x

x

Non “Ogni uomo è un artista”, ma cosa è arte per il diritto della proprietà intellettuale?

Tavolo Lucio Fontana e Osvaldo Borsani
Tavolo Lucio Fontana e Osvaldo Borsani

Da quando Beeple, l’11 marzo scorso, ha venduto da Christie’s per quasi 70 milioni di dollari un collage dei suoi post di Instagram, volenti o nolenti, abbiamo iniziato a parlare di criptoarte, riconoscendo non solo che quella è un’opera d’arte, ma addirittura ipotizzando che quell’opera potesse essere la rivoluzione che aveva avviato, come il taglio di Lucio Fontana per lo spazialismo, l’inizio di una nuova corrente artistica.

Nessuno ha messo in dubbio se Everyday’s - The First 5000 Days fosse un’opera d’arte degna di godere della tutela autoriale, benché si trattasse di un casuale assemblaggio di rielaborazioni digitali di immagini di personaggi noti o facenti parte dell’immaginario collettivo, da Babbo Natale a Donald Trump, rivisitate in chiave fantasy.

Era arte per forza e a prescindere, perché era stata venduta da Christie’s in un’asta destinata a entrare nella storia, come bolla o rivoluzione lo vedremo, e perché era stata pagata 69 milioni di dollari, una quotazione che l’ha portata “di diritto” nell’olimpo dei grandi e l’ha messa addirittura al fianco di Picasso, che il papier collé l’aveva inventato nel 1912 dando vita con Georges Braque al cubismo sintetico.

Se è vero che il diritto deve limitarsi a interpretare e a ricondurre la tutela a un’idea di “giusto” che si è formata nella collettività in un dato momento storico, dovendo definire, oggi, cosa è arte, saremmo costretti, obtorto collo, a rivedere tutte le nostre certezze e a concludere che è arte quella che si vende a prezzi strabilianti in una evening sale.

Come, già, peraltro, il Tribunale di Bologna, chiamato a pronunciarsi sul valore artistico della Ferrari GTO, aveva evidenziato con la sua ordinanza del 20.6.2019, ritenendo che il “livello artistico è testimoniato, quantomeno indirettamente, dal valore economico raggiunto dai pochissimi esemplari (n. 39) immessi sul mercato (da ultimo, un modello risulta battuto alla celebre casa d’asta Sotheby’s per oltre 41 milioni di euro), che, senza alcun dubbio, trascende il valore tecnico-funzionale del bene”, in conformità al criterio generale indicato dalla Suprema Corte (Cass. Civ. Sez. I, 13 novembre 2015, n. 23292) che richiede “la circostanza che l’opera del design sia commercializzata nel mercato artistico”.

E così, se il video del colpo mortale del torero fosse stato tokenizzato o venduto da Sotheby’s o da Phillips a un appassionato di corride, avrebbe potuto, forse, essere differente la sentenza della Corte Suprema spagnola n. 82/2021 del 16 febbraio 2021 che ha respinto la domanda del matador Miguel Ángel Perera di iscrizione nel registro delle proprietà intellettuali del suo combattimento con il toro alla Feria de San Juan de Badajoz del 22 giugno 2014, perché “nel lavoro del torero non si può esprimere in una forma obiettiva quella che sarebbe una creazione artistica originale”.

Più difficile, invece, sarebbe stato anche oggi ritenere “arte” il sapore di un formaggio, a cui la tutela autoriale aveva “fatto gola”, e che, invece, si è dovuto scontrare con un deciso arresto della Corte di Giustizia che da un lato ha sottolineato il fatto che “le autorità competenti a garantire la tutela dei diritti esclusivi inerenti al diritto d’autore devono poter conoscere con chiarezza e precisione gli oggetti in tal modo protetti e i singoli, segnatamente gli operatori economici, devono poter individuare con chiarezza e precisione gli oggetti tutelati a favore di terzi, in particolare di concorrenti” e che“dall’altro lato, la necessità di evitare qualsiasi elemento di soggettività, pregiudizievole per la certezza del diritto, nel processo di identificazione dell’oggetto tutelato implica che quest’ultimo possa essere oggetto di un’espressione precisa e obiettiva.” (CGUE, 13 novembre” 2018 C‑310/17, Levola).

