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Tassazione di proventi derivanti da attività di prostituzione

Nota a Corte di Cassazione, Sentenza 1 ottobre 2010, n.20528
Si riapre il dibattito relativo alla tassazione di proventi derivanti da attività di prostituzione che, già in sede di approvazione della recente manovra estiva, aveva infiammato le aule del Parlamento per la presentazione di un emendamento in commissione Bilancio al Senato relativo all’adozione di «uno più decreti legislativi volti alla legalizzazione e alla tassazione della prostituzione» applicata «sulla base delle norme riguardanti le libere professioni».

Secondo quanto, infatti, stabilito dalla Suprema Corte con sentenza n. 20528 depositata lo scorso 1 ottobre, con riferimento all’attività di prostituzione “non vi è dubbio alcuno che anche tali proventi debbano essere sottoposti a tassazione, dal momento che, pur essendo una attività discutibile sul piano morale, non può essere certamente ritenuta illecita”.

Secondo l’orientamento della Cassazione fino ad oggi espresso, la provenienza illecita dei redditi derivanti da attività di prostituzione, assimilata all’assunzione di “obblighi di fare, non fare o promettere", non costituiva causa di neutralizzazione del relativo valore economico e, di conseguenza, non escludeva la tassabilità del reddito da essa derivante, essendo il reddito un dato economico e non giuridico.

Va ricordato, infatti, che secondo il dettato dell’art. 5 del codice civile, gli atti di disposizione del proprio corpo – tra i quali è riconducibile l’esercizio della prostituzione – sono vietati quando siano altrimenti contrari al buon costume.

Sotto il profilo fiscale, l’art. 14, comma 4, della L. 24 dicembre 1993, n. 537 prevede che i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo siano imponibili qualora compresi nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del TUIR, determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria.

Il successivo articolo 36, comma 34-bis del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con L. 4 agosto 2006, n. 248, intervenendo nuovamente sull’argomento, ha interpretato la citata disposizione “nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi".

Con la sentenza esaminata, la Suprema Corte ha fatto un ulteriore passo in avanti, superando la questione relativa alla liceità o meno della provenienza degli introiti da “meretricio” e individuando, invece, la ratio della tassazione di tali proventi nell’essere questi, al pari di qualsiasi altra tipologia reddituale, espressione di una attività economica dove, a fronte di una prestazione, si ha una controprestazione monetaria e, dunque, riconducendo il fondamento normativo di tale imposizione nell’articolo 53 della Costituzione, secondo il quale ciascuno è tenuto a contribuire alle spese pubbliche in base alla propria capacità contributiva.

Si riapre il dibattito relativo alla tassazione di proventi derivanti da attività di prostituzione che, già in sede di approvazione della recente manovra estiva, aveva infiammato le aule del Parlamento per la presentazione di un emendamento in commissione Bilancio al Senato relativo all’adozione di «uno più decreti legislativi volti alla legalizzazione e alla tassazione della prostituzione» applicata «sulla base delle norme riguardanti le libere professioni».

Secondo quanto, infatti, stabilito dalla Suprema Corte con sentenza n. 20528 depositata lo scorso 1 ottobre, con riferimento all’attività di prostituzione “non vi è dubbio alcuno che anche tali proventi debbano essere sottoposti a tassazione, dal momento che, pur essendo una attività discutibile sul piano morale, non può essere certamente ritenuta illecita”.

Secondo l’orientamento della Cassazione fino ad oggi espresso, la provenienza illecita dei redditi derivanti da attività di prostituzione, assimilata all’assunzione di “obblighi di fare, non fare o promettere", non costituiva causa di neutralizzazione del relativo valore economico e, di conseguenza, non escludeva la tassabilità del reddito da essa derivante, essendo il reddito un dato economico e non giuridico.

Va ricordato, infatti, che secondo il dettato dell’art. 5 del codice civile, gli atti di disposizione del proprio corpo – tra i quali è riconducibile l’esercizio della prostituzione – sono vietati quando siano altrimenti contrari al buon costume.

Sotto il profilo fiscale, l’art. 14, comma 4, della L. 24 dicembre 1993, n. 537 prevede che i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo siano imponibili qualora compresi nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del TUIR, determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria.

Il successivo articolo 36, comma 34-bis del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con L. 4 agosto 2006, n. 248, intervenendo nuovamente sull’argomento, ha interpretato la citata disposizione “nel senso che i proventi illeciti ivi indicati, qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi".

Con la sentenza esaminata, la Suprema Corte ha fatto un ulteriore passo in avanti, superando la questione relativa alla liceità o meno della provenienza degli introiti da “meretricio” e individuando, invece, la ratio della tassazione di tali proventi nell’essere questi, al pari di qualsiasi altra tipologia reddituale, espressione di una attività economica dove, a fronte di una prestazione, si ha una controprestazione monetaria e, dunque, riconducendo il fondamento normativo di tale imposizione nell’articolo 53 della Costituzione, secondo il quale ciascuno è tenuto a contribuire alle spese pubbliche in base alla propria capacità contributiva.