Spese per sponsorizzazioni e loro deducibilità
La sponsorizzazione è, come affermato nella risoluzione del 14 novembre 2002, n. 356/E, “un contratto bilaterale a prestazioni corrispettive, in base al quale il soggetto sponsorizzato o sponsee si obbliga nei confronti dello sponsor ad effettuare determinate prestazioni pubblicitarie dietro versamento di un corrispettivo che può consistere in una somma di denaro, in beni o servizi, che lo sponsor deve erogare direttamente o indirettamente”.
L’Agenzia e la dottrina prevalente ritengono, correttamente, che le spese di sponsorizzazione debbano avere lo stesso trattamento di quelle di pubblicità, a condizione che il loro scopo sia quello di reclamizzare un prodotto commerciale oppure il nome o il marchio dell’impresa e che siano corrisposte a fronte di un obbligo sinallagmatico del soggetto beneficiario.
Orbene durante i controlli l’amministrazione finanziaria sempre più frequentemente contesta l’indeducibilità dei costi di sponsorizzazione. Ed infatti, le condizioni per la deducibilità delle spese per la sponsorizzazione del marchio aziendale continuano ad essere al centro di numerosi interventi della Cassazione in attesa che alle problematiche interpretative possa essere data una soluzione normativa.
Esaminiamo allora, qui di seguito alcune sentenze che possono risultare utili al contribuente nella sua difesa per portare in deduzione i costi in oggetto ai sensi dell’articolo 109, comma 5, del Decreto del Presidente della Repubblica 917/1986.
Ecco che, la Corte con la sentenza n. 25100 del 25 settembre 2014 ha affermato che l’impresa che intende dedurre i costi per la sponsorizzazione del proprio marchio deve dimostrare l’utilità per lo sviluppo dell’attività commerciale, l’idoneità a influenzare le scelte della clientela (anche potenziale), l’effettività delle prestazioni rese e la congruità della spesa sostenuta.
A tal proposito, cosi come chiarito dalla recente sentenza della Suprema Corte n. 3770 del 25 febbraio 2015, deve infatti ribadirsi che la pubblicità da tempo non svolge più un ruolo puramente informativo limitato alla notizia dell'esistenza di un prodotto già introdotto sul mercato, poiché lo sviluppo della produzione industriale di massa ha fatto assumere al messaggio pubblicitario la funzione di sensibilizzare preventivamente l'interesse dei consumatori verso beni o servizi ancora non offerti concretamente: un tal tipo di spesa deve perciò essere qualificata come inerente all'esercizio d'impresa anche quando sia sostenuta prima ancora che l'offerta del bene o del servizio pubblicizzato si sia in concreto realizzata (Cass. nn. 14350 del 1999, 6502 del 2000).
Ciò porta, a fortiori, a dover escludere che, nell'attuale mercato “globalizzato”, ai fini della sussistenza del requisito dell'inerenza delle spese di pubblicità debba sussistere un legame territoriale tra l'offerta pubblicitaria e l'area geografica in cui l'impresa svolge la propria attività.
Ciò vuol dire che così come puntualizzato dalla giurisprudenza di legittimità negli ultimi tempi, la deducibilità del costo non postula che esso sia stato sostenuto per realizzare una specifica componente attiva del reddito, ma è sufficiente che esso sia correlato in senso ampio all’impresa, ovvero che tale onere sia “stato sostenuto al fine di svolgere un’attività potenzialmente idonea a produrre utili”.
Questi i chiarimenti di due interessanti sentenze della Suprema Corte la n. 20054 e la n. 20055 del 24 settembre 2014, in linea con quanto stabilito, secondo orientamento (Cass. n. 6548/2012; Cass. n. 12168/2009, n. 16826/2007 e n. 7340/2008).
Peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha pure riconosciuto l’inerenza di costi derivanti da contratti stipulati a favore di un terzo, in quanto funzionalmente utili alla propria attività (Cass. n. 6548/2012, e n. 24065/2011). In tale sede, è stato altresì precisato che: “l’inerenza è una nozione pre-giuridica, di origine economica, legata all’idea del reddito come entità necessariamente calcolata al netto dei costi sostenuti per la propria produzione”. Sotto tale profilo, pertanto, “inerente” è tutto ciò che - sul piano dei costi e delle spese - appartiene alla sfera dell’impresa, in quanto sostenuto nell’intento di fornire a quest’ultima un’utilità, anche in modo indiretto. A contrario, non è invece inerente all’impresa tutto ciò che si può ricondurre alla sfera personale o familiare dell’imprenditore. (Cassazione civile , sez. tributaria, sentenza 12.02.2013 n° 3340).
