Reati fallimentari e bancarotta

Nota a Corte di Cassazione Penale, Sentenze n. 32899 del 26 agosto 2011; n. 29773 del 25 luglio 2011; n. 28077 del 15 luglio 2011; n. 36125 del 5 ottobre 2011
Abstract:

La prima parte affronta un breve excursus su recenti sentenze in materia di reati fallimentari, sub specie di reato di bancarotta. La seconda parte è rappresentata da uno schema riassuntivo degli elementi più importanti in materia.

Quelle che seguono rappresentano una parte significativa delle più recenti decisioni emesse dagli Ermellini in tema di reati fallimentari, con specifico riferimento al più ricorrente tra questi delitti: il reato di bancarotta.

Con la sentenza n. 32899/2011, i Giudici di Piazza Cavour hanno precisato che non si può escludere de plano l’eventuale accusa di bancarotta fraudolenta nell’ipotesi in cui l’imprenditore assuma iniziative finanziarie con mezzi propri in favore della impresa. Questa la ratio: poiché le iniziative del soggetto attivo rappresentano prestiti e non aumenti di capitale (l’attività, difatti, era svolta tramite un società) l’accusa del reato di bancarotta fraudolenta non è da scartare. Così gli Ermellini motivano la condanna: “… Correttamente i giudici del merito hanno evidenziato come fin dall’inizio si fossero manifestati i limiti di redditività dell’attività imprenditoriale dei due imputati con l’accumulo di perdite che avevano eroso l’intero capitale sociale già nel primo anno, ed hanno rilevato con motivazione adeguata ed esente da vizi logici, come lo squilibrio fosse progressivamente aumentato proprio a causa della caparbia, pervicace, ma altrettanto imprudente prosecuzione dell’attività, in mancanza di un’attenta valutazione delle reali prospettive dell’impresa e di interventi di ricapitalizzazione, irrilevanti essendo state le immissioni di fondi personali dei soci, che, in quanto avvenute sotto forma di finanziamento e non di aumento di capitale, avevano ulteriormente aggravato la posizione debitoria della società, divenuta per tale motivo irrecuperabile”.

Tra l’altro, la sentenza in esame offre una pertinente spiegazione sul concetto di dissesto precisando che per “dissesto deve intendersi, non tanto una condizione di generico disordine dell’attività della società, quanto una situazione di squilibrio economico patrimoniale progressivo ed ingravescente, che, se non fronteggiata con opportuni provvedimenti o con la presa d’atto dell’impossibilità di proseguire l’attività, può comportare l’aggravamento inarrestabile della situazione debitoria, con conseguente incremento del danno che l’inevitabile, e non evitata, insolvenza finisce per procurare alla massa dei creditori”.

Del medesimo tenore la Cassazione Penale, sentenza n. 29773/2011: seppur in presenza di azioni finalizzate a salvare la propria attività imprenditoriale, è evidente che, in caso di insuccesso, si avrà lo stesso un “depauperamento del patrimonio sociale destinato a garanzia dei creditori” ed alla luce di tali premesse l’imprenditore che ha assunto lo stesso quel comportamento “accettando l’eventualità che tale depauperamento abbia in effetti a verificarsi” è passibile di accusa per il reato di bancarotta.

Invece, la decisione n. 28077/2011 emessa dai Giudici della Cassazione ha avuto ad oggetto il comportamento (illecito) del liquidatore di una società in fallimento. Questi, in sintesi, si era attribuito per intero il proprio compenso, riscuotendolo in anticipo rispetto a tutti gli altri creditori della società in crisi. Gli Ermellini hanno qualificato tale condotta come reato di bancarotta fraudolenta preferenziale con un aggravante: “… a ben vedere, la particolare gravità della condotta, consistente nell’approfittamento di una condizione di privilegio, derivante dalla posizione dell’agente, potrebbe esser tenuta presente nel momento della concreta determinazione del trattamento sanzionatorio, ben potendo la ‘autoliquidazione’ essere giudicata, ai fini della pena, condotta più grave – sotto il profilo oggettivo e soggettivo – rispetto ad altre condotte preferenziali”.

Sempre di bancarotta preferenziale parla la sentenza n. 36125/2011 della Corte di Cassazione con la quale si è riconfermata la condanna, di I° grado e di appello, a carico di un imprenditore per aver venduto una Jaguar aziendale, acquistata alcuni anni prima con denaro proprio. L’imprenditore, subito dopo aver ottenuto il pagamento in contanti dalla detta vendita, per assicurarsi il recupero di parte del denaro speso per l’acquisto della Jaguar, si e attribuiva il relativo rimborso. Da precisare che la spesa figurava come finanziamento implicito.

