Trust: famiglia di fatto e interessi meritevoli di tutela
Quando nei giorni scorsi meditavo sul come sviluppare questa relazione, un pensiero costante si affacciava nella mia mente: i trust interni devono essere sinceramente grati alla famiglia di fatto posto che il percorso che ha portato al riconoscimento del trust da parte dell’ordinamento giuridico italiano ha senza dubbio le sue fondamenta proprio nella famiglia di fatto.
Affermo questo perché quando facevamo i primi convegni sul trust nella seconda metà degli anni 90, la carta vincente per trasmettere un pensiero strategico in grado di catturare la curiosità di una platea fino a quel momento sbigottita, perplessa, laddove non manifestatamente smarrita, era fare l’esempio della famiglia di fatto.
Si diceva allora che proprio la famiglia di fatto, in tutte le svariate declinazione che la società ci consegna, non potendo ricorrere al fondo patrimoniale che presuppone l’esistenza di coniugi, ha quale unica soluzione per destinare il patrimonio ai componenti la famiglia, ricorrere al trust che nel concreto avrebbe perseguito i medesimi fini che perseguono i coniugi con il fondo patrimoniale.
Ciò portava ad un’immediata conclusione: evidenti profili di incostituzionalità sarebbero emersi laddove si fosse vietato alla famiglia di fatto, solo perché non unita in matrimonio, quello che viene consentito alla coppia coniugata.
Mi verrebbe da dire che l’esempio della famiglia di fatto è divenuto il caso di scuola che sta al trust come l’esempio dei naufraghi sulla scialuppa che per salvare le loro vite, sono costretti ad abbandonare quelli rimasti in mare, sta allo stato di necessità.
Tutto ciò per introdurre il primo importante requisito del trust interno al fine di conseguire certezza sulla sua validità: la residualità della scelta del trust che mai come oggi, dopo le note sentenze del Tribunale di Bologna 9 gennaio 2014, estensore Dottor Atzori, e di Trieste del 24 gennaio 2014, estensore Dottor Picciotto, è attuale.
Assodato questo presupposto, per altro perfettamente condivisibile, la prassi successiva ha preso due strade nell’ambito dei trust di famiglia.
La prima è stata quella di consentire alla famiglia legata dal vincolo matrimoniale di ricorrere al trust quando i limiti fisiologici del fondo patrimoniale avrebbero impedito di perseguire lo scopo che la coppia si prefiggeva, ossia creare un vincolo che potesse durare anche dopo il divorzio dei coniugi o la morte di uno fra questi (sapendo infatti che in tali casi il fondo patrimoniale cessa ex lege) sino a legittimarne l’impiego anche nei casi in cui, a prescindere dalla prospettazione di una durata che andasse oltre questi eventi, i coniugi manifestavano il desiderio di mettere in trust anche beni di specie diversa dalle ristrette categorie alle quali è limitato il fondo patrimoniale.
Ciò ha condotto a due apprezzabili risultati: la piena legittimità del trust per la coppia di fatto e la piena legittimità del trust anche per i coniugi che volessero perseguire un programma che presupponeva lo scavalcamento dei limiti del fondo patrimoniale.
Ecco allora il secondo ed altrettanto importante requisito dei trust interni: il programma, il cui significato, molto suggestivo per i trust interni, va ben oltre il concetto di causa del negozio giuridico che ci consegna il codice civile.
Il programma che si prefigge il disponente nel momento in cui istituisce il trust, comprende senza dubbio anche i motivi che sono alla base della volontà che esprime sicché non ho timore nel dire che proprio il trust interno ha anticipato quella lettura moderna della causa del negozio giuridico che ha portato la più recente cassazione a spostare l’asse di valutazione della causa del negozio, dall’originaria funzione economico sociale, alla più pregnante e soggettiva funzione economico individuale.
La funzione economica individuale del trust è pertanto da intendersi quale prospettazione di un programma, composto da un coacervio di motivazioni squisitamente personali del disponente, fra le quali ampio spazio trovano i veri e propri motivi personali che lo hanno indotto a ricorrere al trust.