Nella sentenza n. 6502 del 2000, la Suprema Corte di Cassazione ha detto a chiare lettere che “solo all'imprenditore spetta” il compito di “valutare” gli atti diretti a porre le premesse indispensabili per lo svolgimento o il rafforzamento di una data attività imprenditoriale: sicché i costi relativi a detti atti “non possono che ritenersi deducibili, in quanto inerenti all'attività d'impresa”.
Stando poi all’interpretazione dottrinale prevalente (ex multis G. Zizzo, I redditi d'impresa, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 1997, pag. 219.) della regola dell’inerenza, appartengono alla categoria delle spese inerenti “tutte le spese sostenute nell'interesse della realizzazione del programma economico dell'impresa” e che pertanto sono suscettibili “di arrecare una utilità all'attività produttiva dell'impresa, sia pur in via soltanto indiretta e mediata”.
In tal senso non si dimentichi infatti mai che la norma è, nei fatti concludenti e nella propria genesi, generalista; non potrebbe essere diversamente, in quanto è praticamente impossibile che il Legislatore riesca a prevedere la molteplicità di casistiche che le variegate realtà di impresa imporrebbero: proprio per questo, ad avviso di chi scrive, esiste un principio generale come quello dell'inerenza, con la finalità appunto di calare la norma generale nel particolare, ovviamente con l'onere della prova riversata sul contribuente, ben consapevole che, diversamente, proprio per evitare gli abusi (normalmente improvabili), sono in essere limitazioni parziali alla deducibilità o addirittura l'integrale indeducibilità.
È indubbio che l'obiettivo dell'Amministrazione è quello di massimizzare le condizioni di opinabilità interpretativa di quei contesti normativi laschi, come appunto l'inerenza dei costi.
Si ritiene, peraltro, che il concetto di inerenza è un principio di carattere generale in cui tocca al contribuente fornire elementi di chiarezza laddove le ultime decisioni giurisprudenziali di cui sopra hanno sicuramente dato un contributo ad una deducibilità dei costi a maglie più larghe.
La legislazione in materia di reddito d'impresa, così come è scritta, può prevedere quindi limitazioni, esclusioni parziali, condizioni particolari, certamente con lo spirito di evitare abusi, ma non può arrivare mai ad escludere aprioristicamente e totalmente la deduzione di un componente negativo di reddito, sostenuto nell'esercizio di un'attività imprenditoriale se regolarmente documentato e se sono rispettati i principi fondamentali della competenza, dell'oggettiva determinazione o presumibile determinabilità dell'onere, e quello di inerenza ancor più se dimostrata: perché questo non è scritto in nessuna norma, tanto meno nel Tuir.
Peraltro, sul punto recentissima anche la decisione della giurisprudenza di merito CTR Brescia 3421/15 del 20 luglio 2015 secondo cui non è ammissibile alcun sindacato da parte del Fisco sull’economicità e congruità dei costi sostenuti dall’impresa per pubblicità e/o sponsorizzazione di un’associazione sportiva dilettantistica. In sostanza, è illegittimo l’accertamento dell’antieconomicità di una sponsorizzazione, se è fondato solo sull’assenza di maggiori ricavi conseguiti in quell’anno. Quella riguardante la pubblicità è una scelta dell’imprenditore cui non può automaticamente conseguire l’indeducibilità del costo. Ciò significa, infatti, che non si può avere alcuna certezza sui maggiori ricavi conseguibili, tanto più che il riscontro sui risultati raggiunti è possibile solo a posteriori, quando cioè l’esercizio è già concluso. Va da sé, quindi, che anche un’errata valutazione dell’imprenditore sulla forma pubblicitaria scelta, non si può certo sanzionare con l’indeducibilità fiscale.
Ed ancora, per una buona difesa del contribuente oltre la citazione giurisprudenziale di cui sopra, si consiglia di conservare la documentazione quale ad esempio foto di eventi, di striscioni, di tabelloni ecc. che dimostrino le modalità di esecuzione della sponsorizzazione/pubblicità ovvero come è stato eseguito il contratto. Tale contratto, poi, deve contenere in modo accurato e preciso gli accordi, le prestazioni da eseguire, i tempi, le modalità e le tariffe. Utile alla congruità del costo è la verifica delle tariffe ordinariamente applicate sul mercato per ciascuna prestazione pubblicitaria. Infine è opportuno provare il concreto sostenimento del costo laddove è necessario un metodo di pagamento tracciabile ovvero assegni, ricevute bancarie, bonifici escludendo i contanti.
