolato e complesso, non è detto che la domanda proposta venga necessariamente accolta.
In effetti, come è noto, il Codice della proprietà industriale (di seguito indicato con la dicitura C.p.i.), introdotto con il decreto legislativo, 10/02/05, n. 30, prevede una serie di limitazioni per la registrazioni dei marchi, segni e prodotti industriali.
A titolo meramente esemplificativo, si riportano le seguenti norme giuridiche:
1) l’art. 9 C.p.i. secondo cui: non possano “costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni costituiti esclusivamente dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto, dalla forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico, o dalla forma che dà un valore sostanziale al prodotto”;
2) l’art. 10, co. I, C.p.i. ai sensi del quale: gli “stemmi e gli altri segni considerati nelle convenzioni internazionali vigenti in materia, nei casi e alle condizioni menzionati nelle convenzioni stesse, nonché i segni contenenti simboli, emblemi e stemmi che rivestano un interesse pubblico non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa, a meno che l’autorità competente non ne abbia autorizzato la registrazione”;
3) l’art. 12 C.p.i., co. I che prevede come non possano “costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni che alla data del deposito della domanda:
a) siano identici o simili ad un segno gia’ noto come marchio o segno distintivo di prodotti o servizi fabbricati, messi in commercio o prestati da altri per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identita’ o somiglianza tra i segni e dell’identita’ o affinità fra i prodotti o i servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che puo’ consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni. Si considera altresì noto il marchio che ai sensi dell’articolo 6-bis della Convenzione di Parigi per la protezione della proprieta’ industriale, testo di Stoccolma 14 luglio 1967, ratificato con legge 28 aprile 1976, n. 424, sia notoriamente conosciuto presso il pubblico interessato, anche in forza della notorietà acquisita nello Stato attraverso la promozione del marchio. L’uso precedente del segno, quando non importi notorietà di esso, o importi notorietà puramente locale, non toglie la novità, ma il terzo preutente ha diritto di continuare nell’uso del marchio, anche ai fini della pubblicità, nei limiti della diffusione locale, nonostante la registrazione del marchio stesso. L’uso precedente del segno da parte del richiedente o del suo dante causa non e’ di ostacolo alla registrazione; b) siano identici o simili a un segno gia’ noto come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio usato nell’attivita’ economica, o altro segno distintivo adottato da altri, se a causa della identità o somiglianza fra i segni e dell’identita’ o affinità fra l’attivita’ d’impresa da questi esercitata ed i prodotti o servizi per i quali il marchio e’ registrato possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che puo’ consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni. L’uso precedente del segno, quando non importi notorietà di esso, o importi notorietà puramente locale, non toglie la novità. L’uso precedente del segno da parte del richiedente o del suo dante causa non e’ di ostacolo alla registrazione;
c) siano identici ad un marchio gia’ da altri registrato nello Stato o con efficacia nello Stato in seguito a domanda depositata in data anteriore o avente effetto da data anteriore in forza di un diritto di priorità o di una valida rivendicazione di preesistenza per prodotti o servizi identici;
d) siano identici o simili ad un marchio gia’ da altri registrato nello Stato o con efficacia nello Stato, in seguito a domanda depositata in data anteriore o avente effetto da data anteriore in forza di un diritto di priorita’ o di una valida rivendicazione di preesistenza per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identita’ o somiglianza fra i segni e dell’identità’ o affinità fra i prodotti o i servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
e) siano identici o simili ad un marchio gia’ da altri registrato nello Stato o con efficacia nello Stato, in seguito a domanda depositata in data anteriore o avente effetto da data anteriore in forza di un diritto di priorita’ o di una valida rivendicazione di preesistenza per prodotti o servizi anche non affini, quando il marchio anteriore goda nella Comunità, se comunitario, o nello Stato, di rinomanza e quando l’uso di quello successivo senza giusto motivo trarrebbe indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del segno anteriore o recherebbe pregiudizio agli stessi;
f) siano identici o simili ad un marchio gia’ notoriamente conosciuto ai sensi dell’articolo 6-bis della Convenzione di Parigi per la protezione della proprieta’ industriale, per prodotti o servizi anche non affini, quando ricorrono le condizioni di cui alla lettera e)”;
4) l’art. 13, co. I, C.p.i. ai sensi del quale: non “possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni privi di carattere distintivo e in particolare:
a) quelli che consistono esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio;
b) quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio”.
5) l’art. 14 C.p.i. secondo cui: non “possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa:
a) i segni contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume;
b) i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi;
c) i segni il cui uso costituirebbe violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale o altro diritto esclusivo di terzi”;
6) l’art. 19, co. II, C.p.i. che statuisce come non possa “ottenere una registrazione per marchio di impresa chi abbia fatto la domanda in mala fede”;
7) l’art. 31, co. I, C.p.i. secondo il quale: non possono “costituire oggetto di registrazione come disegni e modelli l’aspetto dell’intero prodotto o di una sua parte quale risulta, in particolare, dalle caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori, della forma, della struttura superficiale ovvero dei materiali del prodotto stesso ovvero del suo ornamento, a condizione che siano nuovi ed abbiano carattere individuale”;
8) l’art. 36, co. I, C.p.i. che dispone come non possano “costituire oggetto di registrazione come disegni o modelli quelle caratteristiche dell’aspetto del prodotto che sono determinate unicamente dalla funzione tecnica del prodotto stesso”.
