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Reddito minimo vitale: la Ley 19/2021 lezione di welfare al legislatore italiano

Sguardi
Ph. Fabio Toto / Sguardi

Come le principali realtà europee, anche la Spagna introduce il reddito minimo vitale, entrato in vigore il 1° gennaio 2022.

Esso prende le mosse dal Real Decreto-ley 20/2020, espressamente volto a prevenire il rischio di povertà e di esclusione sociale, offrendo a determinate categorie varie opportunità in materia di istruzione, di accesso all’ambito di lavoro, o di natura sanitaria, interessando non solo lo Stato, ma anche le Comunità autonome e gli enti locali (escluse le Comunità autonome dei Paesi Baschi e della Navarra, in cui è in vigore un regime economico speciale, il c.d. régimen foral).

Preme sottolineare che la prestazione non contributiva soprarichiamata attua le disposizioni costituzionali concernenti

  • il sistema di previdenza sociale (articolo 41),
  • lo Stato Sociale (articolo 1) e
  • l’obbligo di promozione dell’uguaglianza materiale (articolo 9, comma 2).

L’articolo 4, comma 1, di tale decreto riporta i beneficiari del reddito minimo vitale: le persone integrate in unità di convivenza, o le persone con almeno ventitré anni di età che non godono di una pensione contributiva di vecchiaia o di inabilità per incapacità permanente, né di una pensione contributiva, e che non siano integrate in un’unità di convivenza. In tale circostanza, deve trattarsi di soggetti non coniugati o uniti con un partner di fatto, salvo nei casi in cui sia in atto un procedimento di separazione o di divorzio.

Tuttavia, si ritiene opportuno segnalare che i requisiti relativi all’età o alla sussistenza di un processo di separazione o di divorzio non trovano applicazione nei confronti delle donne vittime di violenza o delle vittime di tratta di esseri umani e di sfruttamento sessuale.

L’articolo 7, comma 1, mette a punto i requisiti di accesso al reddito minimo vitale:

  • il possesso della residenza legale ed effettiva nel territorio spagnolo in maniera continuativa ed interrotta (almeno nell’anno precedente alla richiesta), con talune eccezioni;
  • la presenza di una reale condizione di vulnerabile economica (articolo 8);
  • l’inoltro della richiesta di pensione o di prestazioni pubbliche previste dal regolamento (fatta eccezione per i salari sociali, i redditi minimi di inserzione o altri sussidi analoghi di assistenza sociale delle Comunità autonome).

Un aspetto cruciale della Ley 19/2021 è rappresentato dal complemento de ayuda para la infancia, vale a dire un’integrazione mensile delle somme percepite per la prole minore a carico, il cui importo varia in base alla loro età, e un’ulteriore integrazione pari al 22% per i nuclei familiari in cui siano presenti individui con un grado di disabilità superiore al 65%.

In aggiunta, è stato predisposto il Registro de Mediadores Sociales del Ingreso Mínimo Vital, al quale possono iscriversi taluni enti del terzo settore che, nella veste di mediatori, potranno certificare l’adempimento dei requisiti prescritti dalla legge.

Prima di giungere all’oggetto del suddetto operato, appare indispensabile accennare ai “nodi” scaturiti a seguito dell’approvazione del Real Decreto-ley 20/2020.

L’introduzione del reddito, infatti, è stata accompagnata da talune criticità, tra cui spunta la mancanza di coordinamento tra lo Stato e le Comunità autonome. In tale quadro, trova riscontro la decisione del Governo catalano di adire, in via principale, il Tribunale Costituzionale, affermando che la volontà di istituire il reddito come una prestazione previdenziale non contributiva, riconoscendo ad un organo statale – l’Instituto Nacional de la Seguridad Social (INSS) – le competenze in materia di “gestione”, aveva invaso illegittimamente le competenze esclusive della Catalogna in materia di sicurezza sociale (articolo 149, comma 1, par. 17 Costituzione) nonché in materia di assistenza sociale (articolo 148, comma 1, par. 20, Costituzione).

Nell’ottica dei giudici costituzionali, lo Stato non ha invaso le competenze della Catalogna, in quanto l’instaurazione di un modello di gestione accordato all’INSS figura nell’ambito della legislazione “básica” della sicurezza sociale e, peraltro, tocca il suo regime economico, una competenza attribuita in via esclusiva allo Stato. In particolare, il Tribunale Costituzionale ribadisce che tale tipo di prestazioni non contributive rispondono a una “concezione evolutiva” del sistema della sicurezza sociale e implicano la discrezionalità legislativa. Tali motivi giustificano la scelta di non delineare la portata delle competenze dello Stato e delle Comunità autonome in materia di assistenza sociale.

In tale sede, è inevitabile il raffronto con lo scenario italiano.

Con il d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 (“Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni”) convertito con modifiche dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, è stato introdotto il reddito di cittadinanza. Secondo quanto sancito dall’articolo 1 di tale decreto, esso si configura quale “misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all'informazione, all'istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro”.

Al fine di evitare equivoci, si ritiene opportuno tracciare la distinzione tra reddito minimo e reddito di cittadinanza.