La sponsorizzazione è, come affermato nella risoluzione del 14 novembre 2002, n. 356/E, “un contratto bilaterale a prestazioni corrispettive, in base al quale il soggetto sponsorizzato o sponsee si obbliga nei confronti dello sponsor ad effettuare determinate prestazioni pubblicitarie dietro versamento di un corrispettivo che può consistere in una somma di denaro, in beni o servizi, che lo sponsor deve erogare direttamente o indirettamente”.
L’Agenzia e la dottrina prevalente ritengono, correttamente, che le spese di sponsorizzazione debbano avere lo stesso trattamento di quelle di pubblicità, a condizione che il loro scopo sia quello di reclamizzare un prodotto commerciale oppure il nome o il marchio dell’impresa e che siano corrisposte a fronte di un obbligo sinallagmatico del soggetto beneficiario.
Orbene durante i controlli l’amministrazione finanziaria sempre più frequentemente contesta l’indeducibilità dei costi di sponsorizzazione. Ed infatti, le condizioni per la deducibilità delle spese per la sponsorizzazione del marchio aziendale continuano ad essere al centro di numerosi interventi della Cassazione in attesa che alle problematiche interpretative possa essere data una soluzione normativa.
Esaminiamo allora, qui di seguito alcune sentenze che possono risultare utili al contribuente nella sua difesa per portare in deduzione i costi in oggetto ai sensi dell’articolo 109, comma 5, del Decreto del Presidente della Repubblica 917/1986.
Ecco che, la Corte con la sentenza n. 25100 del 25 settembre 2014 ha affermato che l’impresa che intende dedurre i costi per la sponsorizzazione del proprio marchio deve dimostrare l’utilità per lo sviluppo dell’attività commerciale, l’idoneità a influenzare le scelte della clientela (anche potenziale), l’effettività delle prestazioni rese e la congruità della spesa sostenuta.
A tal proposito, cosi come chiarito dalla recente sentenza della Suprema Corte n. 3770 del 25 febbraio 2015, deve infatti ribadirsi che la pubblicità da tempo non svolge più un ruolo puramente informativo limitato alla notizia dell'esistenza di un prodotto già introdotto sul mercato, poiché lo sviluppo della produzione industriale di massa ha fatto assumere al messaggio pubblicitario la funzione di sensibilizzare preventivamente l'interesse dei consumatori verso beni o servizi ancora non offerti concretamente: un tal tipo di spesa deve perciò essere qualificata come inerente all'esercizio d'impresa anche quando sia sostenuta prima ancora che l'offerta del bene o del servizio pubblicizzato si sia in concreto realizzata (Cass. nn. 14350 del 1999, 6502 del 2000).
Ciò porta, a fortiori, a dover escludere che, nell'attuale mercato “globalizzato”, ai fini della sussistenza del requisito dell'inerenza delle spese di pubblicità debba sussistere un legame territoriale tra l'offerta pubblicitaria e l'area geografica in cui l'impresa svolge la propria attività.
Ciò vuol dire che così come puntualizzato dalla giurisprudenza di legittimità negli ultimi tempi, la deducibilità del costo non postula che esso sia stato sostenuto per realizzare una specifica componente attiva del reddito, ma è sufficiente che esso sia correlato in senso ampio all’impresa, ovvero che tale onere sia “stato sostenuto al fine di svolgere un’attività potenzialmente idonea a produrre utili”.
Questi i chiarimenti di due interessanti sentenze della Suprema Corte la n. 20054 e la n. 20055 del 24 settembre 2014, in linea con quanto stabilito, secondo orientamento (Cass. n. 6548/2012; Cass. n. 12168/2009, n. 16826/2007 e n. 7340/2008).
Peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha pure riconosciuto l’inerenza di costi derivanti da contratti stipulati a favore di un terzo, in quanto funzionalmente utili alla propria attività (Cass. n. 6548/2012, e n. 24065/2011). In tale sede, è stato altresì precisato che: “l’inerenza è una nozione pre-giuridica, di origine economica, legata all’idea del reddito come entità necessariamente calcolata al netto dei costi sostenuti per la propria produzione”. Sotto tale profilo, pertanto, “inerente” è tutto ciò che - sul piano dei costi e delle spese - appartiene alla sfera dell’impresa, in quanto sostenuto nell’intento di fornire a quest’ultima un’utilità, anche in modo indiretto. A contrario, non è invece inerente all’impresa tutto ciò che si può ricondurre alla sfera personale o familiare dell’imprenditore. (Cassazione civile , sez. tributaria, sentenza 12.02.2013 n° 3340).