Ebbene, viste queste numerose condizioni legali ostative e rilevato che, come da espresso statuizione normativa, una domanda presentata potrebbe essere anche “in mala fede”[10], è evidente che questa istanza, in quanto tale, non garantisce di per sè la registrazione del prodotto industriale oggetto della richiesta.
D’altronde, se il bene giuridico tutelato da queste norme incriminatrici consiste nel proteggere la “la "pubblica fede" in senso oggettivo, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi che individuano le opere dell’ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione”[11] e, se l’uso di marchi e segni distintivi è punito dall’art. 473 c.p. solo qualora siano violate le norme giuridiche “sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale”, è palese che tale bene potrà ritenersi davvero leso solo laddove la domanda, tesa ad ottenere la registrazione, venga accolta e non semplicemente presentata.
Invero, come sostenuto da parte della letteratura scientifica, “affidare la tutela penale dei marchi registrati ma non ancora utilizzati agli artt. 473 e 474 c.p. non sembra corretto perché si tratta evidentemente di casi in cui parlare di inganno della fede pubblica richiederebbe un’astrazione assoluta del concetto, che si tradurrebbe in sostanza in una pura finzione”[12].
Del resto, neanche la registrazione, in quanto tale, può determinare sempre la configurabilità di questi illeciti penali.
Infatti, una volta che i marchi o segni distintivi vengono registrati, è necessario altresì appurare se ricorrano cause estintive tali da ritenerli non più oggetto di tutela.
In altri termini, si tratta di verificare se il soggetto titolare di un data marchio (o altro prodotto industriale) registrato sia decaduto da quel diritto.
Ad esempio, l’art. 13, co. IV, C.p.i. stabilisce che il “marchio decade se, per il fatto dell’attività o dell’inattività del suo titolare, sia divenuto nel commercio denominazione generica del prodotto o servizio o abbia comunque perduto la sua capacità distintiva”; l’art. 14, co. II, C.p.i., a sua volta, prevede che il marchio d’impresa decade:
a) se sia divenuto idoneo ad indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa di modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali è registrato;
b) se sia divenuto contrario alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume;
c) per omissione da parte del titolare dei controlli previsti dalle disposizioni regolamentari sull’uso del marchio collettivo”;
l’art. 26, co. I, C.p.i., dal canto suo, dispone che il marchio decade: “a) per volgarizzazione ai sensi dell’articolo 13, comma 4; b) per illiceità sopravvenuta ai sensi dell’articolo 14, comma 2;c) per non uso ai sensi dell’articolo 24”;
l’art. 113, co. I, C.p.i., al contempo, statuisce che il “diritto di costitutore decade quando viene accertato che le condizioni relative alla omogeneità e alla stabilità non sono più effettivamente soddisfatte”.
Analoga conseguenza ricorre qualora il titolare non ne faccia “uso effettivo”[13] ossia, allorchè la durata per la protezione sia scaduta e il titolare non abbia chiesto la proroga[14] ovvero, nei casi in cui, il titolo di privativa non possa essere rinnovato e il periodo di concessione sia scaduto[15].
Inoltre, un’altra valutazione da compiersi, una volta appurato che la registrazione è stata compiuta ed non ricorrono ipotesi di decadenza, è quella di stabilire se il soggetto che abbia fatto uso del marchio (o segno distintivo), ne abbia fatto un uso consentito posto che il titolare della c.d. privativa non ha sempre un diritto all’utilizzo esclusivo ed incondizionato.
A tal proposito, si richiamano le seguenti disposizioni legislative:
I) art. 42, co. I, C.p.i. secondo cui: i “diritti conferiti dalla registrazione del disegno o modello non si estendono:
a) agli atti compiuti in ambito privato e per fini non commerciali;
b) agli atti compiuti a fini di sperimentazione;
c) agli atti di riproduzione necessari per le citazioni o per fini didattici, purché siano compatibili con i principi della correttezza professionale, non pregiudichino indebitamente l’utilizzazione normale del disegno o modello e sia indicata la fonte”,
prevedendo, al contempo, al comma II, che i “diritti esclusivi conferiti dalla registrazione del disegno o modello non sono esercitabili riguardo:
a) all’arredo e alle installazioni dei mezzi di locomozione navale e aerea immatricolati in altri Paesi che entrano temporaneamente nel territorio dello Stato;
b) all’importazione nello Stato di pezzi di ricambio e accessori destinati alla riparazione dei mezzi di trasporto di cui alla lettera a);
c) all’esecuzione delle riparazioni sui mezzi di trasporto predetti”;
II) art. 68, co. I, C.p.i. ai sensi del quale: la “facoltà esclusiva attribuita dal diritto di brevetto non si estende, quale che sia l’oggetto dell’invenzione:
a) agli atti compiuti in ambito privato ed a fini non commerciali, ovvero in via sperimentale;
b) agli studi e sperimentazioni diretti all’ottenimento, anche in paesi esteri, di un’autorizzazione all’immissione in commercio di un farmaco ed ai conseguenti adempimenti pratici ivi compresi la preparazione e l’utilizzazione delle materie prime farmacologicamente attive a ciò strettamente necessarie;
c) alla preparazione estemporanea, e per unità, di medicinali nelle farmacie su ricetta medica, e ai medicinali così preparati, purché non si utilizzino principi attivi realizzati industrialmente”.
