Le 21 Donne della Costituente
Le 21 Donne della Costituente
La Repubblica italiana, conquistato fondamento di legittimazione del potere democratico dal carattere rappresentativo quale caratteristica forma di Stato, è il frutto della determinazione comune di donne e di uomini; essa ha, indubbiamente, delle madri e dei padri[1].
Le donne sono state protagoniste fondamentali del cambiamento successivo, quello che ha cercato di inverare i valori e i programmi della nostra Costituzione repubblicana (insuscettibile di revisione, per l’art. 139 Cost.): lo si riscontra attraverso l’affermazione delle leggi che hanno cambiato l’Italia e che, spesso, hanno avuto come promotrici le donne, sia nei movimenti sociali e politici, sia nel dinamismo delle forze politiche, che nelle diverse istituzioni centrali e territoriali del nostro Paese. Le donne offrirono un prezioso contributo in occasione della stesura dei principi fondamentali – il principio di uguaglianza “senza distinzioni di sesso” (art. 3), la parità di uomini e donne nell’ambito familiare (art. 29, comma 2), nel lavoro (art. 37, comma 1), nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive (art. 51) – che sarebbero divenuti importanti punti di riferimento sul piano legislativo, sociale e civile.
Esse si trovarono in una posizione nettamente migliore al passato; tuttavia, pesava la presenza di pochi alleati, dato l’atteggiamento di netta chiusura assunto dai partiti politici. Il mondo politico, infatti, reputava la figura femminile non adatta a svolgere il suo dovere elettorale[2]. Secondo il Partito comunista, la religione cattolica avrebbe potuto influire sulle scelte elettorali delle donne. I democristiani, invece, temevano un drastico distacco della donna dalla sfera familiare. Infine, il Partito liberale, il Partito Repubblicano e il Partito d’Azione manifestarono disinteresse in merito al voto delle donne, anche se non mancarono di marcare i benefici che i grandi partiti ne avrebbero tratto.
Le donne di quell’epoca però riuscirono a “smantellare” le critiche politiche: esse, anche grazie alle principali associazioni femminili di massa – l’Unione donne italiane (Udi), il Centro italiano Femminile (Cif) e l’Associazione nazionale donne elettrici (Ande) – prepararono il genere femminile all’esercizio del loro diritto di voto, dando così prova di coraggio, autonomia e maturità.
Il 2 giugno 1946 il suffragio universale e l’esercizio dell’elettorato passivo portarono, per la prima volta in Parlamento, anche le donne. Si votò per il referendum istituzionale tra Monarchia o Repubblica e per eleggere l’Assemblea Costituente, che si riunì nella sua prima seduta il 25 giugno 1946, nell’Aula parlamentare di Palazzo Montecitorio.
Settantasei anni fa, dunque, il primo voto delle donne e per le donne. Tale lasso di tempo può essere considerato poco o molto: del resto, la distanza temporale è una dimensione fortemente soggettiva[3].
Nel contesto nazionale, la data 2 Giugno e la vittoria della Repubblica saranno sempre associate al volto di una donna. Si ricorda, infatti, l’illustre foto di Federico Patellani per la copertina della rivista “Tempo”, del 15-16 giugno 1946, che raffigura il viso raggiunte di una giovane bruna con il capo stagliato nella prima pagina del “Corriere della Sera” dell’11 giugno, che decanta “È nata la Repubblica Italiana”.
A dispetto delle attese, degli oltre 14 milioni di donne che avevano conseguito il diritto di voto si recarono alle urne una percentuale molto elevata, ossia l’89% delle aventi diritto.
Vengono elette alla Costituente 21 donne (erano state candidate 226) su un totale di 556 uomini: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista, 2 del Partito socialista e 1 dell’Uomo qualunque.
I lavori per la stesura della nuova Carta costituzionale si svolsero per un anno e mezzo attraverso sedute plenarie, una più circoscritta Commissione per la Costituzione, composta da 75 deputati, tre Sottocommissioni (la prima dovette occuparsi dei diritti civili e politici dei cittadini, la seconda delle norme della Costituzione relative all’organizzazione costituzionale dello Stato, la terza dei rapporti economici e sociali dello Stato) ed infine un più esiguo gruppo operativo per la redazione del progetto di Costituzione: il c.d. Comitato dei 18.
