Privacy nel processo secondo la CEDU
Abstract
Con la sentenza J.L. contro Italia, la Corte EDU censura una sentenza italiana per aver violato il diritto alla privacy della vittima nel processo. Il contributo offre riflessioni sulla tutela della privacy nell’esercizio di funzioni giurisdizionali.
With the J.L. against Italy decision, the ECtHR censures an Italian ruling for violating the victim's right to privacy during trial. The contribution addresses the protection of privacy in the exercise of jurisdictional functions.
Privacy e processo: un rapporto in evoluzione
Il rispetto della privacy nel processo è imposto dalla CEDU. Il 27 maggio scorso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha deciso la causa J.L. contro Italia (Ricorso n. 5671/16), censurando duramente ai sensi dell’articolo 8 CEDU una sentenza italiana per aver leso il diritto alla privacy della persona offesa nell’ambito di un processo penale, includendo nella motivazione del provvedimento considerazioni ultronee e gratuite sulla sua vita personale.
Il sistema CEDU impone quindi all’ordinamento italiano un importante principio: quello per cui il giudice, nel rendere la propria decisione, non può esimersi dall’effettuare un bilanciamento tra l’esercizio del potere giudiziario (e l’onere di motivazione dei provvedimenti) e il diritto alla privacy.
Nel sistema italiano, il rapporto tra privacy e processo è un tema sinora poco affrontato, anche perché l’intero settore giustizia ha sempre goduto di un trattamento particolare, con il Codice privacy del 2003 (D.Lgs. 196/2003 artt. 46-49) che nel caso di trattamento dati effettuato “per ragioni di giustizia” prevedeva numerose deroghe all’applicazione della normativa. Queste deroghe erano state ben colte dalla giurisprudenza che le ha ribadite in più occasioni, affermando la prevalenza, nel processo, del diritto alla difesa sul diritto alla privacy (pur con certi limiti).
L’entrata in vigore del GDPR ha segnato una prima inversione di tendenza e contribuito a “normalizzare” il trattamento dati in ambito giudiziario, nell’ottica di un migliore rispetto della privacy. Tuttavia, nel Regolamento 2016/679 permangono eccezioni rilevanti, fra cui disposizioni che consentono di trattare dati (anche appartenenti a categorie particolari) “ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali”.
All’ancora acerbo dibattito relativo all’impatto del GDPR sulla tutela della privacy nel processo si aggiunge quindi la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con le riflessioni in essa maturate ai sensi dell’articolo 8 CEDU, che impongono un cambio di prospettiva alla magistratura.
Privacy e processo nel sistema CEDU: il caso J.L. c. Italia
Nel caso J.L., la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha esaminato il rispetto dell’art. 8 CEDU (in particolare, della privacy della persona offesa) in un processo penale originato da una denuncia di stupro di gruppo risalente al 2008.
All’esito del processo in primo grado, sei dei sette imputati erano stati condannati per aver indotto una persona in stato di inferiorità fisica e psichica a compiere o subire atti di natura sessuale (art. 609 bis co. 2 n. 1 c.p.) commettendo violenza sessuale di gruppo (art. 609 octies c.p.).
La Corte d’Appello di Firenze rovesciò la pronuncia, assolvendo gli imputati con formula “perché il fatto non sussiste” e spingendosi, nel provvedimento, in considerazioni relative alla vita personale e intima della ricorrente - quali quelli relativi alla biancheria rossa da ella indossata la sera dei fatti, o quelli in cui si commenta e ripercorre la sua vita sessuale, o le sue scelte personali relative alla partecipazione a progetti artistici.
La vittima, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, propose ricorso avanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per far valere una serie di violazioni, tra cui quella del suo diritto alla privacy ex art. 8 CEDU.
L’articolo 8 CEDU tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare - e dunque anche la privacy - consentendone limitazioni che abbiano un fondamento legale e siano proporzionate al raggiungimento di uno scopo legittimo tra quelli individuati dalla stessa previsione (tra cui figura la “difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati” e la “tutela dei diritti di terzi”).
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, pur rilevando che nel complesso il processo si era svolto in maniera effettiva e rispettosa dei diritti della persona offesa, riscontra una violazione della privacy – e quindi dell’articolo 8 CEDU - nella motivazione della sentenza assolutoria.
La Corte ritiene che gli argomenti relativi alla vita personale e sessuale della vittima non fossero né utili al fine di valutare la credibilità della ricorrente, né determinanti per la risoluzione del caso: in sostanza, l’interferenza nel diritto alla privacy della vittima era del tutto gratuita, non aveva alcuno scopo legittimo. Nelle parole della Corte, “non si può ritenere che le aggressioni alla vita privata e all’immagine della ricorrente fossero giustificate dalla necessità di garantire il diritto di difesa degli imputati” (par. 138).