Tra l’altro, la stessa Corte di Cassazione, seppur con un orientamento non consolidato, nel dichiarare che spetta “al giudice penale decidere in via incidentale sulla validità o meno di un marchio, registrato sia in sede comunitaria che nazionale, quando la questione assuma rilevanza ai fini della qualificazione giuridica del fatto oggetto dell’imputazione”[16], lascia chiaramente intendere che la verifica, circa l’esistenza di un marchio registrato, validamente da tutelare ai fini del giudizio de quo (e quindi, per un verso, non decaduto e usato effettivamente, per un altro verso, leso nel suo uso conferito in via esclusiva), è fondamentale per verificare la sussistenza dei delitti di cui agli artt. 473 e 474 c.p. .
Peraltro, tale valutazione decisoria richiede anche un giudizio prognostico volto a “stabilire il livello della capacità imitativa del marchio, ovvero se si sia in presenza di un falso punibile o grossolano o comunque se sussista pericolo di confusione per l’acquirente”[17].
Oltre a ciò, seppur per un specifico modello industriale (ovvero le topografie dei prodotti a semiconduttori), il legislatore ha espressamente tipizzato una ipotesi di contraffazione statuendo per l’appunto che costituisce atto di contraffazione e di violazione dei diritti esclusivi sulle topografie dei prodotti a semiconduttori “l’esercizio, senza il consenso del titolare, delle seguenti attivita’, anche per interposta persona:a) la riproduzione in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo della topografia; b) la fissazione con qualsiasi mezzo della topografia in un prodotto a semiconduttori;c) l’utilizzazione, l’importazione e la detenzione a fini di commercializzazione, nonché la commercializzazione o distribuzione del prodotto a semiconduttori in cui e’ fissata la topografia”[18] escludendone la sussistenza, viceversa, nel caso di importazione, distribuzione, commercializzazione o l’utilizzazione di prodotti a semiconduttori contraffatti, “effettuati senza sapere o senza avere una ragione valida di ritenere l’esistenza dei diritti esclusivi di cui all’articolo 90”[19].
Tale previsione legislativa, dunque, oltre a rappresentare un idoneo parametro valutativo che il giudice potrà avvalersi per accertare l’esistenza di questa modalità delittuosa, evidenzia che il soggetto imputato per reati di questo tipo, debba essere consapevole di violare un diritto altrui dato che la conoscibilità del titolo rileva “comunque ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico del reato”[20].
Da ultimo, anche per quanto concerne i marchi o i segni distintivi riconosciuti in sede comunitaria, la Cassazione, successivamente all’entra in vigore della legge n. 99/09, ha stabilito che un “marchio rilasciato dall’autorità comunitaria preposta a valutare domande di protezione di beni di proprietà industriale, deve comunque rispettare, a norma dell’art. 53 del Regolamento CE 207/2009 del Consiglio, i diritti anteriori, discendenti dalla normativa nazionale, anche in base al diritto al nome, attribuendo così rilevanza al suindicato art. 8 CPI, comma 3”[21] dato che la registrazione non può “essere sottratta al vaglio sulla validità del giudice nazionale”[22].
Difatti, seppur in relazione allo specifico istituto del brevetto europeo, i Giudici di “Piazza Cavour” hanno rilevato che questa privativa “non sottrae la frazione nazionale al sindacato di validità alla luce della normativa interna”[23] posto che, se un “determinato ritrovato per il diritto interno può trovare protezione come modello di utilità, alla scadenza del termine di durata stabilito per la protezione di un simile modello, l’ottenimento del brevetto europeo non può essere strumento per superarne i limiti di durata, a meno che nel trovato non siano presenti tutti i requisiti che consentono di affermarne la validità anche come brevetto per invenzione, secondo la normativa nazionale”[24].
Tornando a trattare la decisione in commento, questo decisum è sicuramente apprezzabile perché è palese l’attenzione degli Ermellini volta a circoscrivere il margine di applicabilità delle norme de quibus (in consonanza alla normativa interna e a quella comunitaria).
Di talchè ne consegue come la linea interpretativa, tracciata nel provvedimento in esame, sia preferibile (rispetto all’altra) siccome, da un lato, particolarmente aderente al dato testuale degli artt. 473 e 474 c.p. così come novellato dalla legge n. 99 del 2009, dall’altro lato, decisamente rispettosa dei principi fondamentali di tipicità e della tassatività.
Del resto, non vi sarebbe nemmeno una sorta di spazio immune (ed impunito) da censure penali dato che, come giustamente rilevato anche dalla Corte in quella occasione, vi sono altre norme incriminatrici che possono essere invocate anche per i prodotti non registrati quale quello applicato nel caso di specie (l’art. 517 c.p.); per giunta, al di là del caso in questione, basta menzionare, a titolo meramente esemplificativo, l’art. 4, comma 49-bis della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Finanziaria per il 2004)[25] o ancora, l’art. comma 7, della l. 14 maggio 2005, n. 80[26] entrambi volti a tutelare, seppur in forme diverse, la proprietà intellettuale.
