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Berlusconi contro Italia: il processo Mediaset a Strasburgo

Processo Mediaset
Processo Mediaset

Abstract :

Il contributo esamina le domande rivolte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo al Governo italiano in sede di comunicazione del ricorso n. 8683/14 contro l’Italia, avente ad oggetto presunte violazioni dei diritti di Silvio Berlusconi nel c.d. processo Mediaset.

The contribution examines the questions addressed by the European Court of Human Rights to the Italian Government in the communication of application n. 8683/14 against Italy, concerning alleged violations of Silvio Berlusconi’s rights during the so-called Mediaset proceedings.

 

 

Indice:

Introduzione

La comunicazione del caso al Governo: inquadramento procedurale

Le domande ex articolo 6 § 1 CEDU (tribunale costituto per legge, indipendente e imparziale)

“Tribunale costituito per legge”

“Tribunale indipendente e imparziale”

Le domande ex articolo 6 §§ 1 e 3 CEDU (equo processo e diritti della difesa)

Le domande ex articolo 7 CEDU (principio di legalità penale)

La domanda ex articolo 4 Protocollo 7 (divieto di bis in idem)

Conclusioni

 

Introduzione

Il 26 aprile 2021 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (“Corte EDU”) ha comunicato al Governo italiano il caso Berlusconi c. Italia n. 8683/14 , avente ad oggetto presunte violazioni dei diritti del ricorrente nell’ambito del c.d. processo Mediaset (di seguito, “caso Berlusconi-Mediaset”).

Come noto, il processo Mediaset si svolse innanzi a Tribunale e Corte d’appello di Milano, concludendosi con la condanna del sig. Berlusconi per dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 d.lgs. 74/2000). La condanna divenne definitiva con sentenza emessa dalla Corte di Cassazione il primo agosto 2013.

In conseguenza di tale condanna, il sig. Berlusconi fu dichiarato decaduto dal mandato di Senatore in applicazione della c.d. legge Severino. Tale vicenda è stata oggetto di separato ricorso presentato dal sig. Berlusconi avanti la Corte EDU, radiato dal ruolo a richiesta del ricorrente (ma è interessante sottolineare che le doglianze fatte valere in quel ricorso erano sostanzialmente identiche a quelle recentemente dichiarate irricevibili dalla Corte in Miniscalco c. Italia e Galan c. Italia).

Nel caso Berlusconi-Mediaset oggi all’attenzione della Corte EDU, il ricorrente fa valere violazioni degli articoli 6 (equo processo), 7 (legalità penale), 13 (ricorso effettivo) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (“CEDU”), e dell’articolo 4 del Protocollo 7 (ne bis in idem).

Visto l’ampio lasso temporale decorso dal momento del deposito del ricorso (2014) al momento della comunicazione del caso (2021), è probabile che l’oggetto del ricorso non sia considerato dalla Corte EDU tra quelli meritevoli di una trattazione più spedita alla luce della sua Priority Policy. Si prospettano, quindi, tempi piuttosto lunghi per l’ottenimento di una sentenza (o decisione) sul caso Berlusconi-Mediaset.

Nell’attesa di una pronuncia il presente contributo, dopo aver brevemente inquadrato dal punto di vista procedurale la comunicazione del caso, esaminerà le domande rivolte dalla Corte EDU al Governo italiano, inquadrandole nel contesto della giurisprudenza CEDU in materia. È opportuno sottolineare che talune delle considerazioni offerte saranno – inevitabilmente – frutto di speculazioni, perché la comunicazione non ricomprende tutti i dettagli fattuali che sarebbero necessari per esaminare in modo approfondito le domande poste al Governo. Ad ogni modo, chi scrive cercherà di fornire al lettore gli strumenti per un esame ragionato delle potenziali criticità del caso.

 

La comunicazione del caso al Governo: inquadramento procedurale

La comunicazione ex art. 54 comma 2 lettera b) delle Rules of Court è l’atto con cui la Corte EDU “apre” il contraddittorio su un ricorso: è il momento in cui lo Stato “convenuto” viene reso edotto delle violazioni CEDU allegate dall’ “attore”/ricorrente. Tale atto ha natura pubblica ed è rinvenibile sul portale HUDOC.