A questo punto, però, si può analizzare un po’ più nello specifico cosa si intenda per reati fallimentari.

Si definiscono così quei delitti commessi dall’imprenditore o da terzi soggetti qualificati (amministratori, liquidatori ecc.), attraverso condotte idonee ad arrecare pregiudizio all’impresa stessa o ai propri creditori, con in più la verificazione dell’accertamento giudiziario del fallimento. In linea generale, dunque, i reati fallimentari sono costituiti da condotte che tendono a frustare la finalità della procedura concorsuale ossia la ricostruzione documentale e materiale del patrimonio di una impresa al fine di soddisfare la massa dei creditori.

La differenza fondamentale, difatti, tra i reati societari e quelli fallimentari risiede proprio nella circostanza che i primi sono costituiti, di fatto, da reati di falso (false comunicazioni sociali e false comunicazioni sociali in danno alla società, ai soci o ai creditori; aggiotaggio ecc), i reati fallimentari, invece, non si realizzano al di fuori di una crisi d’impresa e/o di azienda. Rientrano nel genus dei reati fallimentari sia il delitto di bancarotta (nelle sue numerose forme) sia quello di ricorso abusivo al credito.

A titolo esemplificativo, si può menzionare un caso esaminato dalla Cassazione la quale, nell’occasione, ha precisato che rischia l’imputazione per reato di bancarotta fraudolenta l’imprenditore e/o l’amministratore di società commerciale nel caso in cui lo stesso utilizzasse per proprie spese la disponibilità economica contenuta nella carta di credito appartenente alla impresa.

L’oggetto del reato può consistere ora nel patrimonio dell’impresa (ad esempio nella bancarotta patrimoniale), quando l’azione ha come effetto quello di ridurlo o consumarlo; ora nei documenti obbligatori della impresa (cd. bancarotta documentale e/o nel caso di ricorso abusivo al credito), allorquando siano questi ad essere oggetto della condotta.

In merito al bene giuridico tutelato esistono diverse opinioni: storicamente, questi delitti nascono a tutela del cd. “codice commerciale”, dunque, a tutela della genuinità ed onestà nel commercio che rappresenta da sempre il cuore dei rapporti economici e del benessere di una società.

Oggi, l’oggetto giuridico viene rinvenuto, da alcuni studiosi, nelle ragioni economiche dei creditori; per altri, il corretto svolgimento delle relazioni economiche e, dunque, nell’interesse dell’economia in generale; per altri ancora, infine, sarebbe tutelato direttamente il regolare svolgimento delle procedure concorsuali ed indirettamente la corretta amministrazione della giustizia. Una ultima tesi, intermedia, configura i reati fallimentari come reati plurioffensivi, pertanto, posti a tutela di tutti i beni giuridici summenzionati.

E tra i reati fallimentari è la bancarotta a rappresentarne la figura delittuosa più rappresentativa e notoria.

L’elemento oggettivo del reato è rappresentato da qualunque atto, commesso dall’imprenditore o da terzi soggetti (qualificati da un particolare rapporto con l’impresa stessa, come amministratori, liquidatori, sindaci ecc.) con cui si dissipa, altera, distrae e/o consuma il patrimonio appartenente all’impresa (art. 216 R.D. n. 267/1942) e che, comunque, procura un pregiudizio, attuale o potenziale, ai creditori dell’impresa. Nel primo caso, cioè se tali condotte sono poste in essere dall’imprenditore stesso, si parla di bancarotta propria; la diversa ipotesi, si definisce bancarotta impropria, proprio perché a realizzare le condotte incriminate sono soggetti diversi dal “fallito” (rectius dalla società).

Elemento imprescindibile per la configurazione del reato di bancarotta (comune a tutti i delitti fallimentari) è la necessaria presenza della dichiarazione di fallimento. Ma con una precisazione. Mentre nel reato di bancarotta pre-fallimentare, nel quale le condotte lesive dell’imprenditore o dei terzi sono state da questi realizzate prima della suddetta dichiarazione, il fallimento rappresenta elemento costitutivo della fattispecie penale. Invece, nel reato di bancarotta post-fallimentare, nel quale, cioè, le condotte incriminate sono state realizzate dopo la dichiarazione de qua, il fallimento rappresenta condizione obiettiva di punibilità.