[1] Pier Luigi Roncaglia, “La nuova tutela penale dei titoli di proprietà industriale”, Riv. Dir. ind., 2010, 4-5, 195.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cass. pen., sez. V, 12/04/12, n. 25273.
[6] Ibidem.
[7] Cass. pen., sez. II, 20/11/09, n. 4217.
[8] Ibidem.
[9] Oltre a quelle già illustrate dalla Cassazione nella decisione in argomento a cui si rinvia integralmente.
[10] Ex art. 19, co. II, C.p.i. .
[11] Cass. pen., sez. II, 27/04/12, n. 28423.
[12] Pier Luigi Roncaglia, “La nuova tutela penale dei titoli di proprietà industriale”, Riv. Dir. ind., 2010, 4-5, 195.
[13] Art. 24, co. I, C.p.i. .
[14] Art. 37, co. I, C.p.i. .
[15] Art. 60, co. I, C.p.i. .
[16] Cass. pen., sez. V, 21/09/10, n. 43515. Contra, Cass. pen., sez. II, 20/11/09, n. 4217: “Il presupposto cautelare del "fumus commissi delicti" nei procedimenti per i reati di contraffazione e alterazione di marchi o segni distintivi è configurabile, in fase cautelare, ove questi ultimi risultino depositati, registrati o brevettati nelle forme di legge, non richiedendosi alcuna indagine in ordine alla loro validità sostanziale”.
[17] Cass. pen., sez. V, 26/04/06, n. 19512.
[18] Art. 95, co. I, C.p.i. .
[19] Art. 95, co. II, C.p.i. .
[20] Pier Luigi Roncaglia, “La nuova tutela penale dei titoli di proprietà industriale”, Riv. Dir. ind., 2010, 4-5, 195.
[21] Cass. pen., sez. V, 21/09/10, n. 43515.
[22] Cass. pen., sez. I, 14/10/09, n. 21835.
[23] Ibidem.
[24] Ibidem.
[25] Il quale prevede che “costituisce fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto. Per i prodotti alimentari, per effettiva origine si intende il luogo di coltivazione o di allevamento della materia prima agricola utilizzata nella produzione e nella preparazione dei prodotti e il luogo in cui e’ avvenuta la trasformazione sostanziale. Il contravventore e’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 250.000”.
[26] Tale norma, infatti, recita quanto segue: «Salvo che il fatto costituisca reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria fino a € 10.000 l’acquisto o l’accettazione, senza averne prima accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale. La sanzione di cui al presente comma si applica anche a coloro che si adoperano per fare acquistare o ricevere a qualsiasi titolo alcune delle cose suindicate, senza averne prima accertata la legittima provenienza. In ogni caso si procede alla confisca amministrativa delle cose di cui al presente comma. Restano ferme le norme di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70”).
La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha affermato che l’avvenuta registrazione del marchio o del segno distintivo rappresenta una condizione imprescindibile affinchè venga assicurata la “tutela penale dei marchi o degli altri segni distintivi”.
Infatti, la Cassazione, sulla scorta di un pregresso orientamento ermeneutico e dottrinale, ha rilevato che, con la riforma introdotta dalla legge n. 99/2009 (la quale ha posto, come condizione di punibilità per i reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p., “che siano state osservate le norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale”), si è “inteso ratificare la giurisprudenza che richiedeva, per la tutela penale, l’avvenuta registrazione del marchio o del segno, non bastando la semplice domanda” posto che si può conoscere “solo un titolo già rilasciato mentre la semplice richiesta dello stesso non dà luogo di per sé alla garanzia dell’esito positivo della avviata procedura amministrativa”.
Inoltre, tale opzione interpretativa è stata ritenuta corretta anche alla luce della voluntas legislatoris dato che non risulta “dall’andamento dei lavori preparatori, che il legislatore avesse manifestato in modo chiaro una volontà diversa da quella risultante dalla lettera della legge così come promulgata”; circostanza questa puntualmente rilevata anche dalla dottrina la quale ha osservato, allo stesso modo, che la volontà del legislatore abbia ribadito “l’applicabilità di questa norma esclusivamente ai marchi e ai brevetti già concessi”[1] sicchè la norma definitivamente approvata richiede la sola conoscibilità del «titolo» - che si acquista con la brevettazione e la registrazione”[2].
In effetti, sostiene questa letteratura scientifica, il disegno di legge n. 1195, nella sua formulazione originaria, prevedeva “che, fermo il rispetto della normativa nazionale e internazionale di riferimento, le disposizioni incriminatrici di cui ai primi due commi dell’art. 473 c.p. si sarebbero dovute applicare «sin dal momento del deposito delle domande di registrazione o di brevetto”[3] mentre, invece, questa parte del comma terzo dell’art. 473 c.p. è stata poi espunta dal “testo definitivo”[4].