La comunicazione include una descrizione dei fatti, ovvero della vicenda emergente dal ricorso. Tale descrizione può essere più o meno dettagliata, a seconda della complessità dei fatti e del livello di possibile contestazione della ricostruzione offerta dal/la ricorrente (per un esempio di comunicazione semplificata, si veda il caso Sy c. Italia; per un esempio di comunicazione standard, si veda il caso Alosa e altri c. Italia e Germania). Segue poi un riassunto, più o meno dettagliato, delle allegazioni del/la ricorrente. Infine, sono formulate delle domande, rivolte al Governo dello Stato interessato, con cui la Corte EDU chiede di prendere posizione circa quanto allegato dal/la ricorrente.

Tali domande non possono interpretate come un’anticipazione di violazione. Sebbene formulate dalla Corte EDU con l’obiettivo di indirizzare l’attenzione su taluni aspetti del ricorso (talora con riferimenti giurisprudenziali che esplicitano i punti considerati potenzialmente critici), le domande al Governo restano comunque fondate sulle doglianze avanzate dal ricorrente.

Come anticipato, dalla comunicazione del caso Berlusconi-Mediaset si evincono tre ordini di doglianze: un primo gruppo è relativo a presunte violazioni dell’art. 6 CEDU (equo processo), alle quali si collega una doglianza ex art. 13 CEDU (ricorso effettivo); segue una doglianza avente ad oggetto l’art. 7 CEDU e il divieto di irretroattività in materia penale, ed una relativa alla presunta violazione dell’art. 4 del Protocollo 7, concernente il divieto di bis in idem in materia penale.

Le domande formulate dalla Corte EDU sulla base di tali doglianze saranno di seguito esaminate alla luce della giurisprudenza CEDU e degli elementi fattuali che emergono dalla comunicazione, o che sono comunque noti vista la grande copertura mediatica del caso.

 

Le domande ex articolo 6 § 1 CEDU (tribunale costituto per legge, indipendente e imparziale)

Con riferimento alle doglianze ex art. 6 CEDU, le prime tre domande formulate della Corte si ricollegano ai c.d. requisiti istituzionali dell’equo processo, relativi cioè alla presenza di un “tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge”, imposto dal paragrafo 1 della norma.

In particolare, la Corte chiede al Governo:

  1. Il ricorrente ha goduto di una procedura davanti a un tribunale indipendente e costituito per legge, come richiede l’articolo 6 § 1 CEDU, in considerazione:
    1. del rigetto della sua istanza di rimessione del processo;
    2. del fatto che il Presidente del tribunale di Milano esercitò le sue funzioni al di là del termine fissato dal Consiglio Superiore della Magistratura;
    3. dell’attribuzione del caso alla Sezione Feriale della Corte di Cassazione?
  2. Il ricorrente è stato giudicato da un tribunale imparziale, tenuto conto delle dichiarazioni fatte alla stampa dal presidente della Sezione Feriale poco dopo la lettura del dispositivo e prima del deposito in cancelleria dei motivi della sentenza che confermava la sua condanna per frode fiscale (art. 6 § 1 CEDU)?
  3. Il ricorrente aveva a sua disposizione un ricorso interno effettivo con cui far valere, ai sensi dell’art. 13 CEDU, la doglianza relativa al mancato rispetto del diritto a un tribunale imparziale?

Le domande richiamano celebri aspetti della vicenda processuale del caso Mediaset. È noto infatti che il sig. Berlusconi presentò un’istanza di rimessione del processo radicato a Milano per “legittimo sospetto”, che fu rigettata dalla Sezione VI della Cassazione con ordinanza n. 22112 del 2013. Fu rigettata anche la sua eccezione relativa all’applicazione del Presidente del collegio del Tribunale di Milano oltre i termini massimi stabiliti dalle tabelle del CSM (vedasi quanto indicato sul punto nella sentenza di Cassazione nel caso Mediaset , a pagg. 12 e 58). Vi furono poi controversie circa l’assegnazione del caso alla Sezione Feriale della Cassazione. Infine, dopo la lettura del dispositivo – ma prima del deposito – della sentenza che rese definitiva la condanna, l’ex giudice Esposito, allora presidente della Sezione Feriale, rilasciò dichiarazioni che furono da molti considerate come un’indebita anticipazione sulla motivazione della sentenza. Su tutti questi aspetti insistono le prime domande della Corte EDU, che le ricollega – appunto – ai c.d. requisiti istituzionali dell’equo processo CEDU.

