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La presunzione d’innocenza e la patologica gogna mediatico-giudiziaria

Il frattempo che uccide il garantismo costituzionale
Lecce
Ph. Antonio Capodieci / Lecce

La presunzione d’innocenza[1] è la base del nostro Stato di diritto[2]; è quell’elemento socio-giuridico essenziale e irrinunciabile sul quale l’intera struttura costituzionale, soprattutto (i nostri Costituenti) pensando alla sfera del diritto penale, poggia il tetto della legittimazione comune dinanzi alla legge.

Potremmo definirlo un fil rouge che parte dall’art. 3 (uguaglianza), passando per l’art. 24, sino ad arrivare a formare la triade di garanzia con l’art. 27 (responsabilità penale) e l’art. 111 (giusto processo).

La nostra Carta fondamentale lo afferma, espressamente, che ogni persona va considerata (ed è) innocente fino a che non vi sia condanna definitiva. Anzi, per la precisione, destinatario della garanzia costituzionale è l’imputato e non chiunque altro (ad esempio il mero indagato).

È una differenza che nel mondo giuridico affonda le radici nel principio di trattamento non disumano, non degradante, non tendente alla tortura; cosa, quest’ultima (cioè la tortura), che in una dimensione sociale nella quale l’evoluzione storica ha segnato anche l’idea delle modalità della carcerazione preventiva e della detenzione (non a caso altra garanzia fondamentale dell’ordinamento si stadia nell’art. 13), in linea con la Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo de 1948[3] (art. 11), ha condotto il nostro Paese ad esser etichettato come avente la “Costituzione più bella al mondo”.

Certamente questo primato, per mantenersi vivo ed effettivamente riconosciuto oltreché percepito nel quotidiano sociale, necessita di azioni, interpretazioni e leggi che ne rendano performativa l’essenza nella realtà. 

L’Italia, specie negli ultimi decenni, ha saggiato e continua a saggiare (quasi senza soluzione di continuità) una involuzione sotto il profilo proprio della percezione del ruolo dell’indagato tanto quanto dell’imputato penale: il primo, nell’opinione pubblica, pare avere preso il posto del secondo e viceversa.

È sufficiente, ormai, un semplice avviso di garanzia[4] (il quale è un atto del Pubblico ministero con cui si informano l'indagato e la persona offesa del procedimento avviato invitando, contestualmente e per quanto di legge, alla nomina del difensore) affinché si generi nell’intero “sistema d’opinione” la certezza della colpevolezza.

Nel sistema appena citato non altro confluiscono una serie di dinamiche che, in una sorta di mix micidiale (quasi senza via di scampo per chi ne è destinatario), condiscono il senso di scalpore frutto di una malata e deviata matrice di sensazionalismo che, a sua volta, vive per scoop invece che alimentarsi di diritto-dovere d’informazione; quest’ultimo connubio del diritto-dovere, è ciò che il mondo attuale ha costruito negli ultimi anni anche per mala gestio ed ineducato approccio ai social, criminalizzando l’indagato e dimenticando il condannato.

In entrambi i casi c’è un fatto socio-giuridico dal riflesso umanamente fatale che non dobbiamo dimenticare di valutare: criminalizzare l’innocente equivale a condannare il colpevole senza volerlo seriamente recuperare, riabilitare, rieducare (ove necessario).

Il ché si traduce, per quanto riguarda la posizione dell’indagato che riceve il famoso avviso di garanzia, in uno schiacciamento umano-mediatico quasi pari delle torture medievali[5].

Alcun passo in avanti stando a quanto esposto?

Non dimenticarsi della persona condannata, della sua storia, delle qualità che una persona può esprimere (perché tutti le abbiamo e, come direbbe Socrate[6], nessuno fa del male sapendolo) dopo l’espiazione della pena, sta nella stessa equazione di garantismo per cui non dobbiamo dimenticarci della persona quando è indagata: il contesto di vita, gli affetti, gli effetti socio-lavorativi, l’immagine, l’integrità morale, ecc.

Mentre al condannato, finita la pena, la società fa dono della ripartenza, all’indagato (soprattutto se poi risulterà innocente così come lo è in via presuntiva) occorre che il sistema giudiziario e d’opinione intorno facciano opera di protezione e di garantismo vero senza legittimare il crollo dell’individuo sotto il macigno degli ingranaggi tritacarne della gogna[7].