Né può ritenersi, ritornando al ragionamento intrapreso della Corte, “che il citato inciso, formulato testualmente con riferimento alla posizione del contraffattore materiale del marchio, non estendesse la propria efficacia, limitatrice dell’operatività del precetto, alla posizione, menzionata nello stesso comma della norma e rilevante per il caso di specie, dell’utilizzatore del marchio contraffatto” atteso che “anche per la fattispecie di cui all’articolo 474 cod. pen. in cui la citata novella della legge 99/2009 ha inciso il terzo comma, secondo il quale "i delitti previsti dai commi primo e secondo sono punibili a condizione che siano state osservate le norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale"”.
Ciò premesso, tale approdo ermeneutico è condivisibile sicchè si allinea (come sinteticamente suesposto) lungo il solco di un precedente orientamento nomofilattico secondo il quale “per la configurabilità dei delitti contemplati dai precedenti commi del medesimo articolo è necessario che il marchio o il segno distintivo, di cui si assume la falsità, sia stato depositato, registrato o brevettato nelle forme di legge all’esito della prevista procedura, sicché la falsificazione dell’opera dell’ingegno può aversi soltanto se essa sia stata formalmente riconosciuta come tale”[5] “poichè la tutela penale dei marchi o dei segni distintivi delle opere dell’ingegno o di prodotti industriali è finalizzata alla garanzia dell’interesse pubblico preminente della fede pubblica”[6].
Del resto, pur a fronte di un diverso filone interpretativo secondo il quale, al contrario, da un lato, è “sufficiente la presentazione della domanda di registrazione o brevetto a far scattare la protezione penale del marchio, perché già da tale momento si rende formalmente conoscibile il modello e possibile la sua illecita riproduzione”[7], dall’altro lato, questa “forma di tutela anticipata del segno distintivo sussiste anche dopo l’entrata in vigore della nuova normativa in materia di marchi introdotta dalla l. n. 99 del 2009, la cui ratio è quella di garantire una risposta repressiva più efficace al fenomeno della contraffazione anche con l’esplicita osservanza della normativa comunitaria”[8], è preferibile, ad umile avviso di chi scrive, il primo percorso ermeneutico[9].
Infatti, la riforma su emarginata, nel condizionare, come già rilevato in precedenza, la punibilità degli autori dei delitti di cui all’art. 473 e 474 c.p. all’osservanza delle “norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale”, richiede che il procedimento, volto ad ottenere la registrazione di marchi o segni distintivi, nazionali o esteri, di prodotti industriali, si sia concluso.
Orbene, posto che detto procedimento è assai articolato e complesso, non è detto che la domanda proposta venga necessariamente accolta.
In effetti, come è noto, il Codice della proprietà industriale (di seguito indicato con la dicitura C.p.i.), introdotto con il decreto legislativo, 10/02/05, n. 30, prevede una serie di limitazioni per la registrazioni dei marchi, segni e prodotti industriali.
A titolo meramente esemplificativo, si riportano le seguenti norme giuridiche:
1) l’art. 9 C.p.i. secondo cui: non possano “costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni costituiti esclusivamente dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto, dalla forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico, o dalla forma che dà un valore sostanziale al prodotto”;
2) l’art. 10, co. I, C.p.i. ai sensi del quale: gli “stemmi e gli altri segni considerati nelle convenzioni internazionali vigenti in materia, nei casi e alle condizioni menzionati nelle convenzioni stesse, nonché i segni contenenti simboli, emblemi e stemmi che rivestano un interesse pubblico non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa, a meno che l’autorità competente non ne abbia autorizzato la registrazione”;
3) l’art. 12 C.p.i., co. I che prevede come non possano “costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni che alla data del deposito della domanda:
a) siano identici o simili ad un segno gia’ noto come marchio o segno distintivo di prodotti o servizi fabbricati, messi in commercio o prestati da altri per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identita’ o somiglianza tra i segni e dell’identita’ o affinità fra i prodotti o i servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che puo’ consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni. Si considera altresì noto il marchio che ai sensi dell’articolo 6-bis della Convenzione di Parigi per la protezione della proprieta’ industriale, testo di Stoccolma 14 luglio 1967, ratificato con legge 28 aprile 1976, n. 424, sia notoriamente conosciuto presso il pubblico interessato, anche in forza della notorietà acquisita nello Stato attraverso la promozione del marchio. L’uso precedente del segno, quando non importi notorietà di esso, o importi notorietà puramente locale, non toglie la novità, ma il terzo preutente ha diritto di continuare nell’uso del marchio, anche ai fini della pubblicità, nei limiti della diffusione locale, nonostante la registrazione del marchio stesso. L’uso precedente del segno da parte del richiedente o del suo dante causa non e’ di ostacolo alla registrazione; b) siano identici o simili a un segno gia’ noto come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio usato nell’attivita’ economica, o altro segno distintivo adottato da altri, se a causa della identità o somiglianza fra i segni e dell’identita’ o affinità fra l’attivita’ d’impresa da questi esercitata ed i prodotti o servizi per i quali il marchio e’ registrato possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che puo’ consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni. L’uso precedente del segno, quando non importi notorietà di esso, o importi notorietà puramente locale, non toglie la novità. L’uso precedente del segno da parte del richiedente o del suo dante causa non e’ di ostacolo alla registrazione;
c) siano identici ad un marchio gia’ da altri registrato nello Stato o con efficacia nello Stato in seguito a domanda depositata in data anteriore o avente effetto da data anteriore in forza di un diritto di priorità o di una valida rivendicazione di preesistenza per prodotti o servizi identici;
d) siano identici o simili ad un marchio gia’ da altri registrato nello Stato o con efficacia nello Stato, in seguito a domanda depositata in data anteriore o avente effetto da data anteriore in forza di un diritto di priorita’ o di una valida rivendicazione di preesistenza per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identita’ o somiglianza fra i segni e dell’identità’ o affinità fra i prodotti o i servizi possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
e) siano identici o simili ad un marchio gia’ da altri registrato nello Stato o con efficacia nello Stato, in seguito a domanda depositata in data anteriore o avente effetto da data anteriore in forza di un diritto di priorita’ o di una valida rivendicazione di preesistenza per prodotti o servizi anche non affini, quando il marchio anteriore goda nella Comunità, se comunitario, o nello Stato, di rinomanza e quando l’uso di quello successivo senza giusto motivo trarrebbe indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del segno anteriore o recherebbe pregiudizio agli stessi;
f) siano identici o simili ad un marchio gia’ notoriamente conosciuto ai sensi dell’articolo 6-bis della Convenzione di Parigi per la protezione della proprieta’ industriale, per prodotti o servizi anche non affini, quando ricorrono le condizioni di cui alla lettera e)”;
4) l’art. 13, co. I, C.p.i. ai sensi del quale: non “possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni privi di carattere distintivo e in particolare:
a) quelli che consistono esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio;
b) quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio”.