“Tribunale costituito per legge”

I requisiti istituzionali dell’equo processo impongono, innanzitutto, che l’organo giudicante sia “costituito per legge”, ovvero composto conformemente alla legislazione sulla costituzione e competenza degli organi giudiziari (Jorgic c. Germania § 64), nel rispetto delle norme che regolano la composizione del collegio nel caso concreto (Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda § 223). La ratio è quella di “assicurare che l’ordinamento giudiziario di una società democratica non dipenda dalla discrezionalità dell’esecutivo, ma sia regolato da una legge  promulgata dal Parlamento” (Richert c. Polonia § 42). In applicazione di questi principi, la Corte EDU ha riscontrato violazioni dell’equo processo in casi in cui il mandato di un giudice era stato tacitamente rinnovato dopo la scadenza del termine stabilito per legge (Gurov c. Moldavia, Oleksandr Volkov c. Ucraina).

Alla luce di questa giurisprudenza deve essere letto il tema dell’applicazione del Presidente del collegio del Tribunale di Milano che giudicò Berlusconi oltre i termini massimi stabiliti dalle tabelle del CSM. Se – come è probabile – il Governo avanzerà l’argomento sposato dalle corti interne per cui il mancato rispetto di tali criteri costituisce mera irregolarità amministrativa, sarà interessante vedere che conclusioni raggiungerà la Corte EDU sul punto.

Da un lato, non può non evidenziarsi come i precedenti in cui la Corte EDU ha riscontrato violazioni riguardavano casi in cui i giudici mancavano radicalmente della loro capacità di essere tali (ad esempio perché, come in Gurov, non era stato passato l’apposito concorso, oppure perché, come in Oleksandr Volkov, la nomina era frutto di una prassi amministrativa formatasi a fronte di una vera e propria lacuna legislativa). In quei casi, era dunque evidente che la ratio stessa del requisito di un tribunale “costituito per legge”, ovvero la tutela contro eventuali abusi da parte dell’esecutivo, veniva a saltare. Di questa conclusione si può dubitare, invece, nel caso Berlusconi-Mediaset, ove il Presidente del collegio del tribunale di Milano ricopriva regolarmente la funzione di giudice. Tuttavia, è altresì vero che la nozione di “legge” adottata dalla giurisprudenza CEDU è sempre stata una nozione “sostanziale” che ben può ricomprendere norme di ragno inferiore, quali quelle ricomprese nelle tabelle del CSM: un’eventuale interpretazione formalistica del rispetto del requisito del tribunale “costituito per legge” potrebbe dunque condurre a riscontrare una violazione dell’art. 6 nel caso di specie.

Per quanto riguarda l’assegnazione del caso alla Sezione Feriale della Corte di Cassazione, a parere di chi scrive ciò non pone particolari problemi in ottica CEDU. Come precisato dalla stessa Cassazione con una nota diffusa a seguito delle polemiche sul caso, “[i]n ragione della rilevata urgenza dovuta all’imminente scadenza del termine di prescrizione dei reati durante il periodo feriale, il processo, in ossequio alle previsioni di cui alla legge n.742 del 1969 ed alle relative previsioni tabellari, venne assegnato alla Sezione feriale, e quindi ad un collegio già costituito in data anteriore all’arrivo del fascicolo alla Corte di cassazione, dunque nel pieno rispetto del giudice naturale precostituito per legge”. Pertanto, la particolare composizione della Cassazione nel caso Berlusconi-Mediaset appare conforme sia alla legislazione sulla costituzione e competenza degli organi giudiziari, sia alle norme che regolano la composizione del collegio nel caso concreto.

“Tribunale indipendente e imparziale”

I requisiti istituzionali dell’equo processo CEDU richiedono che il tribunale, oltre a essere costituito per legge, sia indipendente ed imparziale.

L’indipendenza è intesa come libertà da illegittime influenze interne od esterne al potere giudiziario (Parlov-Tkalčić c. Croazia § 85). Per stabilire se un tribunale possa essere ritenuto «indipendente» è necessario prendere in considerazione le modalità di designazione e la durata del mandato dei suoi componenti, l’esistenza di una tutela contro le pressioni esterne e se vi sia o meno una parvenza d’indipendenza (Di Giovanni c. Italia § 54).