Nella maggioranza dei casi, il dibattito, però, è meno intrigante persino del collage di Beeple e, a rivolgersi ai Tribunali per sentire accertare che questo o quell’altro bene è arte, sono i produttori di industrial design, oggetti seriali già protetti come modelli o disegni in attuazione della Direttiva n. 98/71/CE o ai sensi del Regolamento n.6/2002/CE, che mediante una registrazione possono esser protetti al massimo 25 anni, o per 3 anni se non registrati, nella speranza di ottenere l’accertamento di quel “di per sé” carattere creativo e valore artistico che ai sensi dell’art. 2, n. 10, l. aut. conferisce loro in aggiunta anche la tutela autoriale e una lunga vita alla loro esclusiva commerciale, e a proposito dei quali la Corte di Giustizia ha recentemente ribadito che “detta tutela è intesa ad essere applicata per una durata limitata ma sufficiente per consentire di capitalizzare gli investimenti necessari alla creazione e alla produzione di tali oggetti, senza peraltro ostacolare eccessivamente la concorrenza” (CGUE, 12 settembre 2019, C 683/17, Cofemel).

E questo sovente avviene nella sola speranza di ottenere di fatto un monopolio su dei modelli prodotti in serie e messi in commercio per i quali la tutela industriale è scaduta o che grazie a un bollino artistico possono giustificare un prezzo al pubblico più elevato.

A fronte di tale prassi, talvolta discutibile, la giurisprudenza a partire dall’ordinanza del 29.12.2006 del Tribunale di Milano nel caso Flos/Semerano, chiamato a pronunciarsi sulla lampada Arco, disegnata da Achille & Pier Giacomo Castiglioni nel 1962, ha ritenuto che l’accertamento del “valore artistico” dovesse essere svincolato da “giudizi, comunque, sempre personali ed arbitrari […] destinati spesso nel tempo a mutamenti anche radicali per essere invece agganciato alla percezione che di quel modello come opera d’arte si è consolidata nella collettività, anzi, più precisamente negli ambienti culturali”.

E ribadita in quella sede la “problematicità dell’esame del giudice rispetto alla valutazione del valore artistico dell’opera del design industriale, la sostanziale estraneità di tale elemento nella generale disciplina della diritto d’autore, l’estrema arbitrarietà di giudizi (inevitabilmente) sommari, personali e di dubbia attendibilità rispetto a tale presupposto, la stretta inerenza delle concezioni dell’arte e dell’attività di ogni artista alla sfera della libertà individuale e di manifestazione del pensiero che deve indurre il giudice ad estrema cautela nell’affermare o meno cosa possa ritenersi dotato di “valore artistico”. La ricerca di obbiettivi e verificabili riscontri esterni – non limitati alla naturale autoreferenzialità di un ambiente ristretto alla sola cerchia dei designers, ma estesi ad un più ampio orizzonte culturale – appare dunque a questo Tribunale ancora un criterio utile al fine di verificare se esista o meno una consolidata e diffusa opinione maturata e confermata nel tempo, dunque non effimera o marginale, rispetto al riconoscimento ad una determinata opera di design di un significato e di un valore che trascenda la mera attitudine della sua forma esteriore ad attirare l’attenzione del consumatore e di dare ad oggetti di uso comune una loro peculiarità estetica”.

La tesi ha trovato conforto anche da parte della Suprema Corte di Cassazione in una sentenza piuttosto recente concernente la tutela autorale di articoli di arredo urbano (nella specie un modello di panchina), nella quale la Corte, ritenendo il concetto di “valore artistico” non suscettibile di essere “perimetrato” in una “definizione omnicomprensiva”, ha individuato una serie di parametri di riferimento il più possibile oggettivi a cui il giudice può ricorrere per verificare la sussistenza del requisito del “valore artistico”, ovvero: “a) il riconoscimento che l’oggetto ha ricevuto da parte degli ambienti culturali ed istituzionali sulla sussistenza delle qualità estetiche ed artistiche, così collocandosi nella c.d. fascia alta del design, che si manifesta tramite l’esposizione in mostre e in musei, la pubblicazione in riviste specializzate non a carattere commerciale, la partecipazione a manifestazioni artistiche, l’attribuzione di premi, gli articoli di critici esperti del settore; b) la circostanza che l’opera del design sia commercializzata nel mercato artistico e non in quello puramente commerciale oppure che in quest’ultimo mercato abbia acquistato un valore particolarmente elevato; c) la circostanza, da valutarsi con prudenza, che l’opera sia stata creata da un noto artista(Cass. Civ. Sez. I, 13 novembre 2015, n. 23292).

Diversamente non potrebbe essere perché da oltre un secolo oggetti di uso comune (e non solo) sono diventati opere nelle mani di un’artista.