5) l’art. 14 C.p.i. secondo cui: non “possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa:
a) i segni contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume;
b) i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi;
c) i segni il cui uso costituirebbe violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale o altro diritto esclusivo di terzi”;
6) l’art. 19, co. II, C.p.i. che statuisce come non possa “ottenere una registrazione per marchio di impresa chi abbia fatto la domanda in mala fede”;
7) l’art. 31, co. I, C.p.i. secondo il quale: non possono “costituire oggetto di registrazione come disegni e modelli l’aspetto dell’intero prodotto o di una sua parte quale risulta, in particolare, dalle caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori, della forma, della struttura superficiale ovvero dei materiali del prodotto stesso ovvero del suo ornamento, a condizione che siano nuovi ed abbiano carattere individuale”;
8) l’art. 36, co. I, C.p.i. che dispone come non possano “costituire oggetto di registrazione come disegni o modelli quelle caratteristiche dell’aspetto del prodotto che sono determinate unicamente dalla funzione tecnica del prodotto stesso”.
Ebbene, viste queste numerose condizioni legali ostative e rilevato che, come da espresso statuizione normativa, una domanda presentata potrebbe essere anche “in mala fede”[10], è evidente che questa istanza, in quanto tale, non garantisce di per sè la registrazione del prodotto industriale oggetto della richiesta.
D’altronde, se il bene giuridico tutelato da queste norme incriminatrici consiste nel proteggere la “la "pubblica fede" in senso oggettivo, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi che individuano le opere dell’ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione”[11] e, se l’uso di marchi e segni distintivi è punito dall’art. 473 c.p. solo qualora siano violate le norme giuridiche “sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale”, è palese che tale bene potrà ritenersi davvero leso solo laddove la domanda, tesa ad ottenere la registrazione, venga accolta e non semplicemente presentata.
Invero, come sostenuto da parte della letteratura scientifica, “affidare la tutela penale dei marchi registrati ma non ancora utilizzati agli artt. 473 e 474 c.p. non sembra corretto perché si tratta evidentemente di casi in cui parlare di inganno della fede pubblica richiederebbe un’astrazione assoluta del concetto, che si tradurrebbe in sostanza in una pura finzione”[12].
Del resto, neanche la registrazione, in quanto tale, può determinare sempre la configurabilità di questi illeciti penali.
Infatti, una volta che i marchi o segni distintivi vengono registrati, è necessario altresì appurare se ricorrano cause estintive tali da ritenerli non più oggetto di tutela.
In altri termini, si tratta di verificare se il soggetto titolare di un data marchio (o altro prodotto industriale) registrato sia decaduto da quel diritto.
Ad esempio, l’art. 13, co. IV, C.p.i. stabilisce che il “marchio decade se, per il fatto dell’attività o dell’inattività del suo titolare, sia divenuto nel commercio denominazione generica del prodotto o servizio o abbia comunque perduto la sua capacità distintiva”; l’art. 14, co. II, C.p.i., a sua volta, prevede che il marchio d’impresa decade:
a) se sia divenuto idoneo ad indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa di modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali è registrato;
b) se sia divenuto contrario alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume;
c) per omissione da parte del titolare dei controlli previsti dalle disposizioni regolamentari sull’uso del marchio collettivo”;
l’art. 26, co. I, C.p.i., dal canto suo, dispone che il marchio decade: “a) per volgarizzazione ai sensi dell’articolo 13, comma 4; b) per illiceità sopravvenuta ai sensi dell’articolo 14, comma 2;c) per non uso ai sensi dell’articolo 24”;
l’art. 113, co. I, C.p.i., al contempo, statuisce che il “diritto di costitutore decade quando viene accertato che le condizioni relative alla omogeneità e alla stabilità non sono più effettivamente soddisfatte”.