Ecco come i principi universali ci portano ancora una volta sulla retta vita dell’inviolabilità delle cose essenziali alla vita (se davvero ci crediamo ancora).

Siamo in Europa e facciamo i conti, come comunità europea, con un processo di armonizzazione che, lasciando alle spalle la drammatica esperienza dell’ultima guerra mondiale, parte da una direttrice insuperabile: la Convenzione europea dei diritti dell’uomo[8] che all’art. 3 enuncia il c.d. divieto di tortura e cioè “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.

Questo passaggio ci consente di riflettere sul come un sistema giudiziario ha dovere di proteggersi dai richiami del protagonismo mediatico (a seconda dei casi, voluto o meno che sia) perché è su questo paradosso-contraddizione che si legittima lo spazio di quel sensazionalismo che, alla fine, porta a far scadere il livello di fiducia dei cittadini nelle Istituzioni.

E qual è il metro della tortura umana, in una data società temporale, se non il come la giustizia riesca ad autogovernare (ed autocontrollare) gli scalpiti interni dinanzi alla voracità d’inghiottimento di cui la social-comunità attuale è diventata drogata (un po' figlia anche degli ultimi decenni del secolo scorso)?

La stessa domanda si potrebbe porre al mondo del giornalismo-informazione rispetto a tali derive di gogna mediatica allorquando, piuttosto che dare valore ad una condanna definitiva (cioè al caso, ai motivi, alla trafila giudiziaria, al fine della pena comminata dai magistrarti), si pone primariamente al centro il marchio a vita: indagato uguale colpevole.

È questa una regressione sociale complessiva nella quale magistrati seri e giornalisti integerrimi non riescono, tuttavia, a fare tutto ciò che è necessario per arginare l’insidia di un deplorevole fenomeno: la semina (indiretta o meno che sia) dell’odio preventivo.

Quanto innanzi altro non è che l’anticamera di un trattamento disumano implicito perché se il mio vicino non comprende la mia innocenza da indagato come potrà comprendere il grado della mia colpevolezza da condannato? È così facendo che si insinua, appunto, il distacco sociale per cui se si è indagati meglio non averci a che fare.

È o non è, tale condizione di isolamento, una assoluzione per la società e un assaggio di pena per il soggetto innocente?

Di chi è la responsabilità di non aver saputo proteggere le relazioni sociali nel “frattempo del giudicato definitivo”[9]?

La direttiva europea n. n. 343/2016[10] “sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali” impone, da anni ormai, un obbiettivo sacro.

Come recita l’art. 3 “gli Stati membri assicurano che agli indagati e imputati sia riconosciuta la presunzione di innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza”.

La parola “assicurano” implica per ogni Paese destinatario che si faccia i conti con il principio di sicurezza[11] di sistema poiché, quest’ultimo, è posto a garanzia dell’individuo quale centro della tutela giuridico-sociale.

La tutela e l’integrità psico-fisica dell’indagato o dell’imputato sono o non sono doveri per uno Stato di diritto degno di esser definito tale?

L’art. 4 della citata direttiva europea perimetra la risposta sul piano dell’obbiettivo politico-giuridico necessario a cui volgere come società civile: “Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole”.

È già da 5 anni che tale provvedimento obbliga i Paesi destinatari a legiferare sul tema.

Cosa è successo e cosa succede tuttora in Italia è sotto gli occhi di tutti (nonostante le misure di prevenzione carceraria dei decenni scorsi[12]): aumento di suicidi e tentativi di suicidio, disastri familiari ed economici, morte della reputazione sociale, ecc. aventi sfondo giudiziario[13].

Il nostro è un Paese regredito su questo fronte e, per dirla tutta, l’Europa questa volta ci precetta seriamente a porre rimedio (art. 13 direttiva di cui sopra).

Se l’avviso di garanzia non garantisce l’individuo a tutto tondo, allora, o non è uno strumento sufficientemente collocato nel tempo e nello spazio attuale oppure è vero il contrario e cioè che la nostra società non risponde più alle sensibilità di garantismo.