Marcel Duchamp ha presentato un orinatoio capovolto alla Società Americana degli Artisti indipendenti nel 1917; Piero Manzoni ha venduto a peso d’oro scatolette usate per conservare la carne, etichettandole come “merda d’artista”; Jeff Koons ha fuso in acciaio un coniglio gonfiabile nel 1985; Damien Hirst ha messo uno squalo tigre da quattro metri in formalina nel 1991 e Gabriel Orozco ha esposto una vera scatola di scarpe vuota alla Biennale di Venezia del 1993.

Nella più graffiante e vera satira del mondo dell’arte contemporanea, Cristian, il direttore dell’imaginario museo, protagonista di The Square, film Palma d’oro a Cannes nel 2017 del regista svedese Ruben Östlund, si domandava “se esponessimo un oggetto in un museo, per esempio se prendiamo la sua borsa e la mettiamo lì questo la fa diventare arte?”.

E la stessa domanda avrebbe potuto farla a Kounellis nel 1969 quando per la mostra Live in Your Head: When Attitudes Becomes Form, organizzata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna Kounellis, avrebbe dovuto esporre Carbone (1968) e Senza titolo (1969), opere in lana di pecora, legno e corda provenienti dalla collezione della Galleria L’Attico di Roma, bloccate per accertamenti dalla dogana svizzera per riserve sull’esenzione dal dazio come opere d’arte; con il genio che solo l’artista possiede, Kounellis acquistò fagioli, farina, piselli, carbone, caffè e riso li chiuse in vecchi sacchi di iuta, generando così “un archeologico deposito contadino” che è e resterà memorabile nella storia dell’arte e in quella mostra.

Una lezione che insegna che un oggetto diventa arte solo quando viene strappato alla sua funzione utilitaria e diventa, grazie alla reinterpretazione che ne dà un artista con la sua creatività; e che si sposa con l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia nel caso Brompton (CGUE, 11 giugno 2020 C‑833/18) che, nel pronunciarsi su un modello di bicicletta pieghevole, ha precisato che “il criterio dell’originalità non può essere soddisfatto dalle componenti di un oggetto che siano caratterizzate unicamente dalla loro funzione tecnica, poiché risulta in particolare dall’articolo 2 del Trattato OMPI sul diritto d’autore che la protezione ai sensi del diritto d’autore non si estende alle idee. Proteggere queste ultime mediante il diritto d’autore equivarrebbe infatti a offrire la possibilità di monopolizzare le idee, a discapito, in particolare, del progresso tecnico e dello sviluppo industriale (v., in tal senso, sentenza del 2 maggio 2012, SAS Institute, C 406/10, EU:C:2012:259, punti 33 e 40). Orbene, quando l’espressione di dette componenti è dettata dalla loro funzione tecnica, i diversi modi di attuare un’idea sono così limitati che l’idea e l’espressione si confondono (v., in tal senso, sentenza del 22 dicembre 2010, Bezpečnostní softwarová asociace, C 393/09, EU:C:2010:816, punti 48 e 49).

In base all’attuale normativa, usando il caso Brompton come provocazione, non possiamo pretendere che sia arte solo la Ruota di bicicletta creata da Duchamp nel 1913, ma che un prodotto di industrial design oltre al riconoscimento negli ambienti culturali abbia “significato che trascende quello della sua stretta funzionalità (Tribunale di Milano 22/11/2017 n. 11766), e che, quindi, non possa essere ritenuta opera un prodotto la cui realizzazioneè stata determinata da considerazioni di carattere tecnico, da regole o altri vincoli che non lasciano margine per la libertà creativa, non può ritenersi che tale oggetto presenti l’originalità necessaria per poter costituire un’opera (CGUE, 12 settembre 2019, C 683/17, Cofemel) o addirittura un modello che sia persino modificabile secondo le esigenze funzionali del cliente (si pensi alla lunga serie di beni customizzabili).

Ci sembra doveroso, però, evidenziare che nei casi in cui un noto artista, non un architetto o designer, abbia fatto di un prodotto soltanto il supporto, al pari di una tela o di una tavola, su cui dare una forma creativa alla sua idea (pensiamo ai gioielli di Lucio Fontana o di Man Ray, ai tavoli di Giacomo Balla o Getulio Alviani o agli abiti di Germana Marucelli e Paolo Scheggi), destinati o meno a una produzione seriale, la qualifica di opera non possa essere negata.

getulio-alviani-optical-2-min
Getulio Alviani