L’imparzialità è intesa come assenza di pregiudizi o preconcetti da parte del giudicante, valutata secondo un approccio soggettivo (il tribunale non manifesta alcuna presa di posizione né pregiudizio personale) e oggettivo (esistenza di sufficienti garanzie atte ad escludere ogni legittimo sospetto circa l’imparzialità del giudice) (Kyprianou c. Cipro (GC) § 118). I confini tra i due approcci sono labili (Kyprianou c. Cipro (GC) § 119), così come lo sono i confini tra l’indipendenza e l’imparzialità (Parlov-Tkalčić c. Croazia § 85), poiché l’assenza di indipendenza può determinare carenza di imparzialità.

Qualunque aspetto sia in gioco, per la Corte EDU le apparenze possono rivestire una certa importanza, poiché è in gioco la fiducia che ha il pubblico nell’operato del potere giudiziario; tuttavia, è necessario che i dubbi del ricorrente circa indipendenza o imparzialità del giudice siano oggettivamente giustificabili (Sahiner c. Turchia, § 44; Grieves c. Regno Unito § 69). Inoltre, l’imparzialità soggettiva del giudice è presunta sino a prova contraria (Kyprianou c. Cipro (GC) § 119). Pertanto, per riscontrare un’assenza di indipendenza o imparzialità del giudice, è necessario che sussistano elementi oggettivi stringenti in grado di sostanziare adeguatamente le allegazioni del ricorrente.

Nella giurisprudenza CEDU, i casi di violazione dell’art. 6 CEDU per carenza di indipendenza del giudice hanno generalmente avuto riguardo alle modalità di nomina dei giudici stessi (che possono ad esempio dipendere da una delle “parti” in giudizio, come il ministero della difesa in una corte marziale: Sahiner c. Turchia).

Per quanto riguarda eventuali influenze esterne, quando a giudicare del caso concreto siano giudici professionali, e non popolari (giuria), la Corte EDU presuppone che essi siano adeguatamente formati ad agire indipendentemente da tali influenze. Pertanto, per riuscire a dimostrare che il loro giudizio è stato influenzato da elementi esterni al processo (come una campagna di stampa particolarmente intensa: Priebke c. Italia (dec.); Akay c. Turchia (dec.)) non è sufficiente il punto di vista del ricorrente, essendo necessarie prove stringenti, ad esempio le modalità di formulazione delle decisioni.

Esempi di violazione dell’art. 6 CEDU per carenza di imparzialità del giudice si sono avuti quando il presidente del collegio giudicante aveva rilasciato alla stampa, nel corso del processo, dichiarazioni che manifestavano un’opinione preconcetta sul caso (Buscemi c. Italia), ad esempio pronunciandosi in favore della colpevolezza dell’imputato (Lavents c. Lettonia).

Alla luce di questa breve panoramica di giurisprudenza CEDU, il fatto che l’istanza di rimessione del processo sia stata rigettata, e che il sig. Berlusconi sia stato giudicato nel foro di Milano (ove egli allegava un “clima giudiziario sospetto avuto riguardo alla serenità e alla imparzialità di giudizio”) dovrebbe essere corroborata da argomentazioni particolarmente solide per poter condurre ad affermare una violazione dell’articolo 6 CEDU. La capacità del Tribunale e della Corte d’appello di Milano (organi composti di giudici professionali) di giudicare serenamente a prescindere dal contesto sarà infatti presunta dalla Corte EDU, e considerato l’ampio ragionamento con cui la Cassazione ha rigettato l’istanza del ricorrente, appare davvero difficile immaginare che elementi favorevoli all’esistenza di un legittimo sospetto siano sfuggiti alle corti interne per poi “apparire” davanti alla Corte EDU.

Per quanto riguarda la doglianza relativa alle dichiarazioni rilasciate dall’ex giudice Esposito prima del deposito della sentenza di Cassazione, sarà necessario innanzitutto accertare se esse esprimessero effettivamente un giudizio sull’esito della vicenda. Tale aspetto è stato oggetto di contestazione da parte di Esposito in passato, ed oggi l’ex magistrato dichiara di aver depositato istanza di intervento come terzo nella procedura davanti alla Corte EDU.