È la recente sentenza della sezione penale della Cassazione (Cass. Pen. sent. n. 15061/2011) a precisare che se è vero, come lo è, che il reato di bancarotta fraudolenta suppone la definitività della dichiarazione fallimentare, ciò non esclude che l’azione penale possa essere esercitata anche prima del passaggio in giudicato della detta dichiarazione purchè sia stata già presentata la relativa domanda di fallimento.

Con riferimento al profilo dell’elemento soggettivo, invece, normalmente gli studiosi fondano su di esso la differenza tra la bancarotta semplice e quella fraudolenta. Nella prima fattispecie, il soggetto attivo ha agito senza dolo ma con un atteggiamento avventato ed imprudente; la seconda ipotesi, per come espressamente indicato dalla terminologia utilizzata dal legislatore, è caratterizzata dall’intento fraudolento, cioè il soggetto attivo dissipa, falsifica, distrae, occulta ecc. i beni dell’impresa ben consapevole di commettere condotte illecite che diminuiranno il patrimonio sociale.

Ma il problema dell’elemento soggettivo, con riferimento al reato della bancarotta fraudolenta, si rende più complesso quando si vanno ad analizzare le molteplici fattispecie tramite le quali il detto reato può manifestarsi.

Con riferimento alla bancarotta fraudolenta patrimoniale, la giurisprudenza consolidata ritiene che l’elemento soggettivo per la configurazione del detto delitto è il dolo generico, cioè coscienza e volontà di compiere atti di distrazione, occultamento, dissimulazione ecc. con conseguente riduzione del patrimonio dell’impresa. Non è necessario che il soggetto agente sia a conoscenza dell’eventuale fallimento e/o crisi aziendale. E neppure è necessario il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di creare nocumento alla massa di creditori o alla società. Un collegamento, in merito a ciò, può essere effettuato con riferimento all’elemento psicologico richiesto dal reato di bancarotta fraudolenta per distrazione: per parte della giurisprudenza anche in questo caso è sufficiente, difatti, il dolo generico. Dunque, esso è integrato se vi sono coscienza e volontà di utilizzare il patrimonio sociale per uno scopo diverso rispetto alle finalità d’impresa e con la prevedibilità di un pregiudizio per i creditori. Pregiudizio inteso come riduzione della generica garanzia patrimoniale dell’impresa ma non come consapevolezza dello stato di dissesto della medesima.

Invece, con riferimento alla bancarotta fraudolenta documentale occorre fare delle distinzioni: vi è la prima ipotesi di reato (sottrazione, distruzione o falsificazione, in tutto o in parte, di libri ed altre scritture contabili) che richiede il dolo specifico (coscienza e volontà sia di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto sia di arrecare danno ai creditori); mentre diversa è la seconda ipotesi di reato consistente nella tenuta della contabilità di modo che si impedisce la ricostruzione della situazione dell’impresa, che richiede il dolo generico (coscienza e volontà di rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio dell’impresa). Ipotesi scolastica del primo tipo è la seguente: un imprenditore che, nell’imminenza del fallimento, denunzia il furto dell’automobile sulla quale erano custoditi i libri contabili dell’impresa. Ma l’attenzione di alcuni studiosi è caduta sull’eventuale impossibilità di condannare il soggetto agente nel caso in cui questi agisca solo per ottenere un vantaggio per sé ma senza l’intenzione di creare un danno ai creditori (es. distruzione di libri contabili per evitare una ispezione tributaria).

Per la bancarotta preferenziale, infine, basta il dolo generico (coscienza e volontà che preferisco un creditore a discapito di tutti gli altri) ed, in alcuni casi, anche il dopo eventuale, cioè se il soggetto attivo ha accettato l’eventualità che gli altri creditori risultino svantaggiati. Esempi di questa fattispecie di reato fallimentare sono: il pagamento, prima della dichiarazione di fallimento, di debiti personali a scapito di quelli tributari della impresa; oppure, in caso di società, il pagamento solo dei debiti che si hanno nei confronti della capogruppo o delle consociate.

In rapporto al profilo del possibile spiegarsi di un concorso di persone nel reato, può precisarsi che esso può configurarsi nel reato di bancarotta fraudolenta. Una particolare ipotesi si verifica allorquando il reato avviene nell’ambito di una gestione collegiale dell’impresa (es. società amministrata da un consiglio di amministrazione) oppure quando c’è stata una delega di funzioni (società di persone in cui uno solo dei soci è amministratore).

