Goya faceva i capricci
GOYA FACEVA I CAPRICCI
Allorché, dopo il bagno salutare nelle avanguardie, si pensò a un ritorno all’ordine, divenne quasi un vezzo scoprire la modernità in autori antichi, la si trovava nell’insieme compositivo o nei particolari, nella libertà della pennellata o del disegno, nella concezione o nella soluzione. Non era chiaro se si volesse fare un complimento agli antichi o giustificare i moderni, se si pensasse a una riabilitazione del passato o a riaffermare una continuità, interrotta dal decadere delle accademie in morte gore senza vie d’uscita. Dire: “guarda come è moderno!” di un autore del passato, significava sentirne l’attualità e ritrovarsi nella tradizione.
Arruolare Goya tra i moderni non fu difficile, oltretutto, essendo vissuto fino al 1828, bussava davvero alla porta dei nostri studi. Goya incantava e turbava, come continua a fare; in lui si poteva trovare il liberale e il pittore del Re, un Re tutt’altro che liberale. L’artista veniva a rappresentare le ultime visioni del mondo antico, già calante nella realtà moderna, con la consapevolezza della fine di un tempo, ultimo baluardo del mito. Lo sforzo, nobile e feroce, che si erano assunti, la Chiesa con l’Inquisizione, e Ferdinando VII con l’abolizione della Costituzione, la chiusura delle università o dei giornali, non bastò a fermare il tempo e trattenere una civiltà. La modernità era alle porte in tutta la sua sfolgorante prestanza e già in corsa verso il nulla, ma salutata da tutte le possibili espressioni del brutto, che noi ora ben conosciamo, scese in piazza a rivendicare millenarie emarginazioni.
Goya resta il più moderno tra gli antichi e il più antico tra i moderni; il suo mondo è ancora formato da aristocrazia e popolo, nobili e plebei, i due ritratti di Maya, la Duchessa d’Alba, sono il passato e il presente. A nessun artista, prima di lui, era capitato di dipingere la stessa persona, e nella stessa posa, vestita e nuda come a rappresentare ciò che cambia e ciò che resta. I personaggi di corte, le credenze, le fantasie e i sogni della terra di Spagna concludono il loro ciclo nell’opera di Goya. Com’è moderno questo grande artista nel canto di cigno del mondo antico!
A Torino nella galleria Salamon, l’impegno di Francisco Goya y Lucientes viene riproposto con le incisioni dei celebri Capricci, fantasie esaltate ed esaltanti, scrupolosamente schedate nel catalogo da Silverio Salamon e con una introduzione di Beppi Zancan. I capricci sono espressioni dei bambini o degli artisti, se quelli dei bambini suscitano fastidio, quelli degli artisti turbano le coscienze, essendo comunque un sintomo d’insofferenza che si palesa a suo modo denunciando un disagio. Nei Capricci, Goya dà sfogo al proprio sdegno contro tutto ciò che trova falso, spregevole, feroce o assurdo e colpisce con l’arma implacabile dell’arte che condanna i colpevoli al supplizio dell’immagine affidata al tempo. La sua non è l’intolleranza del moralista, la delusione del credulo o la iattanza dell’insofferente ma piuttosto lo sdegno e l’amarezza di chi conosce le bassezze del mondo messe impietosamente a nudo dall’istinto privilegiato di un artista di genio. Nello scoprire, giudicare e staffilare attraverso le raffinatezze di una satira che conosce il sottile quanto inconfessabile gusto del sadismo, Goya ha avuto predecessori, che possono chiamarsi Hieronymus Bosch, e seguaci che arrivano al nostro Italo Cremona; autori che compiono, attraverso l’immagine, le loro generose e altruistiche vendette.