Inoltre, nel caso Berlusconi-Mediaset – a differenza dei citati casi Buscemi e Lavents – le dichiarazioni non sono state rilasciate nel corso del processo, ma dopo l’adozione della decisione. È vero che le motivazioni non erano ancora state depositate, ed è vero che le garanzie dell’articolo 6 si impongono anche in questa fase. Tuttavia, alla luce del particolare momento in cui le dichiarazioni furono rese, sarebbe particolarmente difficile sostenere (e dimostrare) che esse abbiano avuto una reale influenza sull’esito del processo (mutatis mutandis, Iancu c. Romania, ove il mutamento di un membro del collegio tra l’adozione della decisione ed il deposito della sentenza è stato ritenuto conforme alle esigenze dell’art. 6 CEDU perché il nuovo membro non aveva avuto alcuna influenza sull’esito del giudizio).

Peraltro, leggendo la domanda n. 3 posta dalla Corte al Governo, sorge anche un dubbio in merito alla ricevibilità di questa doglianza. La Corte EDU, come visto, chiede se il sig. Berlusconi avesse a disposizione un rimedio interno effettivo per far valere l’allegata parzialità dell’ex giudice Esposito. Orbene, il fatto che tale domanda sia stata posta significa - molto probabilmente - che il ricorrente non ha agito contro l’ex giudice per le dichiarazioni rese da costui alla stampa, sostenendo davanti alla Corte EDU di non avere a disposizione un rimedio accessibile ed effettivo da esperire ai fini dell’esaurimento delle vie di ricorso interne ex art. 35 CEDU. Chi scrive si domanda se un rimedio con tali caratteristiche non possa, forse, essere rinvenuto nella disciplina della responsabilità civile dei magistrati. La domanda resta aperta, tenendo conto che un’azione per responsabilità civile grava l’attore dell’onere della prova, e dunque potrebbe non essere considerata dalla Corte EDU come un rimedio sufficientemente accessibile da dover essere sempre esperito.

 

Le domande ex articolo 6 §§ 1 e 3 CEDU (equo processo e diritti della difesa)

Sempre con riferimento all’art. 6 CEDU, le domande formulate dalla Corte ai numeri da 5 a 7 hanno ad oggetto presunte violazioni del “nucleo duro” delle garanzie dell’equo processo penale, ovvero parità delle armi e diritti della difesa. Esse sono così formulate:

  1. Il rigetto di cinque istanze di rinvio dell’udienza per impedimento legittimo e per ragioni di salute ha privato l’interessato del diritto di partecipare al proprio processo (art. 6 §§ 1 e 3)?
  2. Il rigetto dell’istanza di traduzione di alcuni documenti del fascicolo ha privato il ricorrente del diritto a essere informato, in una lingua che egli comprende, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico ex art. 6 §§ 1 e 3 a)?
  3. Il ricorrente ha disposto del tempo necessario alla preparazione della sua difesa, come imposto dall’art. 6 §§ 1 e 3 b)?
  4. Il ricorrente ha avuto diritto a un processo equo, come imposto dall’art. 6 §§ 1 e 3d), tenuto conto della pretesa violazione del principio di parità delle armi in ragione dell’impossibilità di esaminare o fare esaminare un testimone a carico, e di ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a difesa nelle stesse condizioni dei testimoni a carico?

Anche in questo caso le domande rammentano eventi già noti alla cronaca nazionale, come le varie richieste di invio dell’udienza per impegni istituzionali legati all’allora carica di Presidente del Consiglio dei Ministri. Sono poi chiamati in causa aspetti tecnico-procedurali, come il rifiuto di disporre la traduzione di alcuni documenti in lingua straniera depositati dall’accusa, o la non ammissione di taluni testi richiesti dalla difesa. Dietro tali domande, vi sono doglianze su cui è difficile offrire riflessioni di carattere generale, perché la loro fondatezza (o infondatezza) dipende grandemente dalle circostanze del caso concreto.

Ad esempio, se è vero che “il diritto dell’imputato di essere presente al processo (…) è uno dei requisiti essenziali dell’Articolo 6” (Hermi c. Italia, § 58), è altresì vero che nessuna norma dà all’imputato il diritto di dettare le tempistiche del proprio processo (che, peraltro, devono essere coniugate con le esigenze di una trattazione spedita). Pertanto, se la Corte EDU accertasse che nel caso concreto le istanze di rinvio dell’udienza sono state rigettate dalle corti nazionali con motivazione non arbitraria, fondata sulla mancanza dei presupposti legittimanti un’assenza dell’imputato dal processo, la doglianza del sig. Berlusconi sarebbe dichiarata manifestamente infondata.