Una concezione del programma intesa in termini così ampi ha permesso agevolmente di giungere ad impieghi del trust in casi ancora più arditi, ossia ad esempio per le persone sole che propriamente famiglia non sono, ma che in ragione di fatti personali delle loro vite, legittimamente possono avere le medesime esigenze di protezione e di autotutela che esprime la famiglia di fatto o la coppia unita in matrimonio.
I due concetti dunque partiti dalla famiglia di fatto: la residualità del trust e l’importanza del programma, che hanno dunque permesso di legittimare l’impiego dello strumento anche per i coniugi, hanno sempre ruotato intorno ad un unico perno che, ad onor del vero, la dottrina aveva sottolineato sin nei primi scritti risalenti al secolo scorso: la meritevolezza di tutela.
Per meglio dire: il trust deve essere portatore di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico italiano e ciò si evince caso per caso dalla struttura del programma enunciato dal disponente che altro non è che la funzione economica individuale di quello specifico negozio giuridico che deve risultare lecita ed apprezzabile da parte del giudice deputato al riconoscimento
Se questa conclusione possa spingersi sino al punto di ritenere che non sia più necessaria la residualità e sia invece solo sufficiente la bontà del programma enunciato non sta a me dirlo, certo è che un isolato tribunale ha sostenuto questa ardita tesi (Tribunale di Urbino 11 novembre 2011: rigetto un ricorso cautelare sostenendo che il trust è riconoscibile nel nostro ordinamento in forza della recessività del principio del numero chiuso dei diritti reali e sulla scorta delle altre ipotesi di segregazione patrimoniale conosciute al nostro ordinamento e della progressiva erosione del principio di cui all’articolo 2740, comma 2, del codice civile i trust interni sono espressione dell’autonomia negoziale stabilita dall’articolo 1322 del codice civile; in applicazione di tale principio, si può ricorrere al trust anche quando esiste uno strumento civilistico idoneo ad adempiere la stessa funzione. Quindi per valutarne la validità di un trust occorre fare riferimento alla causa per verificare se è diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela).
Ciò non di meno rimane indubbio il perdurare del criterio della residualità nella dottrina e giurisprudenza maggioritaria posto che, diversamente, parrebbe difficile giustificare il ricorso ad una legge straniera per disciplinare un rapporto tutto italiano.
Col che si può agevolmente concludere che se da un canto i coniugi non possono ricorrere al trust tutte le volte in cui potrebbero fare il fondo patrimoniale, per contro basta rinvenire nell’atto un semplice requisito che implichi il perseguimento di un fine che vada oltre i limiti del fondo patrimoniale, per legittimare la scelta del trust da parte del giudice italiano.
Emblematica è a riguardo la sentenza del Tribunale di Bologna 9 gennaio 2014 nella quale il giudice, ben consapevole del suo obbligo di conservazione del trust laddove possibile, stante il favor trust espresso dal comma 2 dell’articolo 15 della Convenzione, semplicemente perché lo specifico atto portato al suo vaglio aveva una durata fisiologicamente destinata ad andare oltre le normali aspettative di vita dei coniugi, ha rigettato la domanda di non riconoscibilità del trust per carenza di residualità, accogliendo la diversa domanda di non riconoscibilità per violazione dell’ultimo comma dell’articolo 2 della Convenzione.
Oggi quindi non si può dire che le opzioni di ricorrere al trust siano le medesime per la famiglia di fatto rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio posto che, mentre la prima può liberamente istituire un trust, la seconda rimane ancora tenuta ad enunciare un programma con presupposti che vadano oltre i limiti del fondo patrimoniale.
Si assiste pertanto alla rivincita, almeno in questo campo, della famiglia di fatto sulla coppia coniugata, in quanto la prima esce dal confronto collocata ad un livello superiore, posto che alcuno potrebbe eccepire l’illegittimità del trust istituito dalla famiglia di fatto che si presenti come un vero e proprio fondo patrimoniale, ossia limitato solo a certi beni e destinato a cessare alla separazione della coppia o alla morte di uno dei due.
Interessante sarà allora vedere se ciò potrà condurre sino ad un ribaltamento totale della situazione, ossia ritenere che presenti profili di incostituzionalità l’imposizione ai coniugi di istituire il fondo, a parità di condizioni rispetto al trust, semplicemente perché non è una famiglia di fatto.