Nella sentenza n. 6502 del 2000, la Suprema Corte di Cassazione ha detto a chiare lettere che “solo all'imprenditore spetta” il compito di “valutare” gli atti diretti a porre le premesse indispensabili per lo svolgimento o il rafforzamento di una data attività imprenditoriale: sicché i costi relativi a detti atti “non possono che ritenersi deducibili, in quanto inerenti all'attività d'impresa”.
Stando poi all’interpretazione dottrinale prevalente (ex multis G. Zizzo, I redditi d'impresa, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 1997, pag. 219.) della regola dell’inerenza, appartengono alla categoria delle spese inerenti “tutte le spese sostenute nell'interesse della realizzazione del programma economico dell'impresa” e che pertanto sono suscettibili “di arrecare una utilità all'attività produttiva dell'impresa, sia pur in via soltanto indiretta e mediata”.
In tal senso non si dimentichi infatti mai che la norma è, nei fatti concludenti e nella propria genesi, generalista; non potrebbe essere diversamente, in quanto è praticamente impossibile che il Legislatore riesca a prevedere la molteplicità di casistiche che le variegate realtà di impresa imporrebbero: proprio per questo, ad avviso di chi scrive, esiste un principio generale come quello dell'inerenza, con la finalità appunto di calare la norma generale nel particolare, ovviamente con l'onere della prova riversata sul contribuente, ben consapevole che, diversamente, proprio per evitare gli abusi (normalmente improvabili), sono in essere limitazioni parziali alla deducibilità o addirittura l'integrale indeducibilità.
È indubbio che l'obiettivo dell'Amministrazione è quello di massimizzare le condizioni di opinabilità interpretativa di quei contesti normativi laschi, come appunto l'inerenza dei costi.
Si ritiene, peraltro, che il concetto di inerenza è un principio di carattere generale in cui tocca al contribuente fornire elementi di chiarezza laddove le ultime decisioni giurisprudenziali di cui sopra hanno sicuramente dato un contributo ad una deducibilità dei costi a maglie più larghe.
La legislazione in materia di reddito d'impresa, così come è scritta, può prevedere quindi limitazioni, esclusioni parziali, condizioni particolari, certamente con lo spirito di evitare abusi, ma non può arrivare mai ad escludere aprioristicamente e totalmente la deduzione di un componente negativo di reddito, sostenuto nell'esercizio di un'attività imprenditoriale se regolarmente documentato e se sono rispettati i principi fondamentali della competenza, dell'oggettiva determinazione o presumibile determinabilità dell'onere, e quello di inerenza ancor più se dimostrata: perché questo non è scritto in nessuna norma, tanto meno nel Tuir.
Peraltro, sul punto recentissima anche la decisione della giurisprudenza di merito CTR Brescia 3421/15 del 20 luglio 2015 secondo cui non è ammissibile alcun sindacato da parte del Fisco sull’economicità e congruità dei costi sostenuti dall’impresa per pubblicità e/o sponsorizzazione di un’associazione sportiva dilettantistica. In sostanza, è illegittimo l’accertamento dell’antieconomicità di una sponsorizzazione, se è fondato solo sull’assenza di maggiori ricavi conseguiti in quell’anno. Quella riguardante la pubblicità è una scelta dell’imprenditore cui non può automaticamente conseguire l’indeducibilità del costo. Ciò significa, infatti, che non si può avere alcuna certezza sui maggiori ricavi conseguibili, tanto più che il riscontro sui risultati raggiunti è possibile solo a posteriori, quando cioè l’esercizio è già concluso. Va da sé, quindi, che anche un’errata valutazione dell’imprenditore sulla forma pubblicitaria scelta, non si può certo sanzionare con l’indeducibilità fiscale.
Ed ancora, per una buona difesa del contribuente oltre la citazione giurisprudenziale di cui sopra, si consiglia di conservare la documentazione quale ad esempio foto di eventi, di striscioni, di tabelloni ecc. che dimostrino le modalità di esecuzione della sponsorizzazione/pubblicità ovvero come è stato eseguito il contratto. Tale contratto, poi, deve contenere in modo accurato e preciso gli accordi, le prestazioni da eseguire, i tempi, le modalità e le tariffe. Utile alla congruità del costo è la verifica delle tariffe ordinariamente applicate sul mercato per ciascuna prestazione pubblicitaria. Infine è opportuno provare il concreto sostenimento del costo laddove è necessario un metodo di pagamento tracciabile ovvero assegni, ricevute bancarie, bonifici escludendo i contanti.