Ancora: se è vero che deve essere data all’imputato una “adeguata opportunità di confrontare e interrogare i testimoni a carico” (Lucà c. Italia § 39), il principio non è privo eccezioni, motivate ad esempio dalla impossibilità oggettiva di colui che ha rilasciato dichiarazioni in altra sede di partecipare al processo (Schatschaschwili c. Germania), o dal giustificato rifiuto di testimoniare (ad esempio per non autoincriminarsi: Cabral c. Paesi Bassi), e via dicendo. Se la Corte EDU accertasse che nel caso concreto l’impossibilità di esaminare un testimone a carico rientrava in una delle legittime eccezioni alla regola generale di cui all’articolo 6 § 3 d), la doglianza sarebbe dichiarata manifestamente infondata.
Peraltro, in materia di acquisizione della prova, la Corte EDU è molto consapevole del proprio ruolo “sussidiario” ai giudici nazionali: è ormai più che consolidata in giurisprudenza l’affermazione per cui “l’articolo 6 § 1 della Convenzione non disciplina l’ammissibilità né la valutazione delle prove, aspetti primariamente regolamentati dal diritto nazionale e dalle corti interne”, accompagnata dalla precisazione per cui “la Corte non deve agire come un organo giudiziario di quarta istanza, e pertanto non metterà in discussione ai sensi dell’articolo 6 le valutazioni fatte dalle corti nazionali, salvo che le conclusioni raggiunte siano arbitrarie o manifestamente irragionevoli” (Moreira Ferreira c. Portogallo (n.2)  § 83). Pertanto, una doglianza relativa alla mancata ammissione di un testimone a difesa sarà facilmente dichiarata infondata qualora il motivo della non ammissione fosse ragionevole (ad esempio, la difesa aveva indicato un numero di testimoni molto elevato, ed il giudice ne ha espunto taluni perché ritenuti non in grado di apportare informazioni significative).

Simili osservazioni devono essere formulate sulla doglianza relativa ai documenti depositati dal PM e non tradotti in italiano. L’articolo 6 § 3 a) CEDU impone di fornire alla persona indagata informazioni complete e dettagliate circa le basi giuridiche e fattuali dell’accusa, eventualmente tradotte in una lingua a lui/lei comprensibile. Ciò significa che l’indagato deve essere informato circa la condotta che si presume egli abbia realizzato e la qualificazione giuridica attribuitale (Sejdovic c. Italia (GC)  § 90; Mattoccia c. Italia § 59): è esclusivamente a queste informazioni che la norma fa riferimento quando parla dell’eventuale necessità di traduzione in lingua comprensibile, ed il presupposto è che vi sia la prova, o ragioni per credere, che l’accusato non abbia sufficiente conoscenza della lingua in cui l’informazione è fornita (Brozicek c. Italia). Pertanto, l’oggetto del diritto di traduzione è limitato. La CEDU non riconosce il diritto ad ottenere la traduzione dell’intero fascicolo processuale (X. c. Austria): non vi è dunque il diritto ad ottenere la traduzione di un qualunque documento del fascicolo che non sia essenziale alla definizione delle basi giuridiche e fattuali della accusa.

Alla luce di quanto esposto, la fondatezza della doglianza circa la non traduzione di taluni documenti dipenderà grandemente dalla natura di tali documenti, e dalla lingua in cui essi erano redatti. Se la loro mancata conoscenza non poteva determinare la mancata comprensione dell’accusa, il diniego di traduzione non comporterebbe alcuna violazione della CEDU. Inoltre, se si trattasse, in ipotesi, di documenti relativi alle società estere del ricorrente, la Corte EDU potrebbe anche decidere che la conoscibilità di tali documenti da parte del sig. Berlusconi in sede esterna a quella penale è idonea ad escludere che l’assenza di traduzione abbia inciso sui diritti della difesa.