I suoi Capricci, Goya li esegue usando le tecniche abbinate dell’acquaforte e dell’acquatinta, tecniche complementari e fascinose se mai ve ne furono. Il segno variabile, sinuoso e duttile dell’acquaforte per delineare il soggetto e modellarlo; i grigi, i bruni e i neri dell’acquatinta per renderne il fascino, suscitarne il mistero e completarne la composizione. Nei Capricci il segno disegna veloce e insofferente, tanti tratti ravvicinati, magari curvi secondo la forma da costruire, riempiono uno spazio uscendo a tratti dai limiti immaginari, non si muovono dentro un tracciato ma lo suggeriscono, si pensi al turgido cilindro nello stupendo, essenziale Autoritratto. La tecnica è per Goya, come per ogni artista che si rispetti, unicamente un mezzo espressivo che non deve permettersi virtuosismi di sorta. Forte del diritto d’espressione non esita infatti è strapazzarla, piegarla alle proprie necessità e confonderla fino a umiliarla perché dal suo sacrificio emerga imperioso un risultato che non debba onorare debiti di riconoscenza. Andranno ben oltre i nostri Fattori e Luigi Bartolini, arrivando a sfruttare ammaccature e bruciature della lastra consapevoli che, nell’arte, la regola deve cedere il passo alla sana prepotenza della necessità quando conduca alla poesia.
L’acquatinta, con la sua estensibile morsura a reticolo, permette vibranti campiture e Goya se ne serve per variare toni, profondità e composizione; con l’acquatinta completa il soggetto inserendo un fondale di monti o una quinta di chiusura, modella un panneggio o circonda di nero un bianco che diventa fulgente. L’elementare, insuperabile bianco e nero ha in lui un entusiasta assertore: la luce e l’ombra, i gravi contrasti della Spagna più vera mitizzati nella veste di luce del torero e nella nera mantiglia per la festa e il lutto; anche Garcia Lorca fisserà nei due non colori un aspetto della sua terra che sa di sole e di morte: “La piazza era un ruotante zodiaco di risate bianche e nere”. Nei Capricci, Goya sembra riassumere e concludere timori e speranze di più secoli tirando le somme. Fiaba e realtà confondono la ragione e nascono i mostri, mentre sono ancora possibili le metamorfosi, i sabba delle streghe e l’intervento del maligno. I toni sulfurei di un medioevo, rivisto e rimaneggiato a uso e consumo dell’Inquisizione, destano ancora mai del tutto sopiti timori e l’artista, che ama il mistero, la sospensione metafisica e la possibilità di lasciar libero il sogno in reami dove solo la fantasia ha la cittadinanza onoraria, vi si abbandona ignaro e consapevole al contempo. I personaggi dei Capricci sono l’umanità dolente, anime in pena nella parte di cospiratori o penitenti, di mezzane e di prostitute, di monaci e di demoni che spesso si equivalgono, chiamati tutti a rappresentare i risvolti inquietanti di una società in transito che sembra voglia portare l’antico davanti al giudizio della modernità come si conduce un vinto davanti al vincitore.
Al tempo di Goya la Spagna conosce una delle sue ricorrenti turbolenze dal ripristino dell’Inquisizione alla conquista napoleonica, dai reali spodestati alla spontanea sollevazione di popolo. Persecuzioni, condanne, fucilazioni, furore, sdegno e sconcerto; l’artista dà conto di tutto, inquisitore a suo modo, che finirà inquisito, registra anche la prepotenza e la barbarie di chi si era presentato come portatore di libertà, eguaglianza e fraternità. Misantropo, sordo, inquieto, finirà per lasciare la Spagna per la Francia (chissà perché proprio il Paese degli invasori) e scegliendo Parigi sarà anche in questo il precursore degli artisti ammaliati dalla Ville Lumiere. Ma non rompe con la propria terra né con il sovrano; pronto a tornare a Madrid ogni volta che la nostalgia chiama più forte o magari per riscuotere il sussidio che la benevolenza del Re gli ha concesso.
Punto di riferimento e fonte d’ispirazione per gli artisti moderni, Goya resta una figura di frontiera: le sue incisioni, sia pure involontariamente, hanno suscitato ben altri capricci e i suoi timori ben altre angosce Se il sonno della ragione genera mostri, che al suo tempo potevano confondersi con le fantasie dell’arte, la perdita della ragione ha diffuso solo una vasta confusione e una costante inquietudine, dove ci muoviamo senza comprendere bene chi sono i mostri, cosa pretendano e se sia possibile esorcizzarli senza aiuto della poesia, perduta tra gl’ingranaggi del progresso.
(Sigfrido Bartolini)
“IL GIORNALE” -MI – 24 aprile 1996