Tralasciando tuttavia questa ilare conclusione, che poi per certi versi forse ilare non è affatto, vengo ad una finale conclusione in punto alla meritevolezza di tutela; per quanto mi riguarda, persino più importante di quanto sin qui detto.
Pensare che il ricorso al trust sia di per sé sempre meritevole di tutela solo perché istituito dai componenti la famiglia di fatto, oppure sol perché la coppia sposata ha enunciato un programma che vada oltre i limiti del fondo patrimoniale, sarebbe un grave errore.
La questione è del tutto diversa.
Viene infatti richiesto al trust di famiglia, affinché possa essere portatore di un interesse meritevole di tutela da parte del nostro ordinamento giuridico, a prescindere dallo stato civile dei suoi disponenti, di manifestatamente enunciare un programma che evidenzi un percorso volto ad assicurare ai beneficiari quelle garanzie, quelle tutele, il rispetto di quei diritti, che sono proprio del concetto di famiglia e meglio ancora di vera e propria solidarietà famigliare.
Non sarà dunque solo perché i disponenti sono una famiglia di fatto che questi potranno limitarsi ad enunciare un programma meramente segregativo dei beni per garantire che i creditori non li aggrediranno (già lo disse il Tribunale di Trieste nel lontano 2005) così come lo stesso non potranno fare i coniugi, solo perché hanno previsto che il trust cessi oltre la loro morte.
Occorrerà invece attentamente vagliare ed adattare la coerenza del programma enunciato con la causa famiglia e proprio l’esperienza maturata con il fondo patrimoniale qui rivelerà tutta la sua utilità. Se infatti è vero, com’è indubbiamente vero, che il fondo può venire ad esistenza se ed in quanto attraverso ad esso si soddisfano i bisogni della famiglia, con i noti effetti per quei creditori che hanno titoli di natura diversa, allo stesso modo il trust, sia esso della famiglia di fatto, sia quello istituito dalla coppia unita in matrimonio, dovrà enunciare un programma parimenti coerente.
E non solo: alla coerenza del programma tutto teso a soddisfare i bisogni della famiglia, dovrà accompagnarsi una gestione da parte del trustee perfettamente sintonica con questo scenario.
Un esempio potrà chiarire ciò che voglio dire: se sin dal programma viene enunciato un fine non sintonico con i bisogno della famiglia, classicamente la possibilità per il trustee di impiegare i beni in trust per finanziare illimitatamente, o comunque senza criterio, l’attività imprenditoriale del disponente, o di uno dei beneficiari, ciò farà senza dubbio emergere la stessa criticità che emergerebbe laddove il fondo patrimoniale avesse lo scopo di soddisfare i bisogni della famiglia e le ragioni dell’impresa di uno fra i suoi componenti.
Per contro, se invece il programma fosse apparentemente pienamente rispettoso della causa famiglia, e del concetto di solidarietà che si porta dietro, mai nei fatti il trustee risulterà aver impiegato i beni per sostenere o finanziare l’attività imprenditoriale di uno dei beneficiari, disinteressandosi di preservarne adeguata capienza anche per soddisfare i bisogni di vita degli altri beneficiari, ciò che è apparentemente meritevole di tutela, in concreto poi potrebbe risultare una pura simulazione.
Si può uscire da questa impasse, solo tenendo bene a mente il percorso tracciato dalla nostra giurisprudenza per la validità dei trust interni per i quali, ormai credo che possa risultare chiaro, alcuna discriminante può venire dall’essere una famiglia fondata sul matrimonio o sulla convivenza.
Ed in proposito il Tribunale di Bologna e di Trieste citati sono stati molto chiari, traendo unanimemente una conclusione su tutte: non tutto quello che la legge regolatrice consente, si potrà automaticamente fare con i trust interni i quali, prima di tutto, hanno il limite di conformità ai requisiti minimi della convenzione.
Utile in proposito possono essere alcuni casi pratici che si presentano nei trust di famiglia.