La regola generale è che la responsabilità penale grava su tutti i membri dell’organo amministrativo: sia per chi commette materialmente le condotte integranti il reato di bancarotta (dolo commissivo) sia per gli altri amministratori nel caso in cui non abbiano diligentemente vegliato e/o agito e/o denunciato i fatti di bancarotta fraudolenta per evitare la riduzione del patrimonio sociale (dopo omissivo). Lo stesso ragionamento giuridico deve essere effettuato con riferimento ai membri del collegio sindacale: essi concorreranno nel reato di bancarotta fraudolenta in caso di omissione di controllo e/o reazione a quanto hanno saputo e/o avrebbero dovuto sapere. Altra ipotesi possibile è il concorso dell’extraneus nel reato di bancarotta propria.

La Cassazione, di recente, ha avuto modo di occuparsi di una vicenda penale che ha visto coinvolto, nella qualità di concorrente ex art. 110 c.p., nel reato di bancarotta propria il commercialista del soggetto attivo (imprenditore). Ed in tale occasione gli Ermellini (Cass. Pen., sent. n. 30412/2011) hanno precisato che quando l’extraneus al reato proprio compie atti che concorrono a realizzare “segmenti” utili al risultato finale (dunque, condotte che concorrono a determinare il fallimento in danno ai creditori), senza attivarsi per ridurre la portata lesiva della condotta illecita del soggetto attivo, questi ne risponde penalmente, anche se come concorrente. Anche qui, l’elemento soggettivo necessario perché sia ravvisabile il concorso dell’extraneus nel reato proprio è il dolo generico inteso come coscienza e volontà di contribuire, con la propria condotta aggiunta a quella dell’intraneus, all’impoverimento del patrimonio sociale. Rimane esclusa la necessità del dolo specifico, non essendo richiesta la conoscenza dello stato di dissesto.

Inoltre, con riferimento al concorso di reati fallimentari una recente sentenza della Cassazione a Sezioni Unite ha posto fine ad una annosa questione circa la unitarietà o pluralità di reati in caso di concorso tra le diverse fattispecie di reati fallimentari: ad esempio, in caso di concorso tra condotte integranti il reato di bancarotta semplice, di bancarotta fraudolenta e, magari, anche di ricorso abusivo al credito. Il problema giuridico investiva la corretta interpretazione dell’art. 219, II° co., n. 1, della L. Fall., che sancisce l’aumento di pena per l’ipotesi in cui il soggetto attivo abbia realizzato tutte le suddette condotte nell’ambito di una medesima procedura concorsuale.

Le tesi che si contendevano il campo erano quella della unitarietà del reato: secondo cui, nonostante le numerose e diverse condotte, il delitto di bancarotta rimane unico mentre tutti gli altri comportamenti illeciti configurano circostanze aggravanti dell’unico fatto tipico. E la opposta tesi della pluralità di reati, secondo cui i delitti rimangono strutturalmente distinti anche se vengono riuniti per la sola determinazione della sanzione penale, che si calcola mediante il cumulo giuridico. Dunque, per questa prospettiva dottrinaria e giurisprudenziale il II° co., n. 1 dell’art. in esame determinerebbe una disciplina speciale per il calcolo della sanzione in caso di concorso di reati, precludendo l’applicazione della disciplina più aspra contenuta nell’art. 81 c.p. (concorso formale di reati).

La decisione a favore dell’uno o dell’altro orientamento giuridico ha importanti conseguenze, soprattutto con riferimento al principio del bis in idem. Più nello specifico: se si accetta la concezione unitaria dei detti reati fallimentari, viene precluso un nuovo giudizio penale sia con riferimento a condotte che integrano ipotesi legislative diverse di bancarotta (es. tra bancarotta semplice e fraudolenta), sia con riferimento a condotte che costituiscono ulteriori violazioni della stessa fattispecie. Diversamente opinando, cioè, condividendo la tesi della pluralità (e del concorso) dei reati si perverrebbe alla conclusione opposta. La Cassazione, con la suddetta decisione, ha condiviso la tesi della pluralità di condotte tipiche di bancarotta, anche se le stesse siano poste in essere nell’ambito del medesimo fallimento, dando luogo ad un concorso di reati. Tutti questi reati (diversi ed autonomi) vengono unificati ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico previsto dall’art. 219, comma secondo, n. 1 della Legge Fall.: disposizione che non prevede, sotto il profilo strutturale, una circostanza aggravante ma che stabilisce una disciplina della continuazione derogatoria rispetto a quella ordinaria ex art. 81 c.p.

