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Trust: una sentenza che offre molti spunti di riflessione

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La recente sentenza del Tribunale di Monza (13 maggio n. 1425/2015) sollecita alcune considerazioni. La sentenza, intanto, conferma il nuovo principio emerso nelle ormai note ordinanze della Sezione tributaria della Cassazione che, sulla base di una, a mio parere errata lettura dell’articolo 2 della Convenzione, non riconoscono il trust autodichiarato come trust rientrante nell’ambito previsionale della Convenzione stessa.

In realtà la sentenza, sembra di poter affermare, giunge a conclusioni condivisibili, nel caso di specie, partendo, se ci è consentito, da un presupposto errato.

È condivisibile quando afferma che

il trust esaminato è nullo (sham) perché “il programma di segregazione corrisponde allo schema astrattamente previsto dalla Convenzione laddove il programma concreto non può che risultare sulla base del singolo regolamento di interessi attuato che individua la causa concreta del negozio”

e risulta invece che il disponente trustee non aveva alcun vincolo o obbligo di giustificare i propri poteri ed era quindi svincolato da qualsiasi forma di controllo da parte dei beneficiari.

Non disponendo dell’atto di trust non possiamo compiutamente valutare la fondatezza delle affermazioni del giudice, ma i riferimenti operati in sentenza, sul punto, non sembrano equivoci circa il fatto che, nel caso di specie, mancasse del tutto la volontà di dar vita a un trust. La mancanza della prima delle tre “certezze” che si richiedono per avere un trust è quindi dirimente. Vorrei solo aggiungere che la mancanza di certezza si verifica non solo quando è incerto se il disponente voglia istituire effettivamente un trust, o conseguire altri scopi, ma anche quando si attua una dissociazione fra ciò che il disponente dichiara di volere (e in questo senso egli avrebbe certamente voluto dar vita a un trust proprio per realizzare quell’effetto segregativo relativamente ai beni apportati che gli avrebbe consentito di mettere gli stessi al riparo dai propri creditori) e il programma del trust, che si evidenzia nelle finalità che il trust dichiara di voler perseguire, e che contrasta, in questo come in molti altri casi, con la volontà di aver voluto attuare un affidamento fiduciario di propri beni nell’interesse dei beneficiari, in che si sostanzia l’essenza del trust.

È invece la ricostruzione civilistica dell’istituto per come operata nella sentenza che ci sembra di non poter condividere.

Si legge: "si consideri che il trust si sostanzia nell’affidamento a un terzo di determinati beni perché questi li amministri e li gestisca quale proprietario (nel senso di titolare dei diritti ceduti) per poi restituirli, alla fine del periodo di durata del trust , ai soggetti indicati dal disponente”.

Apparentemente l’affermazione è corretta, solo che

il trust si sostanzia nell’affidamento di determinati beni a un trustee e non “a un terzo”, come erroneamente affermato, e anche se in prosieguo, nella sentenza, il riferimento viene operato correttamente al trustee.

(Articolo 2 della Convenzione) E non è differenza da poco atteso che il trustee ben può essere lo stesso disponente. 

La convenzione dell’Aja non disciplina i trust, ma stabilisce le condizioni alle quali un trust straniero deve essere riconosciuto e determina gli effetti del riconoscimento stabilendo appunto (art.11) che “un trust istituito in conformità alla legge determinata in base al capitolo precedente sarà riconosciuto come trust”.

Ora la legge determinata in base al capitolo precedente è la legge straniera del paese che conosce il trust e questa legge - quella di Jersey, nel caso di specie - riconosce e ammette il trust autodichiarato, anzi, questa forma di istituzione di un trust è quella più ricorrente in materia di trust liberali, come del resto è normale che sia perché attraverso il trust un soggetto anticipa la trasmissione del proprio patrimonio.

Non si vede pertanto come si possa disconoscere un trust, o meglio una modalità istitutiva assolutamente conforme alla legge straniera sulla base, peraltro, di una lettura del testo della Convenzione non conforme a quello originale.

È ben vero, come si legge nella sentenza, che la legge straniera richiamata può produrre i suoi effetti nell’ordinamento solo e nei limiti in cui non contrasti con le clausole di salvaguardia contenute nella Convenzione agli artt. 13, 15,16 e 18, ma queste disposizioni riguardano le norme inderogabili, le norme di applicazione necessaria e quelle relative all’ordine pubblico. Nessuna di queste riguarda, sia pure indirettamente, la possibilità di dar vita a un trust autodichiarato.

Essendo errato il presupposto, gli errori continuano.