 

Le domande ex articolo 7 CEDU (principio di legalità penale)

La Corte EDU formula due domande con riferimento al rispetto dell’art. 7 CEDU, ovvero al principio di legalità penale:

  1. L’azione per la quale il ricorrente fu condannato costitutiva un’infrazione secondo il diritto nazionale al momento in cui era stata commessa, ai sensi dell’art. 7 CEDU?
  2. Il ricorrente si è visto infliggere, in violazione dell’art. 7, una pena più grave di quelle applicabile al momento in cui ha commesso il fatto, in ragione della non applicazione di circostanze attenuanti? 

Entrambe le domande appaiono riferirsi al corollario dell’irretroattività, intesa, nella prima domanda, come divieto di condanna per un fatto che non costitutiva reato al momento della sua commissione, e nella seconda domanda come divieto di imposizione di una pena più severa di quella applicabile al momento della commissione del fatto.

È noto che il principio di legalità penale ha, nel sistema CEDU, una portata particolare ed autonoma rispetto al corrispondente principio negli ordinamenti nazionali: non solo perché la “materia penale” è definita in base all’applicazione dei c.d. criteri Engel (Engel e altri c. Paesi Bassi), ma anche perché la nozione stessa di “legge” è autonoma, includendo non solo il diritto scritto ma anche il diritto giurisprudenziale, ed imponendo requisiti di accessibilità e prevedibilità (C.R. c. Regno Unito). Pertanto, come ben noto ai giuristi italiani, una violazione dell’art. 7 CEDU può originare dall’applicazione “retroattiva” di una giurisprudenza consolidatasi dopo la commissione del fatto (Contrada c. Italia n. 3).

Dalla comunicazione emerge una sola doglianza del ricorrente relativa all’art. 7 CEDU: quella circa la presunta “applicazione retroattiva del d.lgs.[sic] 92/2008”. Non sono dati ulteriori dettagli. Pertanto, l’analisi delle due domande poste dalla Corte EDU al Governo italiano, in assenza di una conoscenza precisa del ricorso presentato dal Berlusconi, è inevitabilmente fondata su speculazioni.

Avendo riguardo al motivo 45 del ricorso in Cassazione del sig. Berlusconi nel caso Mediaset (che si incentra sul mancato riconoscimento delle attenuanti generiche ex art. 62bis CPP) si può ipotizzare che la doglianza richiamata in comunicazione abbia riguardo la modifica introdotta dal D.L. 92/2008 all’art. 62 bis ultimo comma CP (irrilevanza della sola incensuratezza per la concessione delle attenuanti generiche), che il ricorrente potrebbe assumere come causa della non applicazione delle attenuanti nel suo caso. Dalla sentenza di Cassazione (pag. 202) emerge infatti che il Berlusconi aveva motivato la richiesta delle generiche sulla base, tra l’altro, della sua incensuratezza. Se così fosse, a parere di chi scrive la conclusione in merito è facile e va nel senso dell’infondatezza della doglianza, poiché dalla sentenza di Cassazione stessa risulta molto chiaramente che la domanda di concessione delle attenuanti generiche era stata presentata sulla base di diversi elementi, e che non fu rigettata esclusivamente in ragione dell’intervenuta irrilevanza del requisito della incensuratezza.

La domanda 8 impone ancora maggiori speculazioni: essa sembra suggerire un dubbio circa l’esistenza di una norma che sanzionasse la condotta di frode fiscale al momento della sua commissione, ma - come anticipato - la comunicazione non riporta una doglianza del ricorrente sul punto.

Si ricorda che il sig. Berlusconi fu condannato ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 74/2000 perché, nelle dichiarazioni fiscali di Mediaset Spa per gli anni 2003 e 2004, erano stato indicati elementi passivi fittizi originanti da operazioni compiute negli anni 1995-1998, alle quali Berlusconi aveva personalmente partecipato. Come emerge dai motivi di ricorso in Cassazione (in particolare, dal motivo n. 43) il Berlusconi negava, invece, di aver avuto una qualunque incidenza sulle dichiarazioni fiscali per gli anni 2003 e 2004. La sua difesa Berlusconi sosteneva che la responsabilità dell’imputato avrebbe potuto essere riferita alle false fatturazioni, ma non al reato di dichiarazione fraudolenta, rispetto al quale si contestava, peraltro, la possibilità di una condotta frazionata (vedasi pagine 45-46 della sentenza di Cassazione). Come eccepito dalla difesa di una co-imputata (pagg. 47-48 della sentenza di Cassazione), nel lasso di tempo intercorrente tra le operazioni e le dichiarazioni fiscali la giurisprudenza di Cassazione avrebbe mutato di avviso circa la configurabilità del reato in caso di ammortamento frazionato di fatture fittizie in anni successivi alla loro registrazione.

