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Istigazione all’odio: basta un like su un post razzista

Istigazione all’odio razzista
Istigazione all’odio razzista

La Cassazione, con la sentenza n. 4534 del 09.02.2022, respinge il ricorso proposto avverso una misura cautelare disposta dal Gip presso il Tribunale di Roma, a carico di un soggetto indagato, ai sensi degli articoli 604 bis e 604 ter Codice Penale, per istigazione all’odio razziale.

 

Articolo 604 bis Codice Penale: reato di istigazione all’odio razziale, la vicenda

Con ordinanza del giugno 2021 il Tribunale del Riesame di Roma, adito ai sensi dell’articolo 309 Codice Procedura Penale, confermava l’ordinanza con cui il GIP aveva applicato ad un soggetto indagato per i reati di cui all’articolo 604-bis Codice Penale, comma 2 e 604-ter Codice Penale, la misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla P.G.

Secondo i giudici della cautela, le emergenze investigative costituivano una piattaforma indiziaria sufficiente, per la sua gravità, per ritenere sussistenti entrambi i reati in capo alla parte de qua.

Il monitoraggio delle interazioni di tre distinte piattaforme social (Facebook, VKontacte e Whatsapp), non aventi natura privata, aveva svelato la creazione di una comunità virtuale caratterizzata da una vocazione ideologica di estrema destra, avente tra gli scopi la propaganda e l’incitamento alla discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi, ma anche la commissione di plurimi delitti di propaganda di idee online fondate sull’antisemitismo, il negazionismo, l’affermazione della superiorità della razza bianca nonché incitamenti alla violenza.

Dalle risultanze investigative emergeva con lapalissiana evidenza il coinvolgimento attivo dell’indagato quale partecipante a conversazioni telefoniche e telematiche con altri membri dell’organizzazione neonazista e vieppiù incontri de visu con alcuni dei principali esponenti della comunità.

Gli inquirenti, infatti, consideravano la persona dell’indagato membro stabile dell’organizzazione razzista proprio a causa di alcuni interventi che lo stesso perpetrava attraverso account riconducibili al proprio indirizzo IP ed anche mediante molteplici “like” che quest’ultimo aveva attribuito ad alcuni post pubblicati sulle pagine social della predetta associazione neonazista.

 

Articolo 604 bis Codice Penale: reato di istigazione all’odio razziale, il ricorso avverso la misura cautelare

L’indagato proponeva ricorso avverso l’ordinanza de qua.

In prima battuta, si sottolineava che i contatti fisici fra i presunti aderenti all’organizzazione fossero del tutto irrilevanti alla luce della tipologia dei reati contestati, poiché sanzionavano esclusivamente la propaganda di idee on line e la diffusione di messaggi; per altro,  l’inserimento di soli tre “like” avrebbero potuto costituire  unicamente un’espressione di gradimento e quindi non erano affatto da considerarsi dimostrativi né di una qualche appartenenza al gruppo né della volontà di condividerne gli scopi illeciti.

La difesa dell’indagato, infatti, riteneva che il contenuto dei post nei quali veniva inserito il “mi piace” non sfociasse né nell’antisemitismo né travalicasse i confini della libera manifestazione del pensiero.

Secondo la difesa nessun messaggio era idoneo ad influenzare il comportamento o la psicologia di un pubblico vasto, né tantomeno a raccogliere adesioni nei termini richiesti dalla giurisprudenza di legittimità che ritiene necessario per l’integrazione del reato il pericolo concreto di comportamenti discriminatori.

Di tutt’altro avviso erano, però, i giudici del Supremo consesso che nel motivare l’inammissibilità del ricorso de quo evidenziavano quanto segue.

In primo luogo, il collegamento tra l’indagato e la comunità virtuale neonazista era – evidentemente – il frutto di un processo logico ben ponderato e provato da parte del Tribunale capitolino che sottolineava la frequenza e la rilevanza dei rapporti dell’indagato, fisici e reiterati, con altri utenti, ma anche dalle sue plurime manifestazioni di adesione e condivisione dei messaggi confluiti sulle bacheche e/o nella messaggistica presenti nelle piattaforme Facebook, VKontacte e Whatsapp dal chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza (gli ebrei come “il vero nemico” o la Shoa come “la menzogna più madornale che possano aver inculcato” o all’irrisione delle vittime dei campi di sterminio) e, ai fini tanto dell’integrazione delle condotte di propaganda quanto della individuazione nell’incitamento all’odio quale scopo illecito perseguito del gruppo, riteneva concreto il pericolo di diffusione dei messaggi tra un numero indeterminato di persone, opportunamente valorizzando la pluralità di social network utilizzati e le modalità di funzionamento di uno di questi, Facebook, incentrate su un algoritmo che attribuisce rilievo anche alle forme di gradimento, i “like”, espressi dall’odierno ricorrente.

Alla luce di tali premesse, i giudici della cautela precisavano – altresì - che la diffusione dei messaggi inseriti nelle bacheche “Facebook”, già potenzialmente idonei a raggiungere un numero indeterminato di persone, riguardasse la maggiore interazione con le pagine interessate da parte degli utenti.

La funzionalità “newsfeed” ossia il continuo aggiornamento delle notizie e delle attività sviluppate dai contatti di ogni singolo utente era, infatti, soggetta al condizionamento del numero di interazioni che riceveva ogni singolo messaggio.

Pertanto, le interazioni consentono la visibilità del messaggio ad un numero maggiore di utenti i quali, a loro volta, hanno la possibilità di rilanciarne il contenuto.

L’algoritmo scelto dal social network per regolare tale sistema assegna, infatti, un valore maggiore ai post che ricevono più commenti o che sono contrassegnati dal “mi piace” o “like”.

In ultima istanza, l’impianto accusatorio era completato dalle conversazioni telefoniche che delineavano la figura dell’indagato quale appartenente alla comunità virtuale.

In tale qualità, infatti, egli non solo riceveva consigli per evitare l’acquisizione di prove compromettenti a suo carico, ma era stato anche destinatario di specifici commenti da parte di un altro esponente, il quale aveva manifestato il suo personale compiacimento per la convinta adesione al gruppo da parte dell’indagato.

Pertanto, alla luce delle predette considerazioni e sposando totalmente l’orientamento già espresso dal Tribunale del Riesame di Roma, la Corte di Cassazione attraverso la sentenza de qua statuisce che il like sui post antisemiti pubblicati nei social network rappresenti - senza dubbio alcuno- un grave indizio del reato di istigazione allodio razziale, ai sensi degli articoli 604 bis e 604 ter Codice Penale, tenuto conto che il gradimento, non solo dimostra, incrociato con altre evidenze, ladesione al gruppo virtuale nazifascista, ma contribuisce alla maggiore diffusione di un messaggio, già di per sé idoneo a raggiungere un numero indeterminato di persone, atteso anche il mezzo di comunicazione utilizzato.