Analoga conseguenza ricorre qualora il titolare non ne faccia “uso effettivo”[13] ossia, allorchè la durata per la protezione sia scaduta e il titolare non abbia chiesto la proroga[14] ovvero, nei casi in cui, il titolo di privativa non possa essere rinnovato e il periodo di concessione sia scaduto[15].
Inoltre, un’altra valutazione da compiersi, una volta appurato che la registrazione è stata compiuta ed non ricorrono ipotesi di decadenza, è quella di stabilire se il soggetto che abbia fatto uso del marchio (o segno distintivo), ne abbia fatto un uso consentito posto che il titolare della c.d. privativa non ha sempre un diritto all’utilizzo esclusivo ed incondizionato.
A tal proposito, si richiamano le seguenti disposizioni legislative:
I) art. 42, co. I, C.p.i. secondo cui: i “diritti conferiti dalla registrazione del disegno o modello non si estendono:
a) agli atti compiuti in ambito privato e per fini non commerciali;
b) agli atti compiuti a fini di sperimentazione;
c) agli atti di riproduzione necessari per le citazioni o per fini didattici, purché siano compatibili con i principi della correttezza professionale, non pregiudichino indebitamente l’utilizzazione normale del disegno o modello e sia indicata la fonte”,
prevedendo, al contempo, al comma II, che i “diritti esclusivi conferiti dalla registrazione del disegno o modello non sono esercitabili riguardo:
a) all’arredo e alle installazioni dei mezzi di locomozione navale e aerea immatricolati in altri Paesi che entrano temporaneamente nel territorio dello Stato;
b) all’importazione nello Stato di pezzi di ricambio e accessori destinati alla riparazione dei mezzi di trasporto di cui alla lettera a);
c) all’esecuzione delle riparazioni sui mezzi di trasporto predetti”;
II) art. 68, co. I, C.p.i. ai sensi del quale: la “facoltà esclusiva attribuita dal diritto di brevetto non si estende, quale che sia l’oggetto dell’invenzione:
a) agli atti compiuti in ambito privato ed a fini non commerciali, ovvero in via sperimentale;
b) agli studi e sperimentazioni diretti all’ottenimento, anche in paesi esteri, di un’autorizzazione all’immissione in commercio di un farmaco ed ai conseguenti adempimenti pratici ivi compresi la preparazione e l’utilizzazione delle materie prime farmacologicamente attive a ciò strettamente necessarie;
c) alla preparazione estemporanea, e per unità, di medicinali nelle farmacie su ricetta medica, e ai medicinali così preparati, purché non si utilizzino principi attivi realizzati industrialmente”.
Tra l’altro, la stessa Corte di Cassazione, seppur con un orientamento non consolidato, nel dichiarare che spetta “al giudice penale decidere in via incidentale sulla validità o meno di un marchio, registrato sia in sede comunitaria che nazionale, quando la questione assuma rilevanza ai fini della qualificazione giuridica del fatto oggetto dell’imputazione”[16], lascia chiaramente intendere che la verifica, circa l’esistenza di un marchio registrato, validamente da tutelare ai fini del giudizio de quo (e quindi, per un verso, non decaduto e usato effettivamente, per un altro verso, leso nel suo uso conferito in via esclusiva), è fondamentale per verificare la sussistenza dei delitti di cui agli artt. 473 e 474 c.p. .
Peraltro, tale valutazione decisoria richiede anche un giudizio prognostico volto a “stabilire il livello della capacità imitativa del marchio, ovvero se si sia in presenza di un falso punibile o grossolano o comunque se sussista pericolo di confusione per l’acquirente”[17].
Oltre a ciò, seppur per un specifico modello industriale (ovvero le topografie dei prodotti a semiconduttori), il legislatore ha espressamente tipizzato una ipotesi di contraffazione statuendo per l’appunto che costituisce atto di contraffazione e di violazione dei diritti esclusivi sulle topografie dei prodotti a semiconduttori “l’esercizio, senza il consenso del titolare, delle seguenti attivita’, anche per interposta persona:a) la riproduzione in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo della topografia; b) la fissazione con qualsiasi mezzo della topografia in un prodotto a semiconduttori;c) l’utilizzazione, l’importazione e la detenzione a fini di commercializzazione, nonché la commercializzazione o distribuzione del prodotto a semiconduttori in cui e’ fissata la topografia”[18] escludendone la sussistenza, viceversa, nel caso di importazione, distribuzione, commercializzazione o l’utilizzazione di prodotti a semiconduttori contraffatti, “effettuati senza sapere o senza avere una ragione valida di ritenere l’esistenza dei diritti esclusivi di cui all’articolo 90”[19].
Tale previsione legislativa, dunque, oltre a rappresentare un idoneo parametro valutativo che il giudice potrà avvalersi per accertare l’esistenza di questa modalità delittuosa, evidenzia che il soggetto imputato per reati di questo tipo, debba essere consapevole di violare un diritto altrui dato che la conoscibilità del titolo rileva “comunque ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico del reato”[20].