Chi scrive immagina che un quesito di conformità all’articolo 7 CEDU possa essere stato sollevato in considerazione di questo “scarto temporale” tra condotte a cui l’imputato riconosce di aver partecipato e condotte che integrano reato, forse anche alla luce della giurisprudenza nazionale che consente il legame tra le due: tuttavia, andare oltre questa (già avanzata) speculazione non è possibile. Il vero senso della domanda n. 8 resta dunque aperto.

 

La domanda ex articolo 4 Protocollo 7 (divieto di bis in idem)

L’ultima domanda formulata dalla Corte EDU ha ad oggetto il ne bis in idem, ed è così formulata:

  1. Il ricorrente è stato giudicato due volte per la medesima infrazione sul territorio dello Stato, in violazione dell’articolo 4 § 1 del Protocollo 7, alla luce delle sue allegazioni per cui i fatti oggetto della procedura penale in questione erano “in sostanza identici a quelli delle due procedure in esito alle quali ha beneficiato di una sentenza di non doversi procedere”?

Dalla lettura delle doglianze e dei fatti riportati nella comunicazione, appare chiaro che questa domanda è fondata sulla pretesa identità dei fatti per cui Berlusconi fu condannato (relativi all’imputazione per dichiarazione fraudolenta con riferimento alle dichiarazioni 2002 e 2003) e dei fatti per cui il Tribunale di Milano dichiarò non doversi procedere per intervenuta prescrizione (relativi a tre diversi capi di imputazione: appropriazione indebita, dichiarazione fraudolenta, e false comunicazioni sociali, per fatti commessi sino al 1999).

L’art. 4 § 1 del Protocollo 7 alla CEDU sancisce il divieto di bis in idem, interpretato come divieto di esercitare l’azione penale o aprire un giudizio per un secondo reato che origini da fatti “identici o sostanzialmente uguali” a quelli già oggetto di sentenza definitiva nel medesimo Stato (Sergey Zolotukhin c. Russia § 82). I fatti in questione sono l’“insieme di circostanze fattuali che riguardano il medesimo imputato e sono inestricabilmente legate tra loro nel tempo e spazio, la cui esistenza deve essere dimostrata al fine di giungere a condanna” (ibid., § 84).

La Corte EDU ha vagliato l’operatività del divieto di bis in idem in numerosi casi concernenti reati fiscali, ad esempio ritenendo che l’applicazione di sanzioni penali per falsità nella dichiarazione dei redditi, e per l’irregolare tenuta dei libri contabili che erano parte della documentazione fornita alle autorità al fine della falsa dichiarazione, siano condotte sufficientemente distinte tra loro (Shibendra Dev c. Svezia). Viceversa, quando l’omessa dichiarazione di redditi relativi al medesimo periodo temporale genera sia l’applicazione di una sanzione tributaria (sostanzialmente penale) che l’applicazione di una sanzione penale, allora si ha identità di fatti idonea a far scattare il divieto di bis in idem (JÓHANNESSON e altri c. Islanda).

Nel caso del sig. Berlusconi la Corte EDU dovrà dunque esaminare nel dettaglio i fatti alla base della condanna, e quelli alla base della dichiarazione di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, al fine di verificarne l’eventuale identità.

 

Conclusioni

La comunicazione al Governo italiano del caso Berlusconi c. Italia n. 8683/14, pur nella sua essenzialità, dimostra come gran parte delle doglianze già sollevate dal ricorrente avanti le corti interne siano state riproposte davanti alla Corte EDU.

Come si è cercato di dimostrare nel presente contributo, talune di queste doglianze - con tutti i limiti che un esame “avulso” dalla conoscenza del ricorso può patire - appaiono prima facie infondate alla luce della giurisprudenza CEDU in materia.

Per altre, restano invece aperte numerose questioni, fattuali e giuridiche, che potranno essere oggetto di delucidazione solo in sede di sentenza (o decisione). Purtroppo, si prospettano tempi assai lunghi per l’ottenimento di una pronuncia sul caso, che non appare essere tra quelli considerati come “prioritari” dalla Corte EDU.