Molto spesso accade nella prassi che il disponente voglia istituire il trust per preservare i suoi beni a vantaggio dei figli, escludendo la madre con la quale può essere in forte lite.
In queste situazioni, messo al corrente di alcuni insindacabili diritti riconosciuti ai beneficiari dalle legge applicabili prescelte, segnatamente il diritto di informazione e il diritto di rendiconto e quanto al primo, soprattutto il diritto dei beneficiari di essere messi a conoscenza dell’esistenza del trust istituito in loro favore, immediata è l’opposizione del disponente che, quando ha figli minori, comprende subito come l’informazione e il rendiconto dovranno essere forniti anche all’altro genitore esercente la potestà parentale.
Ed ancora: altre volte accade che il disponente, venuto a conoscenza del diritto potestativo che il diritto dei trust riconosce ai beneficiari, se tutti d’accordo, di porre termine anticipatamente al trust in qualsiasi momento, si oppone dicendo che questo è proprio ciò che vuole evitare.
Una semplice soluzione sarebbe quella di ricorrere a quelle poche leggi del modello internazionale che ammettono la possibilità di fortemente limitare, laddove negare, il diritto di informazione dei beneficiari oppure non consentono la cessazione anticipata del trust da parte dell’unanimità dei beneficiari.
Circa il diritto di informazione, esiste già giurisprudenza italiana, fra le prime proprio una ordinanza del Dottor Fanticini che nel lontano 2007 scrisse che ai fini della futura decisione sulla validità del trust portato al suo vaglio, avrebbe dovuto appurarsi nel merito se il diritto di informazione fosse stato rispettato (e per altro essendo una ordinanza resa per un trust di garanzia, a maggior ragione potrà estendersi ai trust di famiglia)
Analogamente, negare ab initio il diritto di cessazione anticipata del trust, ricorrendo ad una di quelle leggi del modello internazionale che lo permettono, presta il fianco a mio parere ad una serie di criticità.
Considerato uno dei principi fondanti il nostro diritto privato in materia di negozi giuridici, ossia il potere per le parti tutte di costituire modificare ma anche estinguere un rapporto giuridico patrimoniale, non vedo come si possa, anche solo invocando l’applicazione analogica di questa norma, scongiurare l’effetto della cessazione anticipata per volontà congiunta, a meno che non si vogliano abbracciare tesi a mio parere del tutto infondate.
La soluzione a questi problemi non è dunque una scelta strategica della legge regolatrice, destinata invece a soccombere davanti al nostro diritto positivo, come è già avvenuto per l’articolo 9a della Legge di Jersey che, sebbene consenta al disponente il potere di riservarsi ogni diritto di intervento sul trust, già è stata censurata sotto questo aspetto dalla citata giurisprudenza di merito triestina e bolognese, quanto ideare una struttura di trust con clausole strategiche che rendendo questa eventualità penalizzante per i beneficiari, così da indurli a diverse decisioni.
Chiarita allora l’esatta portata del rapporto fra trust per la famiglia di fatto e per la coppia unita in matrimonio, non posso che concludere rappresentando come sia premiale ed efficace l’impiego del trust interni per tutto quell’ambito di persone e relazioni affettive che riguarda la famiglia non fondata sul matrimonio.
Non solo, da trust per la famiglia: celibi con figli, separati con famiglie allargate, coppie omosessuali, a trust per la persona del tutto senza famiglia, che può contare solo su sé stessa e che esprime l’esigenza assolutamente meritevole di potersi tutelare quando non dovesse essere più in grado di provvedere direttamente alla propria persona.
In questo ambito, straordinari e di grandi pregio gli esempi che la prassi ci ha portato: persone che disciplinano anzitempo cosa vorranno sia fatto in caso di loro sopravvenuta incapacità, in termini di assistenza, di cure, sino ad enunciare anche una sorta di testamento biologico, comprensivo persino della enunciazione delle cure alle quali non vorranno essere sottoposte.
Per finire con il grande tema del passaggio generazionale nell’impresa che ben può riguardare anche persone che compongono una famiglia di fatto o che comunque, anche qualora fosse una famiglia fondata sul matrimonio, troveranno in ogni caso nel trust uno strumento certamente più efficiente del patto di famiglia o altri simulacri di sorta.