Ecco perché la Corte ha escluso che “con riferimento a condotte di bancarotta ancora sub iudice, sia configurabile la preclusione dell’eventuale giudicato intervenuto su altre e distinte condotte di bancarotta relative alla stessa procedura concorsuale”.

Abstract:

La prima parte affronta un breve excursus su recenti sentenze in materia di reati fallimentari, sub specie di reato di bancarotta. La seconda parte è rappresentata da uno schema riassuntivo degli elementi più importanti in materia.

Quelle che seguono rappresentano una parte significativa delle più recenti decisioni emesse dagli Ermellini in tema di reati fallimentari, con specifico riferimento al più ricorrente tra questi delitti: il reato di bancarotta.

Con la sentenza n. 32899/2011, i Giudici di Piazza Cavour hanno precisato che non si può escludere de plano l’eventuale accusa di bancarotta fraudolenta nell’ipotesi in cui l’imprenditore assuma iniziative finanziarie con mezzi propri in favore della impresa. Questa la ratio: poiché le iniziative del soggetto attivo rappresentano prestiti e non aumenti di capitale (l’attività, difatti, era svolta tramite un società) l’accusa del reato di bancarotta fraudolenta non è da scartare. Così gli Ermellini motivano la condanna: “… Correttamente i giudici del merito hanno evidenziato come fin dall’inizio si fossero manifestati i limiti di redditività dell’attività imprenditoriale dei due imputati con l’accumulo di perdite che avevano eroso l’intero capitale sociale già nel primo anno, ed hanno rilevato con motivazione adeguata ed esente da vizi logici, come lo squilibrio fosse progressivamente aumentato proprio a causa della caparbia, pervicace, ma altrettanto imprudente prosecuzione dell’attività, in mancanza di un’attenta valutazione delle reali prospettive dell’impresa e di interventi di ricapitalizzazione, irrilevanti essendo state le immissioni di fondi personali dei soci, che, in quanto avvenute sotto forma di finanziamento e non di aumento di capitale, avevano ulteriormente aggravato la posizione debitoria della società, divenuta per tale motivo irrecuperabile”.

Tra l’altro, la sentenza in esame offre una pertinente spiegazione sul concetto di dissesto precisando che per “dissesto deve intendersi, non tanto una condizione di generico disordine dell’attività della società, quanto una situazione di squilibrio economico patrimoniale progressivo ed ingravescente, che, se non fronteggiata con opportuni provvedimenti o con la presa d’atto dell’impossibilità di proseguire l’attività, può comportare l’aggravamento inarrestabile della situazione debitoria, con conseguente incremento del danno che l’inevitabile, e non evitata, insolvenza finisce per procurare alla massa dei creditori”.

Del medesimo tenore la Cassazione Penale, sentenza n. 29773/2011: seppur in presenza di azioni finalizzate a salvare la propria attività imprenditoriale, è evidente che, in caso di insuccesso, si avrà lo stesso un “depauperamento del patrimonio sociale destinato a garanzia dei creditori” ed alla luce di tali premesse l’imprenditore che ha assunto lo stesso quel comportamento “accettando l’eventualità che tale depauperamento abbia in effetti a verificarsi” è passibile di accusa per il reato di bancarotta.

Invece, la decisione n. 28077/2011 emessa dai Giudici della Cassazione ha avuto ad oggetto il comportamento (illecito) del liquidatore di una società in fallimento. Questi, in sintesi, si era attribuito per intero il proprio compenso, riscuotendolo in anticipo rispetto a tutti gli altri creditori della società in crisi. Gli Ermellini hanno qualificato tale condotta come reato di bancarotta fraudolenta preferenziale con un aggravante: “… a ben vedere, la particolare gravità della condotta, consistente nell’approfittamento di una condizione di privilegio, derivante dalla posizione dell’agente, potrebbe esser tenuta presente nel momento della concreta determinazione del trattamento sanzionatorio, ben potendo la ‘autoliquidazione’ essere giudicata, ai fini della pena, condotta più grave – sotto il profilo oggettivo e soggettivo – rispetto ad altre condotte preferenziali”.

Sempre di bancarotta preferenziale parla la sentenza n. 36125/2011 della Corte di Cassazione con la quale si è riconfermata la condanna, di I° grado e di appello, a carico di un imprenditore per aver venduto una Jaguar aziendale, acquistata alcuni anni prima con denaro proprio. L’imprenditore, subito dopo aver ottenuto il pagamento in contanti dalla detta vendita, per assicurarsi il recupero di parte del denaro speso per l’acquisto della Jaguar, si e attribuiva il relativo rimborso. Da precisare che la spesa figurava come finanziamento implicito.

