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Ritorno a casa

Ancora, ancora e ancora: un ritratto dell’Italia che appare quella di oggi: ma di quando è?
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Ritorno a casa

C’era una volta, che tornare era un piacere. Di lontano, l’Italia si giungeva a idealizzarla. Nostalgie e indifferenze, attese e delusioni si bilanciavano. M’ero abituato a trovarla lieta, rumorosa, affaccendata in una scombinata vitalità, incosciente delle sue contraddizioni: di cui la principale, tuttavia, quella tra il declino delle istituzioni pubbliche e l’apparente felicità dei singoli, finì per non apparirmi più tale. Conclusi che negli ultimi anni di questo dopo guerra s’era finalmente compiuta l’identificazione tra l’assetto politico del nostro popolo e la vocazione segreta della sua anima: l’arte di arrangiarsi, il gusto dell’improvvisazione, il culto atavico della capriola compiuta con destrezza, anche se non sempre con ortodossia morale: un pragmatismo privato e ingegnoso che si esprimeva in una libertà dispersiva, parente stretta dell’anarchia. Ci eravamo scrollati di dosso ogni residuo di discipline ereditate, sulla sfondo della scoperta rudimentale, ora irritante, ora commovente, dell’economia moderna.

L’assenza dello Stato, delle sue tangibili emanazioni, di un dovere, di una responsabilità collettiva, aveva liberato gl’italiani del peso fastidioso di fardelli, missioni, come si diceva, storiche. E la sofferenza dei pochi che di ciò pativano come di una umiliazione e abdicazione, restava incompresa ai più, spartiacque di una irrimediabile incomprensione reciproca. Questo popolo appariva intimamente contento della sua anarchia che, tolti brevi interregni, era quella di sempre: premiata, tuttavia (ecco la vera novità), da qualche sollievo materiale, principio di un vivere tollerabile per molti. Anarchica, indisciplinata, ottimista, apparve perciò l’espansione, come anarchiche e rissose erano state le epoche di necessità e penuria. Questa vacanza in massa, quest’assenza smemorata e trafficona, realizzavano non soltanto gl’istinti peggiori del carattere nazionale, ma anche i migliori: la laboriosità, la prontezza dell’impegno, la tolleranza, l’umanità.

Ora, l’anarchia rimescola il fondo e il cielo è scuro. La dissoluzione dello Stato contagia fibre finora immuni. L’espansione è un ricordo.  Torni e ritrovi un paese esausto, infranto. Non che non fosse così due settimane fa. Ma l’interruzione rompe il ritmo dell’assuefazione. Le novità all’arrivo sono un inventario raccapricciante. Rotti i laghi, i fiumi, i canali, le rogge, per il “dissesto idrico”, figlio dell’incuria. Scuole aperte tra agitazioni di bambini pendolari e genitori manifestanti. Scioperi ed evasioni nelle carceri. Veleni a spasso, da Seveso a Manfredonia. Ospedali incredibili, malati senza cibo in balia di scioperanti, da Milano a Napoli, scandali a Pescara. Il racket dei Tir uccide un carabiniere; un avvocato romano aggredito e picchiato con moglie e figlia, in Piazza Santa Croce a Firenze, che non è il deserto, perché proprietario di una Rolls-Royce.

Torni, e trovi un ‘Italia torva, tetra. All’aeroporto, il nastro portabagagli si rompe. Si aspetta. Il milite della Finanza interroga: “Niente da dichiarare?” Rispondo di no. Intima “Apra quella valigia”. D’accordo. Sconosciuto, non posso pretendere che mi creda sulla parola. Ma non ha il diritto di darmi del bugiardo. Meglio fare aprire la valigia, senza domandare niente. All’obiezione, diventa sarcastico, invita a “declinare generalità”. L’autista del tassì è ingrugnato. Da una vettura accanto scaricano bagagli, basta una piccola manovra a scansarli. E invece, è un diluvio d’insulti, disgustosi, odiosi, che continua per un buon tratto, si placa in mezzo alla campagna, e riprende alle soglie della città. Alla stazione, è appena finito qualche sciopero. Un facchino prende con disgusto le valigie. Alla richiesta di portarle a una vettura verso il centro del convoglio, sbotta: “Che, nun so’ tutte uguali?”. In viaggio, arriva un giovanotto seccato con un carrettino di bibite. Gli lascio una mancia, considerando l’acquisto, generosa. Se ne va, più sdegnoso e seccato che mai, senza ringraziare. Mi guardo attorno: compagni di viaggio, la gente nei corridoi, la gente nei marciapiedi delle stazioni. Gente tetra, senza sorriso. Dov’è l’allegria incosciente che m’irritava? Attraverso, sulla dorsale ferroviaria, mezza Penisola. Mi pareva lieta senza ragione. Mi fa pena, così affranta. Un paio di mesi fa, un istituto d’indagine statistica disse che gl’italiani sono, in maggioranza, soddisfatti. Non credo che sia vero. Trovo, al ritorno, astio e tristezza. Mi chiedo se sia il presagio di qualche nuova sventura, o la incubazione di una ripresa.

Piero Santerno

Articolo pubblicato su “Il Giornale”, 8 ottobre 1976