Quando nei giorni scorsi meditavo sul come sviluppare questa relazione, un pensiero costante si affacciava nella mia mente: i trust interni devono essere sinceramente grati alla famiglia di fatto posto che il percorso che ha portato al riconoscimento del trust da parte dell’ordinamento giuridico italiano ha senza dubbio le sue fondamenta proprio nella famiglia di fatto.
Affermo questo perché quando facevamo i primi convegni sul trust nella seconda metà degli anni 90, la carta vincente per trasmettere un pensiero strategico in grado di catturare la curiosità di una platea fino a quel momento sbigottita, perplessa, laddove non manifestatamente smarrita, era fare l’esempio della famiglia di fatto.
Si diceva allora che proprio la famiglia di fatto, in tutte le svariate declinazione che la società ci consegna, non potendo ricorrere al fondo patrimoniale che presuppone l’esistenza di coniugi, ha quale unica soluzione per destinare il patrimonio ai componenti la famiglia, ricorrere al trust che nel concreto avrebbe perseguito i medesimi fini che perseguono i coniugi con il fondo patrimoniale.
Ciò portava ad un’immediata conclusione: evidenti profili di incostituzionalità sarebbero emersi laddove si fosse vietato alla famiglia di fatto, solo perché non unita in matrimonio, quello che viene consentito alla coppia coniugata.
Mi verrebbe da dire che l’esempio della famiglia di fatto è divenuto il caso di scuola che sta al trust come l’esempio dei naufraghi sulla scialuppa che per salvare le loro vite, sono costretti ad abbandonare quelli rimasti in mare, sta allo stato di necessità.
Tutto ciò per introdurre il primo importante requisito del trust interno al fine di conseguire certezza sulla sua validità: la residualità della scelta del trust che mai come oggi, dopo le note sentenze del Tribunale di Bologna 9 gennaio 2014, estensore Dottor Atzori, e di Trieste del 24 gennaio 2014, estensore Dottor Picciotto, è attuale.
Assodato questo presupposto, per altro perfettamente condivisibile, la prassi successiva ha preso due strade nell’ambito dei trust di famiglia.
La prima è stata quella di consentire alla famiglia legata dal vincolo matrimoniale di ricorrere al trust quando i limiti fisiologici del fondo patrimoniale avrebbero impedito di perseguire lo scopo che la coppia si prefiggeva, ossia creare un vincolo che potesse durare anche dopo il divorzio dei coniugi o la morte di uno fra questi (sapendo infatti che in tali casi il fondo patrimoniale cessa ex lege) sino a legittimarne l’impiego anche nei casi in cui, a prescindere dalla prospettazione di una durata che andasse oltre questi eventi, i coniugi manifestavano il desiderio di mettere in trust anche beni di specie diversa dalle ristrette categorie alle quali è limitato il fondo patrimoniale.
Ciò ha condotto a due apprezzabili risultati: la piena legittimità del trust per la coppia di fatto e la piena legittimità del trust anche per i coniugi che volessero perseguire un programma che presupponeva lo scavalcamento dei limiti del fondo patrimoniale.
Ecco allora il secondo ed altrettanto importante requisito dei trust interni: il programma, il cui significato, molto suggestivo per i trust interni, va ben oltre il concetto di causa del negozio giuridico che ci consegna il codice civile.
Il programma che si prefigge il disponente nel momento in cui istituisce il trust, comprende senza dubbio anche i motivi che sono alla base della volontà che esprime sicché non ho timore nel dire che proprio il trust interno ha anticipato quella lettura moderna della causa del negozio giuridico che ha portato la più recente cassazione a spostare l’asse di valutazione della causa del negozio, dall’originaria funzione economico sociale, alla più pregnante e soggettiva funzione economico individuale.
La funzione economica individuale del trust è pertanto da intendersi quale prospettazione di un programma, composto da un coacervio di motivazioni squisitamente personali del disponente, fra le quali ampio spazio trovano i veri e propri motivi personali che lo hanno indotto a ricorrere al trust.