A questo punto, però, si può analizzare un po’ più nello specifico cosa si intenda per reati fallimentari.

Si definiscono così quei delitti commessi dall’imprenditore o da terzi soggetti qualificati (amministratori, liquidatori ecc.), attraverso condotte idonee ad arrecare pregiudizio all’impresa stessa o ai propri creditori, con in più la verificazione dell’accertamento giudiziario del fallimento. In linea generale, dunque, i reati fallimentari sono costituiti da condotte che tendono a frustare la finalità della procedura concorsuale ossia la ricostruzione documentale e materiale del patrimonio di una impresa al fine di soddisfare la massa dei creditori.

La differenza fondamentale, difatti, tra i reati societari e quelli fallimentari risiede proprio nella circostanza che i primi sono costituiti, di fatto, da reati di falso (false comunicazioni sociali e false comunicazioni sociali in danno alla società, ai soci o ai creditori; aggiotaggio ecc), i reati fallimentari, invece, non si realizzano al di fuori di una crisi d’impresa e/o di azienda. Rientrano nel genus dei reati fallimentari sia il delitto di bancarotta (nelle sue numerose forme) sia quello di ricorso abusivo al credito.

A titolo esemplificativo, si può menzionare un caso esaminato dalla Cassazione la quale, nell’occasione, ha precisato che rischia l’imputazione per reato di bancarotta fraudolenta l’imprenditore e/o l’amministratore di società commerciale nel caso in cui lo stesso utilizzasse per proprie spese la disponibilità economica contenuta nella carta di credito appartenente alla impresa.

L’oggetto del reato può consistere ora nel patrimonio dell’impresa (ad esempio nella bancarotta patrimoniale), quando l’azione ha come effetto quello di ridurlo o consumarlo; ora nei documenti obbligatori della impresa (cd. bancarotta documentale e/o nel caso di ricorso abusivo al credito), allorquando siano questi ad essere oggetto della condotta.

In merito al bene giuridico tutelato esistono diverse opinioni: storicamente, questi delitti nascono a tutela del cd. “codice commerciale”, dunque, a tutela della genuinità ed onestà nel commercio che rappresenta da sempre il cuore dei rapporti economici e del benessere di una società.

Oggi, l’oggetto giuridico viene rinvenuto, da alcuni studiosi, nelle ragioni economiche dei creditori; per altri, il corretto svolgimento delle relazioni economiche e, dunque, nell’interesse dell’economia in generale; per altri ancora, infine, sarebbe tutelato direttamente il regolare svolgimento delle procedure concorsuali ed indirettamente la corretta amministrazione della giustizia. Una ultima tesi, intermedia, configura i reati fallimentari come reati plurioffensivi, pertanto, posti a tutela di tutti i beni giuridici summenzionati.

E tra i reati fallimentari è la bancarotta a rappresentarne la figura delittuosa più rappresentativa e notoria.

L’elemento oggettivo del reato è rappresentato da qualunque atto, commesso dall’imprenditore o da terzi soggetti (qualificati da un particolare rapporto con l’impresa stessa, come amministratori, liquidatori, sindaci ecc.) con cui si dissipa, altera, distrae e/o consuma il patrimonio appartenente all’impresa (art. 216 R.D. n. 267/1942) e che, comunque, procura un pregiudizio, attuale o potenziale, ai creditori dell’impresa. Nel primo caso, cioè se tali condotte sono poste in essere dall’imprenditore stesso, si parla di bancarotta propria; la diversa ipotesi, si definisce bancarotta impropria, proprio perché a realizzare le condotte incriminate sono soggetti diversi dal “fallito” (rectius dalla società).

Elemento imprescindibile per la configurazione del reato di bancarotta (comune a tutti i delitti fallimentari) è la necessaria presenza della dichiarazione di fallimento. Ma con una precisazione. Mentre nel reato di bancarotta pre-fallimentare, nel quale le condotte lesive dell’imprenditore o dei terzi sono state da questi realizzate prima della suddetta dichiarazione, il fallimento rappresenta elemento costitutivo della fattispecie penale. Invece, nel reato di bancarotta post-fallimentare, nel quale, cioè, le condotte incriminate sono state realizzate dopo la dichiarazione de qua, il fallimento rappresenta condizione obiettiva di punibilità.

È la recente sentenza della sezione penale della Cassazione (Cass. Pen. sent. n. 15061/2011) a precisare che se è vero, come lo è, che il reato di bancarotta fraudolenta suppone la definitività della dichiarazione fallimentare, ciò non esclude che l’azione penale possa essere esercitata anche prima del passaggio in giudicato della detta dichiarazione purchè sia stata già presentata la relativa domanda di fallimento.