La Corte ricorda che l’articolo 8 CEDU impone obblighi di tutela rafforzata nei confronti delle vittime di violenza sessuale, che riguardano anche la loro privacy, e impongono di evitare la divulgazione di informazioni e dati personali che non hanno alcuna relazione con i fatti. Ad un livello più in generale, la CEDU impone di tutelare adeguatamente la privacy in ogni processo, perché “la facoltà per i giudici di esprimersi liberamente nelle loro decisioni, manifestazione del potere discrezionale del magistrato e del principio di indipendenza della giustizia, è limitato dall’obbligo di proteggere la vita privata e l’immagine degli interessati da qualunque pregiudizio ingiustificato” (par. 139)
Nel caso specifico, il diritto alla privacy della ricorrente non è stato adeguatamente protetto, e le modalità redazionali della sentenza - che, peraltro, sottolinea la Corte, è un documento con natura pubblica - l’hanno esposta a vittimizzazione secondaria. Sussiste dunque violazione dell’articolo 8 CEDU.
Privacy e processo: riflessioni di sistema
Sui rapporti tra privacy e processo, la pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è significativa, specie se si pensa all’attuale “diffusione” delle sentenze che, con strumenti informatici, possono raggiungere un pubblico estremamente ampio di soggetti.
É quindi importante che l’onere motivazionale del Giudice, a tutela delle parti e della funzione giurisdizionale, non dia corso ad eccessi di immotivato “approfondimento” che trascenda la giustificazione del provvedimento e si trasformi in una illecita intrusione nella privacy delle parti.
Questo principio a tutela della privacy inizia a farsi strada in giurisprudenza, con la Cassazione che in recente provvedimento (Cass. Ord. 11020/2021 del 26.04.2021) ha affermato che il trattamento dati nell'ambito di un processo è lecito purché avvenga nel rispetto del criterio di minimizzazione.
Tale criterio è vieppiù significativo nel caso delle sentenze, se solo si pensa che queste possono essere inserite (in chiaro) nel c.d. Archivio della Giurisprudenza di Merito (che, sebbene rivolto ad una platea qualificata, è comunque accessibile a quasi trecentomila utenti).
L’unico strumento di diritto positivo chiamato a fare da argine a questa “proliferazione informatica” delle sentenze è l’art. 52 del Codice Privacy, sopravvissuto, con poche modifiche, alla revisione apportata dal D.Lgs. 101/18.
L’art. 52 prevede che l’interessato possa richiedere l’”anonimizzazione” della sentenza per motivi legittimi, prima che sia definito il relativo grado di giudizio. In tal modo, in caso di riproduzione del provvedimento, è preclusa l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi dell’interessato, tutelando così in parte la sua privacy.
Sebbene questo procedimento abbia evidenti limiti (e va ricordato che la Cassazione ha espressamente escluso la possibilità di richiedere l’omissione dopo la chiusura del grado, Cass. 55500/2017 del 04.07.2017) soccorre, sul punto, una ulteriore giurisprudenza che già nel 2016 affermava che l’art. 22 co. 8 Cod. Privacy ("I dati idonei a rivelare lo stato di salute non possono essere diffusi") prevale sull’art. 52 Cod. Privacy e rende necessaria la cancellazione di tali dati a prescindere dalla presentazione dell’istanza (Cass. 10510/2016 del 20.05.2016).
Tale pronuncia è ancor oggi attuale, alla luce dell’evoluzione normativa che ha visto l’abrogazione dell’art. 22 Cod. Privacy ma ha, in compenso, visto irrigidita la tutela dei dati appartenenti a categorie particolari (tra cui rientrano quelli “relativi alla vita sessuale o all'orientamento sessuale della persona”) che oggi è vietato trattare (non solo diffondere) salvo ricorrano determinati presupposti.
Tra le eccezioni al generale divieto di trattamento dei dati “particolari” il GDPR all’art. 9 par. 1 lett (f) prevede il caso in cui “il trattamento è necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali”.
Il combinato disposto della normativa privacy europea e di quella interna rafforza quindi l’obbligo di anonimizzare le sentenze che potrebbero contenere dati “particolari” prima che queste possano essere diffuse, specie se non ci si ferma al dato letterale dell’art. 9 (che sembra ancorare al principio di necessità il solo trattamento effettuato in sede giudiziaria da soggetti diversi dalle autorità giurisdizionali) e si sposa invece un’interpretazione appena al di là del dato letterale e fondata sull’illogicità di uno “scioglimento” dai limiti di cui al GDPR delle autorità giurisdizionali sol perché esse esercitano le loro funzioni.