Dal 4 marzo al 22 dicembre 1947 il testo costituzionale fu discusso, emendato dall’intera Assemblea plenaria, e approvato con 453 voti favorevoli, 62 contrari su 515 presenti e votanti. La Costituzione fu promulgata dal Capo provvisorio dello Stato, sen. Enrico De Nicola, il 27 dicembre 1947, per entrare in vigore il 1° gennaio 1948[4].
Non sussiste alcun dubbio circa lo spazio riservato dalla Costituzione Repubblicana alla “questione femminile”. Piuttosto, occorre chiedersi se e come a tale portata quantitativa corrisponda un’identica considerazione a livello qualitativo.
Nel 2016, a Montecitorio, è stata inaugurata la Sala delle donne per ricordare, anche attraverso le immagini, le prime donne entrate a far parte delle Istituzioni della Repubblica. Nella Sala sono esposti i ritratti delle 21 deputate elette all'Assemblea Costituente, delle prime sindache elette tra la primavera e l'autunno del 1946, della prima donna che ha assunto la carica di Ministro, Tina Anselmi, della prima Presidente della Camera, Nilde Iotti, e della prima Presidente di Giunta regionale, Anna Nenna D'Antonio, in Abruzzo.
Oggi, nessuna donna ha mai ricoperto in Italia la carica di Presidente della Repubblica o di Presidente del Consiglio dei ministri. Un aspetto preoccupante che, in qualche modo, sembra vanificare l’operato delle 21 deputate italiane. Per rimarcare quest'assenza e per indicare un percorso da compiere ancora, accanto ai ritratti, sono stati collocati due specchi. Alle donne che vedranno la propria immagine riflessa negli specchi si ricorda che potrebbero essere proprio loro le prime a ricoprire tali cariche pubbliche al servizio della Nazione.
Quali i nomi delle deputate elette all’Assemblea Costituente? Adele Bei, Bianca Bianchi, Laura Bianchini Elisabetta Conci, Maria De Unterrichter Jervolino, Filomena Delli Castelli, Maria Federici, Nadia Gallico Spano, Angela Gotelli, Angela M. Guidi Cingolani, Leonilde Iotti e Teresa Mattei (eletta a soli 25 anni, colei che inventa il “simbolo della mimosa” per la ricorrenza della Festa internazionale della donna dell’8 Marzo. Sempre Lei lesse la relazione con la quale già si tentavano di aprire le porte della Magistratura alle donne, fra considerevoli accenti critici e polemici, specie mossi da parte di alcuni deputati più anziani che ne contestavano la serenità d’animo dovuta nell’esercizio della funzione giurisdizionale).