Il primo rappresenta una forma di sostegno al reddito e di contrasto alla povertà di tipo selettivo, essendo il sussidio erogato solo a coloro che, previa prova dei mezzi richiesti, versano in stato di bisogno e non raggiungono la soglia (stabilita per legge) identificata con un reddito pari almeno al livello minimo di sussistenza. Il reddito di cittadinanza, invece, consiste in un reddito corrisposto a tutti, su base individuale, indipendentemente da verifiche del livello di ricchezza e di occupazione.

La distinzione appena delineata è indispensabile anche per evidenziare i fallimentari tentativi di introdurre il reddito minimo in Italia.

Nel 1996, la Commissione di indagine sulla povertà e sull’emarginazione propose l’istituzione di un reddito minimo per coloro che possedevano entrate al di sotto di tale minimo. Oltre a garantire condizioni minime di assistenza, la misura in esame doveva favorire l’integrazione sociale di chi lo riceveva.

Nel 1997, la Commissione per l’analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale (Commissione Onofri) mise a punto una riforma degli istituti assistenziali del welfare italiano. Quest’ultima prevedeva l’istituzione di un unico istituto di minimo vitale a favore di coloro che possedevano risorse inferiori al 50-60% del reddito medio pro capite, offrendo alla persona indigente un ventaglio di sostegni economici e servizi. L’intento era quello di evitare la c.d. trappola della povertà, non inducendo il fruitore a trarre profitto dagli aiuti pubblici.

Ai lavori delle due Commissioni è seguito il d.lgs. n. 237/1998, con il quale si introduceva in via sperimentale la misura del Reddito minimo di inserimento (RMI): per la prima volta, si affermava la necessità di tutelare e sostenere gli individui indigenti in quanto tali e non in quanto disoccupati, anziani o membri di famiglie in difficoltà, riconoscendo così a tutti i cittadini di godere di un reddito sufficiente per una vita dignitosa. Il RMI, pur dando luogo ad una rivoluzione culturale, è stato oggetto di criticità, riconducibili innanzitutto al diverso livello di sviluppo economico e sociale delle realtà territoriali, inidonee a gestire e impiegare tale misura.

Altri problemi sono stati sollevati dalla legge n. 238/2000, con la quale è stata disegnata un’articolazione di poteri e competenze dei diversi livelli di governo territoriale e di soggetti privati, volti a conferire congiuntamente il proprio contributo nella fase di gestione dei servizi e in quella di pianificazione e attuazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

Il testo riformato dell’articolo 117 Costituzione ha poi conferito alle Regioni la potestà legislativa esclusiva in materia di assistenza sociale, causando un’irregolare territorializzazione dei diritti sociali. Il problema reale – a parere di chi scrive – sembrerebbe essere un altro: il tentativo di introdurre il reddito minimo in Italia non è frutto della volontà del legislatore nazionale.

L’intervento italiano avviene solo su pressione europea (Raccomandazione CEE n. 441/1992; Raccomandazione CEE n. 442/1992), nel momento in cui il Consiglio adotta un approccio “multidimensionale”, individuando come strumento fondamentale per la garanzia dello ius existentiae una misura di carattere universale che associ alla componente di integrazione del reddito una componente di attivazione delle capacità personali a fronte dell’inserimento sociale e lavorativo degli individui esclusi.

Senza entrare nel dibattito europeo, appare opportuno ricostruire la base costituzionale dello ius existentiae. Innanzitutto, il diritto ad un minimo vitale trova fondamento negli artt. 36 e 38 Costituzione L’assistenza costituisce un diritto costituzionalmente garantito, il cui nucleo essenziale non può essere intaccato dal legislatore.

In tale senso, si richiama la sentenza n. 10/2010, con la quale la Corte costituzionale sottolinea l’esistenza di una dimensione incomprimibile del diritto all’assistenza sociale, almeno ove connesso a condizioni di bisogno estremo.

Da tale dichiarazione giurisprudenziale affiora chiaramente il contenuto minimo essenziale del diritto all’assistenza, consistente nella risposta ad un’esigenza fondamentale che, se non appagato, lede la dignità della persona umana. Al contempo, la Consulta, nel ricostruire lo ius existentiae in termini universalistici, incentra la misura anche sugli artt. 2 e 3 Costituzione.

L’articolo 2, da un verso, esprime la primazia della persona nell’ordinamento statuale; dall’altro, impone alla medesima dei doveri di solidarietà finalizzati a garantire uno sviluppo armonico e pieno della collettività.

Particolare peso assume l’articolo 3 Costituzione, in virtù del quale uno compiti della Repubblica è quello di prodigarsi per attuare un programma di giustizia sociale che sopprima le disuguaglianze di fatto e soddisfi i bisogni dei più fragili, consentendo a tutti di partecipare all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

In ultima analisi, il quadro è integrato dall’articolo 4 Costituzione, che sancisce il principio lavorista. Come risaputo, il lavoro costituisce il principale strumento per arginare la povertà e l’emarginazione sociale.

Si ricorda che, nell’impianto costituzionale, il lavoro è considerato non solo come strumento di affermazione della personalità, ma anche come fonte di legittimazione sociale per la titolarità e l’esercizio di qualsiasi altra posizione.

In definitiva, l’adozione di un reddito minimo induce non solo a eliminare le disuguaglianze, concedere libertà e garantire a tutti un’esistenza libera e dignitosa, ma anche a valorizzare i principi enunciati dalla Costituzione.

In attesa di un “segnale” italiano, tale approccio sembra essere stato condivido dal legislatore spagnolo.