Appare quindi chiaro che il principio di stretta necessità vada applicato anche al caso del trattamento dati effettuato dall'autorità giurisdizionale nell’esercizio delle proprie funzioni e, conseguentemente, la sentenza oggetto del vaglio CEDU nel caso J.L. c. Italia non potrebbe superare il vaglio del GDPR in quanto esprime ed è esito di un trattamento di dati particolari non necessario ai fini della sentenza.
Privacy e processo: conclusioni
La sentenza J.L. c. Italia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ci ricorda che nemmeno il processo “sfugge” al controllo di conformità agli standard imposti dall’articolo 8 CEDU sulla privacy.
In particolare, il diritto della persona interessata da un processo a che lo Stato tuteli la sua integrità morale e la sua privacy si concreta nell’onere del relatore della decisione di utilizzare (e riferire) i dati personali della persona stessa solo in quanto essenziali a tale decisione. Solamente in tal caso, infatti, l’interferenza nel diritto alla privacy potrà essere giustificabile alla luce di interessi contrapposti tutelati nel processo (quali, ad esempio, quelli della difesa).
É importante sottolineare che l’interpretazione data all’articolo 8 CEDU dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dovrà guidare anche l’applicazione della normativa relativa ai dati appartenenti a categorie particolari (la CEDU, si ricorda, ha rango subcostituzionale: C. Cost. sentt. 348 e 349/2007). E se la CEDU ammette che dati privati quali quelli “relativi alla vita sessuale o all'orientamento sessuale della persona” siano trattati quando ciò “è necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria”, il presupposto (come chiarito in J.L. c. Italia) è proprio quello della “necessità” del trattamento. Nel sistema CEDU, dunque, i dati relativi alla vita sessuale, ed ogni altro dato il cui trattamento può incidere sull’immagine, dignità o privacy della persona interessata dal processo, potrà essere legittimamente utilizzato nella decisione se - e solo se - essenziale alla decisione stessa.
Alieno all’approfondimento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è invece un secondo essenziale aspetto della tutela della privacy in un provvedimento giudiziario, ovvero quello della possibile re-identificazione del soggetto tutelato, anche se dello stesso sono stati omessi i riferimenti.
Le misure poste a tutela delle vittime di reati a sfondo sessuale e quelle di cui all’art. 52 del Codice Privacy non sono infatti sempre sufficienti ad escludere la possibilità che il soggetto interessato sia identificabile, e che la sua privacy sia quindi violata.
Il problema da risolvere, e che rimane sul tavolo, è quello se sia o meno sufficiente eliminare “l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi dell’interessato” perché una sentenza sia effettivamente “anonima”, e la privacy dell’interessato sia rispettata, nonché quello di individuare gli “altri dati identificativi” da eliminare, ingrato compito che la norma lascia alle cancellerie.
Nel caso, in effetti, stiamo parlando non tanto di un provvedimento anonimizzato, quanto piuttosto di un provvedimento “pseudonimizzato” (in esito al processo descritto dall’art. 4 par. 1 n. 5 del GDPR). Ed è difficile adottare misure tecniche per garantire la non riferibilità ad un soggetto del provvedimento giudiziario pseudonimizzato, specie considerando la duplice natura della sentenza, da un lato provvedimento pubblico e dall’altro provvedimento soggetto alle restrizioni di cui al GDPR e dell’art. 52 Cod. Privacy.
Si viene a creare quindi il paradosso della possibile consegna ad una stessa persona del provvedimento in chiaro (per finalità difensive) e del provvedimento pseudonimizzato (per finalità di studio o eventuale diffusione), trasferendo così nelle mani di quest’ultima la “custodia” del processo di pesudonimizzazione, e la tutela della privacy dei soggetti interessati dal provvedimento. L’evoluzione tecnologica magnifica le proporzioni della problematica, con inedite possibilità di diffusione del provvedimento - e violazione della privacy dell’interessato - ad esempio consentendo la sua re-identificazione mediante aggiunta di altri dati (come quando la sentenza è diffusa sui social con “commento”).
Limitare il trattamento dei dati (specie se appartenenti a categorie particolari) nelle sentenze per tutelare la privacy degli interessati nel processo appare quindi un problema urgente non solo in ragione degli standard CEDU, ma anche per le trasformazioni che sta subendo il patrimonio di provvedimenti giudiziali che vengono emessi dai giudici italiani.