Il razzismo non si combatte con le paranoie

Razzismo
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Vedete, a noi converrebbe tacere ed anzi di più, unirci al coro di chi si straccia le vesti per l’emergenza razzismo nel nostro Paese.

D’altronde basta poco di questi tempi, tra social e facili testimonial, a raccogliere consensi su temi spinosi pur di non approfondire. Qui però vorremmo quantomeno provare ad avanzare un elementare ragionamento: senza distinguere l’autentico razzismo da episodi isolati, irrilevanti se non addirittura goliardici, questo resterà l’ennesimo tema da campagna elettorale permanente.

Prendiamo un paio di casi della scorsa settimana, partendo dal più paradossale.

Nel lato blu di Manchester è stato aperto un caso sul post di Bernardo Silva, centrocampista offensivo dei citizens, riguardante il compagno di squadra e amico di una vita Benjamin Mendy: Silva aveva infatti postato sui social un collage/parallelo di immagini con un giovanissimo Mendy e il testimonial di una marca di cioccolatini, tale Conguitos, scrivendo su: “Guess who” (Indovina chi), il tutto accompagnato da due emoticon eloquenti.

Mendy aveva apprezzato lo scherzo rispondendo divertito “1-0 per te, per ora”, tra applausi e faccine divertite; insomma tutti ci avevano riso su ma non la Football Association (la federazione inglese), che sotto la pressione dell’associazione Kick it out ha contattato direttamente il Manchester City chiedendo spiegazioni e minacciando l’apertura di una inchiesta per razzismo.

A questo punto è intervenuto direttamente Guardiola, un alfiere del calcisticamente corretto, consigliando alla FA di concentrarsi su altri problemi e parlando del rapporto letteralmente “fraterno” tra Silva e Mendy.

 “Siamo estremamente delusi nel vedere il tweet pubblicato da Bernardo Silva, poi cancellato. Gli stereotipi razzisti non sono mai accettabili come “battute” e siamo allibiti dal fatto che qualcuno che è un modello per milioni di persone non sia riuscito a comprendere la natura discriminatoria del suo post. La FA è stata informata e riteniamo che debbano essere intraprese delle azioni, inclusa l’educazione obbligatoria – che è vitale per sfidare comportamenti offensivi come questo” (Comunicato dell’associazione antirazzista Kick it out).

Ma lasciando perdere la polizia del pensiero britannica, abituata evidentemente ad Orwell, torniamo in patria e lo facciamo direttamente con la testimonianza di Matteo Marani negli studi di Sky Sport 24: precisiamo, un grande giornalista capace anche di approfondire, ritirare fuori storie dimenticate e uscire dalla cronaca calcistica, ma che pochi giorni fa si è lanciato in un paragone quantomeno improprio, dopo aver stigmatizzato il comportamento di Gasperini e del tifo atalantino.

Sostanzialmente prima la lezione è toccata al Gasp, colpevole di aver chiesto ai giornalisti in conferenza stampa se avessero sentito i cori discriminatori a Dalbert e parlando di qualche idiota isolato; poi al grosso del pubblico bergamasco, colpevole invece di aver fischiato l’annuncio dello speaker e di non aver quindi preso le distanze dai presunti razzisti.

Ma proprio qui Marani ha esagerato, avanzando un parallelismo tra i razzisti e i terroristi: come negli anni ‘70-’80, sosteneva il vice-direttore di Sky Sport, i terroristi sono stati isolati da tutti e dai loro stessi ex compagni di strada (pensiamo al PCI con il terrorismo rosso o al MSI con quello nero), così gli spettatori oggi devono escludere dalla società civile i razzisti, e non intrattenerci più rapporti. Beh, lasciateci dire che paragonare anche indirettamente i terroristi che hanno fatto centinaia di vittime con gli autori di qualche ululato è una mossa quantomeno improvvida – per non dire ridicola.

Ecco, l’atteggiamento che ci dà fastidio e che risulta persino controproducente è questo.

D’altronde i media avrebbero dovuto capirlo, non ci vuole un genio per leggere a ritroso le reazioni popolari agli avvenimenti degli ultimi anni: più appelli arrivavano dall’alto, più dal basso quasi per psicologia di massa inversa si faceva il contrario. Si è creato in questi ultimi anni uno iato, una frattura tra media tradizionali e popolo enorme e difficilmente ricucibile (soprattutto se si continua così), e questo è un pericolo per tutti.

Ma Marani prima di colpevolizzare l’intero stadio e i fischi all’annuncio dello speaker non si è chiesto il perché di quei fischi? Prima di accusare sostanzialmente di connivenza con i razzisti la curva dell’Atalanta non si è interrogato, da uomo di calcio, sulle dinamiche automatiche degli stadi?

Qualsivoglia annuncio dello speaker viene di base fischiato dalle curve, è sempre andata così nel clima-stadio. Questa volontà di educare gli stadi è francamente patetica: faremmo prima a togliere le curve e lasciar solo le tribune, o ad eliminarle definitivamente per lasciare spazio unicamente alle televisioni.

Chiunque abbia vissuto il calcio sa benissimo quanto gli stadi, nel male e nel bene, abbiano rappresentato ambienti ostili di guerra simulata, spazi in cui si poteva ricreare la dicotomia amico-nemico, luoghi franchi in cui generazioni senza più guerre potessero sfogare “la naturale aggressività dell’uomo”, per citare Massimo Fini. Ciò non significa che dobbiamo assistere impotenti a ululati o cori razzisti ma il problema va affrontato razionalmente, senza piazzarlo al primo posto dell’agenda calcistica quale emergenza nazionale. Certamente vanno puniti i responsabili, ma non si può organizzare una caccia alle streghe in cui coinvolgere allenatori, tifosi “conniventi”, autori di post scherzosi e chi più ne ha più ne metta, altrimenti otterremo per giunta l’effetto opposto.

E lasciateci dire l’ultima cosa: i media e i giornali tradizionali, che adesso cavalcano il tema razzismo tra editoriali strappalacrime e dichiarazioni roboanti, non sono credibili. È il modo per rifarsi una verginità di chi quella verginità l’ha persa da tempo, a furia di stare sempre dalla parte sbagliata della storia. È l’ultima cartuccia di un sistema che ha gettato tutta la propria credibilità in appelli contro la pirateria, servilismo alle proprietà, conflitti di interessi, abbandono dei tifosi.

Ci sono problemi nel calcio e nello sport molto più grandi del razzismo negli stadi, a partire dal fatto che quegli stessi stadi stanno diventando un luogo economicamente inaccessibile per molti, per continuare con lo strapotere dei procuratori, la monarchia di Malagò, le 150 società professionistiche fallite o scomparse negli ultimi quindici anni dal calcio italiano.

Tutto ciò, però, le anime belle non possono dirlo. E allora che aspettiamo: rimettiamo in moto la giostra, aspettando i prossimi fischi a Lukaku per sentirci tutti migliori.