Una concezione del programma intesa in termini così ampi ha permesso agevolmente di giungere ad impieghi del trust in casi ancora più arditi, ossia ad esempio per le persone sole che propriamente famiglia non sono, ma che in ragione di fatti personali delle loro vite, legittimamente possono avere le medesime esigenze di protezione e di autotutela che esprime la famiglia di fatto o la coppia unita in matrimonio.
I due concetti dunque partiti dalla famiglia di fatto: la residualità del trust e l’importanza del programma, che hanno dunque permesso di legittimare l’impiego dello strumento anche per i coniugi, hanno sempre ruotato intorno ad un unico perno che, ad onor del vero, la dottrina aveva sottolineato sin nei primi scritti risalenti al secolo scorso: la meritevolezza di tutela.
Per meglio dire: il trust deve essere portatore di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico italiano e ciò si evince caso per caso dalla struttura del programma enunciato dal disponente che altro non è che la funzione economica individuale di quello specifico negozio giuridico che deve risultare lecita ed apprezzabile da parte del giudice deputato al riconoscimento
Se questa conclusione possa spingersi sino al punto di ritenere che non sia più necessaria la residualità e sia invece solo sufficiente la bontà del programma enunciato non sta a me dirlo, certo è che un isolato tribunale ha sostenuto questa ardita tesi (Tribunale di Urbino 11 novembre 2011: rigetto un ricorso cautelare sostenendo che il trust è riconoscibile nel nostro ordinamento in forza della recessività del principio del numero chiuso dei diritti reali e sulla scorta delle altre ipotesi di segregazione patrimoniale conosciute al nostro ordinamento e della progressiva erosione del principio di cui all’articolo 2740, comma 2, del codice civile i trust interni sono espressione dell’autonomia negoziale stabilita dall’articolo 1322 del codice civile; in applicazione di tale principio, si può ricorrere al trust anche quando esiste uno strumento civilistico idoneo ad adempiere la stessa funzione. Quindi per valutarne la validità di un trust occorre fare riferimento alla causa per verificare se è diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela).
Ciò non di meno rimane indubbio il perdurare del criterio della residualità nella dottrina e giurisprudenza maggioritaria posto che, diversamente, parrebbe difficile giustificare il ricorso ad una legge straniera per disciplinare un rapporto tutto italiano.
Col che si può agevolmente concludere che se da un canto i coniugi non possono ricorrere al trust tutte le volte in cui potrebbero fare il fondo patrimoniale, per contro basta rinvenire nell’atto un semplice requisito che implichi il perseguimento di un fine che vada oltre i limiti del fondo patrimoniale, per legittimare la scelta del trust da parte del giudice italiano.
Emblematica è a riguardo la sentenza del Tribunale di Bologna 9 gennaio 2014 nella quale il giudice, ben consapevole del suo obbligo di conservazione del trust laddove possibile, stante il favor trust espresso dal comma 2 dell’articolo 15 della Convenzione, semplicemente perché lo specifico atto portato al suo vaglio aveva una durata fisiologicamente destinata ad andare oltre le normali aspettative di vita dei coniugi, ha rigettato la domanda di non riconoscibilità del trust per carenza di residualità, accogliendo la diversa domanda di non riconoscibilità per violazione dell’ultimo comma dell’articolo 2 della Convenzione.
Oggi quindi non si può dire che le opzioni di ricorrere al trust siano le medesime per la famiglia di fatto rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio posto che, mentre la prima può liberamente istituire un trust, la seconda rimane ancora tenuta ad enunciare un programma con presupposti che vadano oltre i limiti del fondo patrimoniale.
Si assiste pertanto alla rivincita, almeno in questo campo, della famiglia di fatto sulla coppia coniugata, in quanto la prima esce dal confronto collocata ad un livello superiore, posto che alcuno potrebbe eccepire l’illegittimità del trust istituito dalla famiglia di fatto che si presenti come un vero e proprio fondo patrimoniale, ossia limitato solo a certi beni e destinato a cessare alla separazione della coppia o alla morte di uno dei due.
Interessante sarà allora vedere se ciò potrà condurre sino ad un ribaltamento totale della situazione, ossia ritenere che presenti profili di incostituzionalità l’imposizione ai coniugi di istituire il fondo, a parità di condizioni rispetto al trust, semplicemente perché non è una famiglia di fatto.