La discussione delle madri e dei padri Costituenti relativa all’accesso alla Magistratura era particolarmente accesa, poiché è palese il pregiudizio storico nei confronti delle donne, tradizionalmente considerate troppo emotive e sensibili per svolgere, con pacata ponderazione, il ruolo di terzietà del giudice. Pertanto, sin dai lavori della seconda sottocommissione della Commissione per la Costituzione, i vari componenti adottarono un approccio diverso in ordine all’ingresso delle donne in magistratura. Piero Calamandrei, nell’esporre il suo progetto, si dichiarava favorevole alla presenza delle donne negli uffici giurisdizionali, poichè avevano dimostrato in ulteriori uffici capacità di equilibrio e buon senso richiesti anche in ambito giurisdizionale. In particolare, l’art. 20 di tale progetto inerente il titolo IV parte 2° (La magistratura) della Costituzione, si incentrava su tre questioni cruciali: l’ammissione delle donne in magistratura; l’accesso di giuristi aventi meriti insigni; la nomina di magistrati onorari. Gaspare Ambrosini – esponente della Democrazia Cristiana – sosteneva che l’unico punto da rivedere fosse proprio quello dell’ammissione delle donne in magistratura. Giovanni Leone – futuro Presidente della Repubblica negli anni 1971-1978 – affermava che la sede più idonea per l’attività di una donna fosse il Tribunale per i minorenni, non certo gli alti gradi della Magistratura, ove occorreva, a suo dire, maggiore equilibrio ed elevata preparazione tecnica che le donne non avrebbero posseduto. Tale visione era avallata in parte dallo stesso Calamandrei, il quale collocava le donne in tutte le questioni di giurisdizione volontaria e in quelle familiari. Giovanni Cappi – anche egli parte della Democrazia Cristiana – riteneva che le donne avrebbero potuto essere integrate e impiegate in determinati giudizi, escludendo loro la possibilità di accedere alla carriera giudiziaria e diventare magistrati. Nella seduta del 31 gennaio 1947, Maria Federici, evidenzia la “poca sensibilità maschile nel non volere far giustizia nei riguardi della donna”, ravvisata con costante frequenza nei lavori delle Sottocommissioni, ponendo luce sul merito e sulla preparazione, quali “soli elementi discriminatori per quanto attiene alla possibilità di aprire tutte le carriere alla donna”. Nella seduta del 26 novembre 1947, Maddalena Rossi, si rivolge ai colleghi dicendo: “Si è affermato qui che la giustizia è amministrata in nome del popolo… non è esatto: soltanto la metà del popolo italiano ha finora partecipato all’amministrazione della giustizia”. La questione non trova soluzione immediata o sollecita; infatti, occorre attendere ben 15 anni, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, quando la legge 9 febbraio 1963, n. 66, ammette finalmente le donne a tutti i pubblici uffici inclusa la Magistratura e le altre professioni, senza distinzioni di carriera né limitazioni di grado, in ragione dell’art. 51, primo comma, della Costituzione: “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Sulla rimozione degli ostacoli all’accesso della donna in Magistratura, incide la sentenza 13 maggio 1960, n. 33, tramite la quale la Corte dichiara “l’illegittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, che esclude le donne da tutti gli uffici pubblici che implicano l'esercizio di diritti e di potestà politiche, in riferimento all'art. 51, primo comma, della Costituzione”. Solo tempo dopo, l’auspicata revisione costituzionale, concretizzata dalla legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1, “Modifica dell’art. 51 della Costituzione”, interverrà ad introdurre, nel corpo del primo comma, al secondo periodo, dell’articolo 51, l’aggiunta che ora si legge in epigrafe: “A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Uno dei punti oscuri della predetta riforma consisteva proprio nella genericità della formula linguistica adoperata dal legislatore costituzionale. Di fatto, la debolezza del contenuto del nuovo art. 51 Cost. è stata posta in risalto nel 2005, in occasione della bocciatura da parte del Parlamento, in sede di modifica del sistema elettorale in senso proporzionale, di una norma che mirava a garantire, con la previsione di sanzioni economiche, la presenza di donne in misura di almeno un quarto. La questione viene risolta definitivamente dalla giurisprudenza costituzionale, che esclude un’interpretazione dell’art. 51 Cost., orientata esclusivamente al principio di eguaglianza formale.
Una conferma è data dalla sentenza 14 gennaio 2010, n. 4. In tale circostanza, la Corte costituzionale aggancia espressamente l’art. 51 al principio di eguaglianza sostanziale, dichiarando che il nuovo quadro costituzionale è ispirato “al principio fondamentale dell’effettiva parità tra i due sessi nella rappresentanza politica, nazionale e regionale, nello spirito dell’art. 3, secondo comma, Cost., che impone alla Repubblica la rimozione di tutti gli ostacoli che di fatto impediscono una piena partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica del Paese”.
Oltre tale segnalazione riferita in merito all’accesso alla Magistratura, ecco le altre donne Costituenti… Angelina Livia Merlin, Angiola Minella, Rita Montagnana Togliatti, Maria Nicotra Fiorini, Teresa Noce Longo, Ottavia Penna Buscemi, Elettra Pollastrini, M. Maddalena Rossi, Vittoria Titomanlio.