Con riferimento al profilo dell’elemento soggettivo, invece, normalmente gli studiosi fondano su di esso la differenza tra la bancarotta semplice e quella fraudolenta. Nella prima fattispecie, il soggetto attivo ha agito senza dolo ma con un atteggiamento avventato ed imprudente; la seconda ipotesi, per come espressamente indicato dalla terminologia utilizzata dal legislatore, è caratterizzata dall’intento fraudolento, cioè il soggetto attivo dissipa, falsifica, distrae, occulta ecc. i beni dell’impresa ben consapevole di commettere condotte illecite che diminuiranno il patrimonio sociale.

Ma il problema dell’elemento soggettivo, con riferimento al reato della bancarotta fraudolenta, si rende più complesso quando si vanno ad analizzare le molteplici fattispecie tramite le quali il detto reato può manifestarsi.

Con riferimento alla bancarotta fraudolenta patrimoniale, la giurisprudenza consolidata ritiene che l’elemento soggettivo per la configurazione del detto delitto è il dolo generico, cioè coscienza e volontà di compiere atti di distrazione, occultamento, dissimulazione ecc. con conseguente riduzione del patrimonio dell’impresa. Non è necessario che il soggetto agente sia a conoscenza dell’eventuale fallimento e/o crisi aziendale. E neppure è necessario il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di creare nocumento alla massa di creditori o alla società. Un collegamento, in merito a ciò, può essere effettuato con riferimento all’elemento psicologico richiesto dal reato di bancarotta fraudolenta per distrazione: per parte della giurisprudenza anche in questo caso è sufficiente, difatti, il dolo generico. Dunque, esso è integrato se vi sono coscienza e volontà di utilizzare il patrimonio sociale per uno scopo diverso rispetto alle finalità d’impresa e con la prevedibilità di un pregiudizio per i creditori. Pregiudizio inteso come riduzione della generica garanzia patrimoniale dell’impresa ma non come consapevolezza dello stato di dissesto della medesima.

Invece, con riferimento alla bancarotta fraudolenta documentale occorre fare delle distinzioni: vi è la prima ipotesi di reato (sottrazione, distruzione o falsificazione, in tutto o in parte, di libri ed altre scritture contabili) che richiede il dolo specifico (coscienza e volontà sia di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto sia di arrecare danno ai creditori); mentre diversa è la seconda ipotesi di reato consistente nella tenuta della contabilità di modo che si impedisce la ricostruzione della situazione dell’impresa, che richiede il dolo generico (coscienza e volontà di rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio dell’impresa). Ipotesi scolastica del primo tipo è la seguente: un imprenditore che, nell’imminenza del fallimento, denunzia il furto dell’automobile sulla quale erano custoditi i libri contabili dell’impresa. Ma l’attenzione di alcuni studiosi è caduta sull’eventuale impossibilità di condannare il soggetto agente nel caso in cui questi agisca solo per ottenere un vantaggio per sé ma senza l’intenzione di creare un danno ai creditori (es. distruzione di libri contabili per evitare una ispezione tributaria).

Per la bancarotta preferenziale, infine, basta il dolo generico (coscienza e volontà che preferisco un creditore a discapito di tutti gli altri) ed, in alcuni casi, anche il dopo eventuale, cioè se il soggetto attivo ha accettato l’eventualità che gli altri creditori risultino svantaggiati. Esempi di questa fattispecie di reato fallimentare sono: il pagamento, prima della dichiarazione di fallimento, di debiti personali a scapito di quelli tributari della impresa; oppure, in caso di società, il pagamento solo dei debiti che si hanno nei confronti della capogruppo o delle consociate.

In rapporto al profilo del possibile spiegarsi di un concorso di persone nel reato, può precisarsi che esso può configurarsi nel reato di bancarotta fraudolenta. Una particolare ipotesi si verifica allorquando il reato avviene nell’ambito di una gestione collegiale dell’impresa (es. società amministrata da un consiglio di amministrazione) oppure quando c’è stata una delega di funzioni (società di persone in cui uno solo dei soci è amministratore).