Tralasciando tuttavia questa ilare conclusione, che poi per certi versi forse ilare non è affatto, vengo ad una finale conclusione in punto alla meritevolezza di tutela; per quanto mi riguarda, persino più importante di quanto sin qui detto.
Pensare che il ricorso al trust sia di per sé sempre meritevole di tutela solo perché istituito dai componenti la famiglia di fatto, oppure sol perché la coppia sposata ha enunciato un programma che vada oltre i limiti del fondo patrimoniale, sarebbe un grave errore.
La questione è del tutto diversa.
Viene infatti richiesto al trust di famiglia, affinché possa essere portatore di un interesse meritevole di tutela da parte del nostro ordinamento giuridico, a prescindere dallo stato civile dei suoi disponenti, di manifestatamente enunciare un programma che evidenzi un percorso volto ad assicurare ai beneficiari quelle garanzie, quelle tutele, il rispetto di quei diritti, che sono proprio del concetto di famiglia e meglio ancora di vera e propria solidarietà famigliare.
Non sarà dunque solo perché i disponenti sono una famiglia di fatto che questi potranno limitarsi ad enunciare un programma meramente segregativo dei beni per garantire che i creditori non li aggrediranno (già lo disse il Tribunale di Trieste nel lontano 2005) così come lo stesso non potranno fare i coniugi, solo perché hanno previsto che il trust cessi oltre la loro morte.
Occorrerà invece attentamente vagliare ed adattare la coerenza del programma enunciato con la causa famiglia e proprio l’esperienza maturata con il fondo patrimoniale qui rivelerà tutta la sua utilità. Se infatti è vero, com’è indubbiamente vero, che il fondo può venire ad esistenza se ed in quanto attraverso ad esso si soddisfano i bisogni della famiglia, con i noti effetti per quei creditori che hanno titoli di natura diversa, allo stesso modo il trust, sia esso della famiglia di fatto, sia quello istituito dalla coppia unita in matrimonio, dovrà enunciare un programma parimenti coerente.
E non solo: alla coerenza del programma tutto teso a soddisfare i bisogni della famiglia, dovrà accompagnarsi una gestione da parte del trustee perfettamente sintonica con questo scenario.
Un esempio potrà chiarire ciò che voglio dire: se sin dal programma viene enunciato un fine non sintonico con i bisogno della famiglia, classicamente la possibilità per il trustee di impiegare i beni in trust per finanziare illimitatamente, o comunque senza criterio, l’attività imprenditoriale del disponente, o di uno dei beneficiari, ciò farà senza dubbio emergere la stessa criticità che emergerebbe laddove il fondo patrimoniale avesse lo scopo di soddisfare i bisogni della famiglia e le ragioni dell’impresa di uno fra i suoi componenti.
Per contro, se invece il programma fosse apparentemente pienamente rispettoso della causa famiglia, e del concetto di solidarietà che si porta dietro, mai nei fatti il trustee risulterà aver impiegato i beni per sostenere o finanziare l’attività imprenditoriale di uno dei beneficiari, disinteressandosi di preservarne adeguata capienza anche per soddisfare i bisogni di vita degli altri beneficiari, ciò che è apparentemente meritevole di tutela, in concreto poi potrebbe risultare una pura simulazione.
Si può uscire da questa impasse, solo tenendo bene a mente il percorso tracciato dalla nostra giurisprudenza per la validità dei trust interni per i quali, ormai credo che possa risultare chiaro, alcuna discriminante può venire dall’essere una famiglia fondata sul matrimonio o sulla convivenza.
Ed in proposito il Tribunale di Bologna e di Trieste citati sono stati molto chiari, traendo unanimemente una conclusione su tutte: non tutto quello che la legge regolatrice consente, si potrà automaticamente fare con i trust interni i quali, prima di tutto, hanno il limite di conformità ai requisiti minimi della convenzione.
Utile in proposito possono essere alcuni casi pratici che si presentano nei trust di famiglia.
Molto spesso accade nella prassi che il disponente voglia istituire il trust per preservare i suoi beni a vantaggio dei figli, escludendo la madre con la quale può essere in forte lite.