Da ultimo, anche per quanto concerne i marchi o i segni distintivi riconosciuti in sede comunitaria, la Cassazione, successivamente all’entra in vigore della legge n. 99/09, ha stabilito che un “marchio rilasciato dall’autorità comunitaria preposta a valutare domande di protezione di beni di proprietà industriale, deve comunque rispettare, a norma dell’art. 53 del Regolamento CE 207/2009 del Consiglio, i diritti anteriori, discendenti dalla normativa nazionale, anche in base al diritto al nome, attribuendo così rilevanza al suindicato art. 8 CPI, comma 3”[21] dato che la registrazione non può “essere sottratta al vaglio sulla validità del giudice nazionale”[22].
Difatti, seppur in relazione allo specifico istituto del brevetto europeo, i Giudici di “Piazza Cavour” hanno rilevato che questa privativa “non sottrae la frazione nazionale al sindacato di validità alla luce della normativa interna”[23] posto che, se un “determinato ritrovato per il diritto interno può trovare protezione come modello di utilità, alla scadenza del termine di durata stabilito per la protezione di un simile modello, l’ottenimento del brevetto europeo non può essere strumento per superarne i limiti di durata, a meno che nel trovato non siano presenti tutti i requisiti che consentono di affermarne la validità anche come brevetto per invenzione, secondo la normativa nazionale”[24].
Tornando a trattare la decisione in commento, questo decisum è sicuramente apprezzabile perché è palese l’attenzione degli Ermellini volta a circoscrivere il margine di applicabilità delle norme de quibus (in consonanza alla normativa interna e a quella comunitaria).
Di talchè ne consegue come la linea interpretativa, tracciata nel provvedimento in esame, sia preferibile (rispetto all’altra) siccome, da un lato, particolarmente aderente al dato testuale degli artt. 473 e 474 c.p. così come novellato dalla legge n. 99 del 2009, dall’altro lato, decisamente rispettosa dei principi fondamentali di tipicità e della tassatività.
Del resto, non vi sarebbe nemmeno una sorta di spazio immune (ed impunito) da censure penali dato che, come giustamente rilevato anche dalla Corte in quella occasione, vi sono altre norme incriminatrici che possono essere invocate anche per i prodotti non registrati quale quello applicato nel caso di specie (l’art. 517 c.p.); per giunta, al di là del caso in questione, basta menzionare, a titolo meramente esemplificativo, l’art. 4, comma 49-bis della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Finanziaria per il 2004)[25] o ancora, l’art. comma 7, della l. 14 maggio 2005, n. 80[26] entrambi volti a tutelare, seppur in forme diverse, la proprietà intellettuale.
[1] Pier Luigi Roncaglia, “La nuova tutela penale dei titoli di proprietà industriale”, Riv. Dir. ind., 2010, 4-5, 195.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem.
[5] Cass. pen., sez. V, 12/04/12, n. 25273.
[6] Ibidem.
[7] Cass. pen., sez. II, 20/11/09, n. 4217.
[8] Ibidem.
[9] Oltre a quelle già illustrate dalla Cassazione nella decisione in argomento a cui si rinvia integralmente.
[10] Ex art. 19, co. II, C.p.i. .
[11] Cass. pen., sez. II, 27/04/12, n. 28423.
[12] Pier Luigi Roncaglia, “La nuova tutela penale dei titoli di proprietà industriale”, Riv. Dir. ind., 2010, 4-5, 195.
[13] Art. 24, co. I, C.p.i. .
[14] Art. 37, co. I, C.p.i. .
[15] Art. 60, co. I, C.p.i. .
[16] Cass. pen., sez. V, 21/09/10, n. 43515. Contra, Cass. pen., sez. II, 20/11/09, n. 4217: “Il presupposto cautelare del "fumus commissi delicti" nei procedimenti per i reati di contraffazione e alterazione di marchi o segni distintivi è configurabile, in fase cautelare, ove questi ultimi risultino depositati, registrati o brevettati nelle forme di legge, non richiedendosi alcuna indagine in ordine alla loro validità sostanziale”.
[17] Cass. pen., sez. V, 26/04/06, n. 19512.
[18] Art. 95, co. I, C.p.i. .
[19] Art. 95, co. II, C.p.i. .
[20] Pier Luigi Roncaglia, “La nuova tutela penale dei titoli di proprietà industriale”, Riv. Dir. ind., 2010, 4-5, 195.
[21] Cass. pen., sez. V, 21/09/10, n. 43515.
[22] Cass. pen., sez. I, 14/10/09, n. 21835.
[23] Ibidem.
[24] Ibidem.
[25] Il quale prevede che “costituisce fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto. Per i prodotti alimentari, per effettiva origine si intende il luogo di coltivazione o di allevamento della materia prima agricola utilizzata nella produzione e nella preparazione dei prodotti e il luogo in cui e’ avvenuta la trasformazione sostanziale. Il contravventore e’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 250.000”.
[26] Tale norma, infatti, recita quanto segue: «Salvo che il fatto costituisca reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria fino a € 10.000 l’acquisto o l’accettazione, senza averne prima accertata la legittima provenienza, a qualsiasi titolo di cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà intellettuale. La sanzione di cui al presente comma si applica anche a coloro che si adoperano per fare acquistare o ricevere a qualsiasi titolo alcune delle cose suindicate, senza averne prima accertata la legittima provenienza. In ogni caso si procede alla confisca amministrativa delle cose di cui al presente comma. Restano ferme le norme di cui al decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70”).