Il rischio non è tanto diverso dal dover rispondere, prima o poi, delle proprie opinioni (come successe a Socrate, quasi primo dei garantisti moderni, con la cicuta: un suicidio indotto dal veleno imposto da altri).

E cos’è la gogna mediatico-giudiziaria se non una specie di veleno preso a sorsi, giorno dopo giorno, in una società inabissata nel godereccio cibarsi della morte altrui?

Eppure, nonostante i secoli, Socrate è tra noi.

 

[1] La cui etimologia ci porta al senso concettuale dell’essere senza peccato e/o che non nuoce come riporta il link

[2]  Basti già un assaggio dell’articolo 27 della Costituzione disponibile al seguente link

[3] Testo integrale della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo de 1948 disponibile al seguente link

[4] L’art. 369 del codice di procedura penale italiano riporta “1. Solo quando deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere, il pubblico ministero invia per posta, in piego chiuso raccomandato con ricevuta di ritorno, alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa una informazione di garanzia con indicazione delle norme di legge che si assumono violate, della data e del luogo del fatto e con invito a esercitare la facoltà di nominare un difensore di fiducia.

1-bis. Il pubblico ministero informa altresì la persona sottoposta alle indagini e la persona offesa del diritto alla comunicazione previsto dall'articolo 335, comma 3.

2. Qualora ne ravvisi la necessità ovvero l'ufficio postale restituisca il piego per irreperibilità del destinatario, il pubblico ministero può disporre che l'informazione di garanzia sia notificata a norma dell'articolo 151”.

[5] GRIMALDI F., Torture medievali: gli strumenti del dolore, in rivista pubblicato il 2 marzo 2018 disponibile al seguente link

Grimaldi afferma che “in realtà le torture nel Medioevo e non solo non implicavano solo una sofferenza fisica. Era necessario infatti esporre i resti della vittima o che il procedimento avvenisse dinanzi al pubblico. Questo perché l’infedele e il peccatore – oltre che essere esempi – dovevano subire la vergogna. E così si potrebbe interpretare la gogna, una delle più umilianti torture medievali…”.

[6] RIGOBELLO A., Il messaggio di Socrate, Editrice La Scuola, Brescia, 1970.

[7] Etimologicamente la parola deriva da oggetto come cinghia, collare, strangolamento, ecc. come riporta il link

[8] Testo integrale della Convezione europea dei diritti dell’Uomo disponibile al seguente link

[9] Le testate italiane sono piene di notizie relative a suicidi di persone indagate. Appresso di riportano alcuni link relativi alle fonti giornalistiche dei casi più recenti: A processo a 20 anni dall’omicidio si dichiara innocente e si suicida - https://www.ildubbio.news/2019/06/21/a-processo-a-20-anni-dallomicidio-si-dichiara-innocente-e-si-suicida/; Il giudice era indagato per corruzione. Il caso Vincenti: “Mio padre suicida era innocente” -  https://www.ilriformista.it/il-caso-vincenti-mio-padre-suicida-era-innocente-15075/ ; Imputato per un 'cold case' si suicida nel carcere di Bologna - https://www.agi.it/cronaca/suicida_carcere_bologna_imputato_cold_case-5688433/news/2019-06-19/ ; Roma, in carcere un imprenditore. Mazzette per gli appalti del Miur. La funzionaria Boda, che aveva tentato il suicidio: «Ho servito lo Stato, i pm mi interroghino» - https://www.corriere.it/digital-edition/CS_ND/2021/09/10/7971706.shtml

[10] Testo integrale della direttiva in questione disponibile al seguente link

[11] Ed ancora l’etimologia ci aiuta a decifrare il senso vero sotteso alle parole utilizzate dal normatore europeo come riporta il link

[12] Ad esempio, leggasi La prevenzione dei suicidi in carcere. Contributi per la conoscenza del fenomeno, a cura del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Istituto Superiore di Studi Penitenziari, in rivista Quaderni ISSP Numero 8/2011, disponibile al link

[13] COSENTINO C., Il crescente malessere all’interno delle carceri italiane, in rivista Diritto Penale e Uomo (DPU) - Criminal Law and Human Condition, disponibile al link

L’autrice Cosentino precisa espressamente che “L’ambiente carcerario costituisca un luogo incubatore di malessere è ormai constatazione pacifica”.