La molteplicità di pregiudizi nei confronti delle donne non stupisce, in ragione della formazione di coloro che presero parte alla discussione. Essi, infatti, provenivano da un’area culturale improntata sulla discriminazione di genere[5].
Per la maggior parte di loro fu determinante la partecipazione alla lotta della Resistenza, con gradi diversi di impegno e tenendo presenti le posizioni espresse dai rispettivi partiti politici di appartenenza. Spesso, le Deputate Costituenti fecero comunque causa comune sui temi dell’emancipazione femminile, ai quali fu dedicata, in prevalenza, la loro attenzione parlamentare e politica.
Tutte, però, con il loro impegno e le loro capacità, segnarono, a pieno titolo, l’ingresso delle donne nel più alto ambito delle istituzioni rappresentative. La specifica, intensa passione politica le porterà a superare i frequenti ostacoli che, all’epoca, rendevano difficile e ardua la partecipazione delle donne alla vita politica nazionale.
Un peculiare accento va, infine, ad alcune di loro.
Tra le socialiste, vorrei ricordare il lavoro svolto da Angelina Merlin (Pozzonovo, Padova), antifascista, partigiana, femminista ante litteram. Lina Merlin nel 1926 viene arrestata e condannata dal Tribunale speciale del regime fascista a cinque anni di confino in Sardegna, a Dorgali, poi a Orune e Nuoro. Successivamente, a Milano partecipa alla lotta clandestina e organizza l’assistenza ai partigiani; la sua abitazione milanese diventa luogo di incontro di importanti dirigenti socialisti fra i quali Carlo Morandi, Sandro Pertini e Lelio Basso. Ella sottolinea che lo Stato ha l’obbligo di garantire a tutti i cittadini il necessario all’esistenza; deve eliminare i problemi di ordine economico al fine di assicurare ad ogni individuo la possibilità di creare una propria famiglia. Se nel primo comma dell’art. 3 della Carta costituzionale in posizione emergente, fra gli elementi che non devono costituire motivo alcuno di disparità di trattamento, è stato inserito l’inciso ‘di sesso’ lo si deve proprio all’intervento attivo antidiscriminatorio in esso contenuto, voluto per la battaglia di civiltà condotta, poi, anche su vari indirizzi della dignità personale, da parte di Lina Merlin; un obiettivo che si doveva promuovere e attuare secondo una trasformazione radicale della società[6]. Fu un impegno ed una diretta azione politica e sociale che vide al fianco della Merlin, Carla Voltolina Pertini, giornalista e assistente della senatrice, competente e appassionata compagna con la quale Ella poté condurre molteplici iniziative parlamentari e di mobilitazione civile dell’opinione pubblica, soprattutto a vantaggio della dignità e condizione femminile e per l’affermazione della universalità dei diritti di ogni cittadina e cittadino, anche in termini di reale libertà e giustizia sociale[7]. A Lina Merlin si deve la legge sulla regolamentazione della prostituzione, presentata il 6 agosto 1948 e approvata definitivamente dall’Assemblea della Camera dei deputati il 29 gennaio 1958, con 385 voti a favore e 115 contrari. Essa prescrive l’abolizione immediata del sistema di regolamentazione della prostituzione, norme più rigorose contro lo sfruttamento della prostituzione stessa, nonché la chiusura su tutto il territorio dei postriboli entro sei mesi. L’approvazione della legge sopracitata, rappresenta, in Italia, il prodotto finale di una querelle iniziata con il c.d. regolamento Cavour del 1860.
Tra le Costituenti comuniste, vorrei richiamare in questa circostanza la figura di Nilde Iotti (Reggio Emilia). Ella organizza e dirige i Gruppi di difesa della donna nella sua provincia. Presenta un’importante Relazione sulla famiglia dove sostiene l’eguaglianza giuridica dei coniugi, l’equiparazione dei figli illegittimi a quelli nati all’interno del matrimonio e chiede il pieno riconoscimento, da parte dello Stato, della “funzione sociale” della maternità. Interviene anche nel dibattito sulla stampa periodica, affermando che, nel caso in cui questa si riveli offensiva nei confronti del senso religioso, umano e patriottico, deve essere sottoposta al sequestro da parte della autorità giudiziaria.
