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Quelle verità scomode sulle missioni in Iraq e Afghanistan

missioni in Iraq e Afghanistan
missioni in Iraq e Afghanistan

di Gianandrea Gaiani

Il ferimento di cinque incursori delle forze speciali di Esercito e Marina ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il ruolo delle truppe italiane rimaste in Iraq dopo la caduta di Mosul e del Califfato. Circa 900 militari rispetto ai 1.600 presenti fino al 2018, con componenti dedicate all’addestramento delle forze curde e della polizia irachena, reparti aerei ed elicotteristici e la Task Force 44 di forze speciali.

A differenza di quelli alleati della Coalizione, il contingente italiano non ha mai avuto compiti di combattimento ma solo di addestramento, consulenza militare, intelligence, sorveglianza e ricognizione aerea.

Il ferimento dei 5 militari, abbinato al coincidente sedicesimo anniversario dell’attacco terroristico qaedista contro la base italiana a Nassirya, ha rappresentato nella sua tragicità un’occasione per fare un po’ di chiarezza, senza cortine fumogene politicamente corrette, sui compiti assegnati alle nostre forze speciali (in Iraq come in Afghanistan) ma ha visto invece visto ribadire i soliti triti e ritriti “master messages” circa  i nostri militari “buoni” e impegnati a svolgere missioni “di pace”, attività solo addestrative o in ogni caso non letali.

Circa il ferimento degli incursori le poche notizie rese note dalle autorità hanno riferito che l’ordigno esplosivo ha colpito i soldati mentre si trovavano a piedi (anche se le ferite agli arti inferiori comuni a tutti i feriti indicavano chiaramente che si trovavano a bordo di un veicolo al momento dell’esplosione) al termine di una missione addestrativa al fianco delle unità speciali curde presso le quali le nostre forze speciali svolgono colpiti di addestramento e consulenza (training e mentoring).

Quanto realmente accaduto è stato però rivelato da un articolo di Fausto Biloslavo uscito su “Il Giornale” che ha svelato i retroscena e i dettagli dell’operazione contro le milizie dello Stato Islamico eseguita dai reparti d’élite dei peshmerga e dagli incursori italiani della Task Force 44, intervistando l’ufficiale curdo che guidò la missione.

Il dettagliato resoconto ha rivelato che i militari italiani sono stati feriti a bordo di un veicolo pick-up 4×4 civile non protetto Ford F-350, fornito in centinaia di esemplari da Washington alle forze militari e di polizia curde e irachene.

L’ordigno esplosivo improvvisato è esploso sotto il veicolo che trasportava 5 italiani e 2 curdi, tutti feriti agli arti inferiori.

Non deve del resto stupire il fatto che gli uomini delle forze speciali italiane e alleate operino mischiati alle truppe locali a cui offrono assistenza e si muovano a bordo dei loro stessi veicoli anche per non risultare visibili e distinguibili agli occhi del nemico come accadrebbe se venissero impiegati i veicoli militari in dotazione alle nostre forze armate ma non alle forze curde o irachene.
Come ha raccontato il tenente di prima classe Ranj Rizgar Noah l’obiettivo dell’operazione erano “fra 80 e 120 uomini dello Stato islamico” , e vi hanno preso parte “22 uomini delle vostre forze speciali che partecipavano alla missione e 25 Peshmerga”.

Un dato numerico che riveste un importante significato in termini operativi poiché un reparto composto da italiani e curdi in proporzioni simili indica un’operazione congiunta più che una attività di “mentoring” in cui vi sarebbe un nutrito reparti curdo affiancato da una mezza dozzina di consiglieri militari italiani o di altri contingenti della Coalizione.

Ma l’aspetto paradossale dell’articolo di Biloslavo, reporter di guerra che ha già in più occasioni svelato aspetti nascosti delle operazioni militari italiani, è che le notizie ruportate dalla testimonianza dell’ufficiale curdo non hanno avuto nessuna eco né sulla stampa né in tv.

Neppure il Giornale ha dato lo spazio adeguato (prima pagina) a un’esclusiva che è stata invece relegata nelle pagine interne nonostante abbia cambiato la narrazione del ferimento dei nostri militari raccontandola nei dettagli.

Inutile spendere tempo a discutere della crisi di credibilità dei media se poi le notizie rilevanti vengono nascoste o tenute a basso profilo, magari per non creare imbarazzi ai vertici governativi e istituzionali.

Quelle stesse istituzioni che non sono però riuscite a impedire che i nomi dei militari feriti circolassero sui social e poi venissero pubblicati da alcuni quotidiani. Non ha molto senso nascondere i dettagli di un’operazione di routine in cui sono rimasti feriti dei militari mentre è invece molto grave rivelare i nomi dei membri delle unità di incursori.

Facile dire che i media non avrebbero dovuto renderli noti ma il problema investe la responsabilità dello Stato di tutelare l’anonimato di chi opera sul campo nell’intelligence o nei reparti di forze speciali.

Fatto ancor più grave tenuto conto che da anni nessuna foto dei nostri militari assegnati alla Coalizione contro Il Califfato viene diffusa senza aver prima oscurato il viso di ogni soldato, perché in questa “guerra” è chiaro a tutti che l’Isis dispone di molti adepti anche in Italia ed esporre l’identità dei militari potrebbe comportare rischi di rappresaglie contro di loro o contro i loro famigliari.

Anche alla luce di questa consapevolezza e delle misure standard adottate è molto grave che non sia stata adeguatamente protetta l’identità di membri delle forze speciali feriti mentre partecipavano al fianco dei curdi alle operazioni contro l’Isis. E ancor più grave è che di questo problema non si parli.