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Tortura: Santa Maria Capua a Vetere, Ferrara e San Gemignano

il percorso della tortura in Italia, partendo da Genova
tortura nelle carceri
tortura nelle carceri

Santa Maria Capua a Vetere non è un episodio isolato, ricordiamo quanto è accaduto nelle carceri di Ferrara e San Gemignano con le prime condanne per tortura nei confronti del personale penitenziario. Il reato di tortura è una norma concepita dopo una lunga e travagliata gestazione parlamentare e il suo testo è pieno di insidie applicative.

 

Il reato di tortura è stato introdotto nell'ordinamento italiano, recependo così le indicazioni contenute nella Convenzione di New York del 1984, con la legge 14 luglio 2017 n. 110, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.166 del 18 luglio 2017.

Tra il 19 e il 22 luglio del 2001 a Genova le forze dell’ordine in maniera sistematica operarono in disprezzo dei più elementari diritti democratici.

Il 7 aprile 2015 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato all'unanimità che è stato violato l'articolo 3 sul "divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradantidurante l'irruzione della scuola Diaz.

 Il 6 aprile 2017, di fronte alla stessa Corte, l'Italia ha raggiunto una risoluzione amichevole con sei dei sessantacinque ricorrenti per gli atti di tortura subiti presso la caserma di Bolzaneto, ammettendo la propria responsabilità.

Il tempo sembra essere trascorso inutilmente e in altre occasioni abbiamo assistito ad episodi simili con la sostanziale impunità di chi ha usato la divisa non per proteggere ma per prevaricare dei cittadini inermi.

Le immagini sempre più frequenti delle forze dell’ordine che usano la forza in maniera sproporzionata contro persone disarmate e che non costituiscono una minaccia concreta richiamano alla mente le vicende di paesi dittatoriali, dal Cile di Pinochet all’Argentina della giunta militare.

Nell’anno trascorso ci sono state le sentenze di merito per i casi di tortura avvenuti nelle carceri di Ferrara e San Geminiano.

In attesa che la Suprema Corte si pronunci sulla configurabilità del reato di tortura nei casi di Ferrara e San Gemignano, evidenziamo che la norma dell’art. 613 bis c.p. prevede:Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Se i fatti al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni. Il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti. Se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà. Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell’ergastolo”.

La lettura dell’articolo 613 bis codice penale lascia un senso di frastornamento, la norma risulta nebulosa, opaca e Tullio Padovani arriva a definirla: “ La Convenzione internazionale contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 10 dicembre 1984, entrata in vigore per l’Italia l’11 febbraio 1985, impone (art. 4) ad ogni Stato-parte di vigilare «affinché tutti gli atti di tortura vengano considerati quali trasgressione nei confronti del suo diritto penale» e di rendere «tali trasgressioni passibili di pene adeguate che tengano conto della loro gravità». Il nostro – si sa – è un paese ad alto tasso di ponderazione, lesto nel promettere e cauto nel mantenere, pronto all’impegno e riluttante all’adempimento: tanto riflessivo da risultare meditabondo. Più di ventott’anni son trascorsi, ed alla fine, il patrio legislatore, dopo un andirivieni mortificante tra legislature ed esami parlamentari, ha inteso rendere ossequio e prestare osservanza all’obbligo internazionale assunto prima ancora della caduta del muro di Berlino. Meglio tardi che mai, verrebbe fatto di dire; e così si direbbe in effetti, se ci si limitasse alla lettura della rubrica dell’art. 613 bis c.p. introdotto dall’art. 1, c.1, l. 14 luglio 2017, n. 110: un icastico «Tortura». Ma la lettura del testo induce ad un più desolato giudizio: meglio mai. Meglio il bollo della vergogna per lo sconcio inadempimento, che la vergogna di un adempimento apparente, ipocrita nella forma, dissennato nei contenuti, miserando nella finalità. La lista delle improntitudini è tanto lunga che ad esporla in tutti i punti col dovuto rigore serve un saggio, se non una monografia: le fattispecie ‘capovolte’ che sono, in qualche modo, il simmetrico contrario di principi, regole, norme su cui si erge il sistema, lo evocano, scuotendolo in ogni sua parte; sì che su di esse dovrebbe riversarsi la reazione del sistema tutto, così come, in presenza di una cellula cancerosa, si mobilita, per eliminare l’intrusa pericolosa, l’intero sistema immunitario: quando è efficiente, però; altrimenti è il cancro che si sviluppa”.

L’illustre studioso non le manda a dire il reato di tortura in Italia, così come è stata scitta la norma, è :” la vergogna di un adempimento apparente, ipocrita nella forma, dissennato nei contenuti, miserando nella finalità”.

Concludiamo il contributo, con un pensiero di Louis Brandeis (avvocato e giurista statunitense, componente della Corte Suprema):

“Se vogliamo che la legge venga rispettata, per prima cosa dobbiamo fare leggi rispettabili”.