Di Nilde Iotti ho personale conoscenza, quando affabilmente volle ricevermi nel suo studio di Presidente della Camera dei deputati a Palazzo Montecitorio, nel dicembre 1979, per una estesa conversazione sulla democrazia parlamentare, la centralità del Parlamento e il ruolo dei partiti. Infatti, con enfasi, Ella mi disse: “Il Parlamento è il punto in cui si esprime, con il metodo della rappresentanza politica, il grado più alto della sovranità popolare. Questo elemento della centralità per lungo tempo non è stato realizzato pienamente, e questo fatto dovrebbe essere sottolineato maggiormente quando si parla di non applicazione della Costituzione… in una parola del modo di fare politica, di collocarsi delle forze politiche nei confronti delle istituzioni”. Anche con questo spirito la Presidente Iotti assunse, il 10 marzo 1993, la guida della Commissione parlamentare per le riforme istituzionali. A tal proposito, il successivo 23 marzo in un Suo biglietto autografo, con cordialità, mi scrisse: “Cercherò di onorare con determinazione la fiducia riposta in me”; riconoscendo inoltre, come: “nella Costituzione il ruolo di cerniera tra società e Stato è affidato ai partiti”. E lucidamente subito aggiungeva: “Ho l’impressione, però, che siamo arrivati al punto in cui l’intervento dei partiti pone un delicato problema di raccordo con le funzioni e i poteri del Parlamento che va attentamente valutato per evitare che questo si riduca a sede in cui si recepiscono decisioni prese altrove. È una questione oggi cruciale. L’intreccio, e il rapporto corretto, tra la mediazione dei partiti e la volontà del Parlamento e delle altre istituzioni rappresenta un nodo della nostra democrazia, certo difficile da risolvere, ma che dobbiamo affrontare, con uno sforzo comune di riflessione e iniziativa”[8].
In special modo, una delle questioni affrontate con grande lungimiranza dalle Costituenti, riguarda proprio la cruciale condizione delle famiglie irregolari e i figli illegittimi[9]. La Costituzione, dunque, rappresenta un capovolgimento di prospettiva rispetto ad un sistema nel quale la posizione giuridica della donna è di assoluta inferiorità nella vita privata e in quella pubblica. Di fatto, i principi espressi allora dalle 21 Costituenti risultano molto avanzati, se messi in relazione al periodo storico in cui tali valori di parità vengono dichiarati e caparbiamente sostenuti. Esse, infatti, non si limitarono a registrare lo status quo ma lo superarono, pianificando il futuro degli italiani e delle italiane. “...Il cammino percorso in meno di un anno è stato molto e difficile: ma le nostre donne hanno bruciato le tappe. Esse continuano la loro opera, ad esse va l’elogio e la fiducia delle donne italiane, di tutti gli italiani che sperano e credono nella rinascita democratica del nostro Paese” (Leonilde Iotti).
La figura di Nilde Iotti è ricordata anche per la specifica considerazione riservata alla Costituzione. In un discorso parlamentare del 25 novembre 1969, Ella qualifica la Carta costituzionale come un documento storico che “non ha e non può avere né un’ideologia né una filosofia di parte”, poiché altrimenti non sarebbe “di tutta la Nazione ma solo di una parte di essi”. In un altro intervento del 1° dicembre 1991, pur marcando la necessità di riformare la seconda parte della Costituzione, la stessa consacra quest’ultima come “patrimonio fondamentale del popolo italiano”. Infine, nell’ultimo importante discorso del 29 gennaio 1998, l’allora Presidente della Camera dei deputati esclude la messa in discussione della prima parte della Costituzione, dal momento che lì vi è “il grande e non tangibile disegno complessivo della nostra democrazia, della dignità dell’uomo e dei cittadini, delle libertà civili e politiche, dell’Unità nazionale sacra e inviolabile”.