In queste situazioni, messo al corrente di alcuni insindacabili diritti riconosciuti ai beneficiari dalle legge applicabili prescelte, segnatamente il diritto di informazione e il diritto di rendiconto e quanto al primo, soprattutto il diritto dei beneficiari di essere messi a conoscenza dell’esistenza del trust istituito in loro favore, immediata è l’opposizione del disponente che, quando ha figli minori, comprende subito come l’informazione e il rendiconto dovranno essere forniti anche all’altro genitore esercente la potestà parentale.
Ed ancora: altre volte accade che il disponente, venuto a conoscenza del diritto potestativo che il diritto dei trust riconosce ai beneficiari, se tutti d’accordo, di porre termine anticipatamente al trust in qualsiasi momento, si oppone dicendo che questo è proprio ciò che vuole evitare.
Una semplice soluzione sarebbe quella di ricorrere a quelle poche leggi del modello internazionale che ammettono la possibilità di fortemente limitare, laddove negare, il diritto di informazione dei beneficiari oppure non consentono la cessazione anticipata del trust da parte dell’unanimità dei beneficiari.
Circa il diritto di informazione, esiste già giurisprudenza italiana, fra le prime proprio una ordinanza del Dottor Fanticini che nel lontano 2007 scrisse che ai fini della futura decisione sulla validità del trust portato al suo vaglio, avrebbe dovuto appurarsi nel merito se il diritto di informazione fosse stato rispettato (e per altro essendo una ordinanza resa per un trust di garanzia, a maggior ragione potrà estendersi ai trust di famiglia)
Analogamente, negare ab initio il diritto di cessazione anticipata del trust, ricorrendo ad una di quelle leggi del modello internazionale che lo permettono, presta il fianco a mio parere ad una serie di criticità.
Considerato uno dei principi fondanti il nostro diritto privato in materia di negozi giuridici, ossia il potere per le parti tutte di costituire modificare ma anche estinguere un rapporto giuridico patrimoniale, non vedo come si possa, anche solo invocando l’applicazione analogica di questa norma, scongiurare l’effetto della cessazione anticipata per volontà congiunta, a meno che non si vogliano abbracciare tesi a mio parere del tutto infondate.
La soluzione a questi problemi non è dunque una scelta strategica della legge regolatrice, destinata invece a soccombere davanti al nostro diritto positivo, come è già avvenuto per l’articolo 9a della Legge di Jersey che, sebbene consenta al disponente il potere di riservarsi ogni diritto di intervento sul trust, già è stata censurata sotto questo aspetto dalla citata giurisprudenza di merito triestina e bolognese, quanto ideare una struttura di trust con clausole strategiche che rendendo questa eventualità penalizzante per i beneficiari, così da indurli a diverse decisioni.
Chiarita allora l’esatta portata del rapporto fra trust per la famiglia di fatto e per la coppia unita in matrimonio, non posso che concludere rappresentando come sia premiale ed efficace l’impiego del trust interni per tutto quell’ambito di persone e relazioni affettive che riguarda la famiglia non fondata sul matrimonio.
Non solo, da trust per la famiglia: celibi con figli, separati con famiglie allargate, coppie omosessuali, a trust per la persona del tutto senza famiglia, che può contare solo su sé stessa e che esprime l’esigenza assolutamente meritevole di potersi tutelare quando non dovesse essere più in grado di provvedere direttamente alla propria persona.
In questo ambito, straordinari e di grandi pregio gli esempi che la prassi ci ha portato: persone che disciplinano anzitempo cosa vorranno sia fatto in caso di loro sopravvenuta incapacità, in termini di assistenza, di cure, sino ad enunciare anche una sorta di testamento biologico, comprensivo persino della enunciazione delle cure alle quali non vorranno essere sottoposte.
Per finire con il grande tema del passaggio generazionale nell’impresa che ben può riguardare anche persone che compongono una famiglia di fatto o che comunque, anche qualora fosse una famiglia fondata sul matrimonio, troveranno in ogni caso nel trust uno strumento certamente più efficiente del patto di famiglia o altri simulacri di sorta.