La regola generale è che la responsabilità penale grava su tutti i membri dell’organo amministrativo: sia per chi commette materialmente le condotte integranti il reato di bancarotta (dolo commissivo) sia per gli altri amministratori nel caso in cui non abbiano diligentemente vegliato e/o agito e/o denunciato i fatti di bancarotta fraudolenta per evitare la riduzione del patrimonio sociale (dopo omissivo). Lo stesso ragionamento giuridico deve essere effettuato con riferimento ai membri del collegio sindacale: essi concorreranno nel reato di bancarotta fraudolenta in caso di omissione di controllo e/o reazione a quanto hanno saputo e/o avrebbero dovuto sapere. Altra ipotesi possibile è il concorso dell’extraneus nel reato di bancarotta propria.

La Cassazione, di recente, ha avuto modo di occuparsi di una vicenda penale che ha visto coinvolto, nella qualità di concorrente ex art. 110 c.p., nel reato di bancarotta propria il commercialista del soggetto attivo (imprenditore). Ed in tale occasione gli Ermellini (Cass. Pen., sent. n. 30412/2011) hanno precisato che quando l’extraneus al reato proprio compie atti che concorrono a realizzare “segmenti” utili al risultato finale (dunque, condotte che concorrono a determinare il fallimento in danno ai creditori), senza attivarsi per ridurre la portata lesiva della condotta illecita del soggetto attivo, questi ne risponde penalmente, anche se come concorrente. Anche qui, l’elemento soggettivo necessario perché sia ravvisabile il concorso dell’extraneus nel reato proprio è il dolo generico inteso come coscienza e volontà di contribuire, con la propria condotta aggiunta a quella dell’intraneus, all’impoverimento del patrimonio sociale. Rimane esclusa la necessità del dolo specifico, non essendo richiesta la conoscenza dello stato di dissesto.

Inoltre, con riferimento al concorso di reati fallimentari una recente sentenza della Cassazione a Sezioni Unite ha posto fine ad una annosa questione circa la unitarietà o pluralità di reati in caso di concorso tra le diverse fattispecie di reati fallimentari: ad esempio, in caso di concorso tra condotte integranti il reato di bancarotta semplice, di bancarotta fraudolenta e, magari, anche di ricorso abusivo al credito. Il problema giuridico investiva la corretta interpretazione dell’art. 219, II° co., n. 1, della L. Fall., che sancisce l’aumento di pena per l’ipotesi in cui il soggetto attivo abbia realizzato tutte le suddette condotte nell’ambito di una medesima procedura concorsuale.

Le tesi che si contendevano il campo erano quella della unitarietà del reato: secondo cui, nonostante le numerose e diverse condotte, il delitto di bancarotta rimane unico mentre tutti gli altri comportamenti illeciti configurano circostanze aggravanti dell’unico fatto tipico. E la opposta tesi della pluralità di reati, secondo cui i delitti rimangono strutturalmente distinti anche se vengono riuniti per la sola determinazione della sanzione penale, che si calcola mediante il cumulo giuridico. Dunque, per questa prospettiva dottrinaria e giurisprudenziale il II° co., n. 1 dell’art. in esame determinerebbe una disciplina speciale per il calcolo della sanzione in caso di concorso di reati, precludendo l’applicazione della disciplina più aspra contenuta nell’art. 81 c.p. (concorso formale di reati).

La decisione a favore dell’uno o dell’altro orientamento giuridico ha importanti conseguenze, soprattutto con riferimento al principio del bis in idem. Più nello specifico: se si accetta la concezione unitaria dei detti reati fallimentari, viene precluso un nuovo giudizio penale sia con riferimento a condotte che integrano ipotesi legislative diverse di bancarotta (es. tra bancarotta semplice e fraudolenta), sia con riferimento a condotte che costituiscono ulteriori violazioni della stessa fattispecie. Diversamente opinando, cioè, condividendo la tesi della pluralità (e del concorso) dei reati si perverrebbe alla conclusione opposta. La Cassazione, con la suddetta decisione, ha condiviso la tesi della pluralità di condotte tipiche di bancarotta, anche se le stesse siano poste in essere nell’ambito del medesimo fallimento, dando luogo ad un concorso di reati. Tutti questi reati (diversi ed autonomi) vengono unificati ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico previsto dall’art. 219, comma secondo, n. 1 della Legge Fall.: disposizione che non prevede, sotto il profilo strutturale, una circostanza aggravante ma che stabilisce una disciplina della continuazione derogatoria rispetto a quella ordinaria ex art. 81 c.p.

Ecco perché la Corte ha escluso che “con riferimento a condotte di bancarotta ancora sub iudice, sia configurabile la preclusione dell’eventuale giudicato intervenuto su altre e distinte condotte di bancarotta relative alla stessa procedura concorsuale”.