Sulla esperienza umana e politica della on. Iotti Costituente[10], di seguito assai apprezzata Presidente di Assemblea, super partes: “...La scelta di Nilde Iotti è un riconoscimento alle sue qualità̀ di garante delle istituzioni democratiche. Con correttezza, equilibrio e stile ha saputo svolgere il suo ruolo a difesa delle regole parlamentari con passione civile di servire sempre con autorevolezza le vocazioni popolari e l’istituzione parlamentare. Ed ancora: Nilde Iotti credeva nella centralità del Parlamento: nelle istituzioni rappresentative come luogo di compresenza di ideali, culture, interessi, passioni, sede di un dibattito anche acceso ma sempre ricondotto alla civiltà del confronto e al rispetto delle regole e delle procedure. Sapeva al tempo stesso che proprio per svolgere al meglio la funzione che la Costituzione assegnava loro, le istituzioni avevano bisogno di essere rinnovate. E si impegnò in prima persona in uno dei primi tentativi di riforma della seconda parte della Costituzione. Così vorrei che la ricordassimo oggi: una dirigente politica che ha dato una spinta decisiva alla battaglia per l’emancipazione delle donne, una delle figure più prestigiose dell’Italia repubblicana” (Laura Boldrini). Di Nilde Iotti si apprezza la grande umanità e la profonda capacità di ascolto, qualità che hanno indotto esponenti politici di oggi a definire il suo modo di fare politica “elegante”: “eleganza della politica, intesa come eleganza dell’animo, della parola, come disponibilità verso le persone e anche amore per la sua femminilità, l’idea della politica come bene comune, come attenzione alle persone più fragili, come costruzione di una politica popolare in cui tutte le persone fossero partecipi e consapevoli. E’ questa la sua grande eredità. Madre costituente della Repubblica, è stata una donna delle istituzioni” (Livia Turco).
“...Le generazioni non sono peggiori, sono sempre uguali, gli uomini non cambiano, sono sempre uguali. E i giovani li ho sempre amati, non dimentichi che sono stata un’insegnante assai coscienziosa. Ho cercato di essere materna con loro, buona con loro, il fatto è che la loro cattiveria non è diretta verso i vecchi ma soprattutto verso se stessi: non comprendono, i pazzi, che la politica non è un mestiere, è una missione” (Angelina Livia Merlin).
A queste Ventuno Donne è davvero riconosciuta la grande capacità di lavorare trasversalmente, pur appartenendo a partiti politici diversi: cercano tutte di convergere verso convenienti soluzioni comuni, con mente e cuore sempre attenti al futuro dei giovani, delle nuove generazioni e dei più deboli. Con riguardo alla figura femminile, lo scopo delle Costituenti è duplice: garantire piena parità nel mondo del lavoro e assicurare alla donna la sua essenziale funzione familiare.
Nel dibattito sorto in Assemblea Costituente, dunque, lavoro e famiglia non erano ritenuti in contrasto. Allo stato attuale, il tema della donna lavoratrice[11] non può non prendere le mosse da quanto verificatosi in Assemblea Costituente, nonchè dall’intuito, dall’operato e dal difficile convincimento compiuto dalle donne Costituenti verso tutti gli altri Costituenti. Il loro era senz’altro un programma sociale con un indirizzo politico di lungo periodo e, certo, concreto e lungimirante nel respiro, tale da riflettere la stessa indole sagace dell’essere donne impegnate per il bene dell’intera, nostra Comunità nazionale presente e futura[12]. Esemplare è la testimonianza di Angiola Minella, una delle 21 madri della Repubblica Italiana, che il 1° gennaio 1948, così riportava sul proprio diario: “Si è realizzato il mio sogno, la Costituzione entra in vigore...è anche la Costituzione delle donne. Dopo tanti anni di sofferenze e lotte, da oggi uomini e donne hanno gli stessi diritti. Capisci! Una cosa che fino a qualche anno fa non si poteva immaginare!”.