E infatti “siccome presupposto insito nella stessa natura dell’istituto è che il disponente perda la disponibilità di quanto abbia conferito, tale condizione va ritenuta imprescindibile con la conseguenza che , nel caso di perdita del controllo dei beni da parte del disponente [la perdita ndr]si riveli solo apparente, il trust è nullo e come tale non produce l’effetto segregativo tipico”. Questo assunto è incontrovertibile, ma l’errore sta nel fatto che la Corte ritiene che la perdita del controllo non ci sia perché disponente e trustee coincidono. Cosa questa non vera proprio perché tale corretta conclusione non è in re ipsa (cioè nelle identità soggettiva fra disponente e trustee) ma deriva dalla concreta configurazione dell’atto, dalle sue clausole, nonché dalla  verifica, sempre in concreto, dei poteri che il disponente da un lato si riserva e dall’altro attribuisce al trustee sia che queste due figure si identifichino, sia che si tratti di due soggetti diversi. Guardiamo infatti cosa dice la giurisprudenza in materia:

  • Può essere dichiarato sham e quindi nullo l’atto o il documento che le parti abbiano posto in essere  con il comune intento di ingenerare in altri il convincimento che esse desiderassero creare un particolare diritto o obbligo, intendendo, in realtà, farne sorgere uno differente. (Court of Appeal – Lord Denning , Diplock, Russell, 16 gennaio  1967);
  • Affinché un trust sia sham non è necessaria un’intesa fra disponente e trustee, ma è sufficiente che il disponente non avesse la minima intenzione di seguire le norme sui trust  e che nel corso del rapporto , il trustee sia stato acquiescente nei suoi confronti. (High Court of Justice, Minwalla v Minwalla, 3 dicembre 2004).
  • L’intenzione comune delle parti di creare nei terzi una falsa impressione è elemento costitutivo dello sham. (Court of Appel , Sir de Vic  Carey ,19 maggio 2005).

Queste sentenze, riferibili al Regno Unito e a Jersey evidenziano lievi differenze fra i due ordinamenti, ma la sostanza non muta. Infatti, per impugnare un trust perché sham, a Jersey  si richiede:

a)intenzione simulatoria

b)che entrambi (disponente e trustee )abbiano avuto l’intenzione di ingannare i terzi

mentre, nel Regno Unito,:

a)non è necessaria la prova di una simile finalità e,

b) quanto alla common intention

1. è necessario dar la prova di un’intesa simulatoria;

2. è sufficiente che il trustee, a conoscenza delle intenzioni del disponente non abbia fatto nulla per contrastarle;

3. se invece il disponente si riserva, nell’atto istitutivo troppi poteri, si dà vita a un trust nudo a favore del disponente.

Ma, per fare un passo indietro, illuminante risulta la seguente sentenza da cui emerge come è dalla verifica della situazione di fatto, e non solo quindi dalla astratta previsione del testo, che deriva la possibilità di dichiarare sham un trust:  

Esercitato correttamente il potere di resettlement da parte del trustee, il trust così venuto a esistenza non può essere considerato sham …qualora il trustee si sia comportato in maniera indipendente e abbia correttamente esercitato i propri poteri (High Court of Justice, Shalson v Russo-Mimram, 11 luglio 2003).

E pertanto, alla luce di quando siamo venuti dicendo, si comprende come il fatto che il disponente ritenga alcuni poteri non è di per sé incompatibile con l’esistenza del trust, neppure se il disponente coincide col trustee. Si tratta solo di vedere se, a fronte di questi, il trustee, che è titolare di poteri fiduciari verso i beneficiari, si sia comportato in maniera indipendente , e abbia correttamente esercitato i suoi poteri.

Si comprende quindi come una lettura della massima (donner et rétenir ne vaut)  possa risultare fuorviante se ci si limita semplicemente a rilevare che nel trust autodichiarato siccome il disponente, da un lato darebbe, e dall’altro tratterebbe, il trust non può che essere nullo.

La sentenza sembra non tener conto delle conclusioni di un risalente dibattito, emerso quando in dottrina si negava, da un lato, cittadinanza ai trust sulla base del disposto dell’articolo 2740 del codice civile assumendo che un soggetto poteva  essere titolare di un solo patrimonio non essendo quindi possibile concepire la titolarità di più patrimoni distinti in capo alla stessa persona.

Il dibattito dottrinario è stato risolto in senso favorevole alla possibilità che un soggetto possa risultare titolare di più patrimoni avendo rilevato come il principio ricavato dalla norma in esame non costituiva un principio inderogabile o attinente all’ordine pubblico, e come tale poteva essere derogato da altra fonte normativa di pari grado, fonte che nel caso di specie è stato riconosciuto essere rappresentata dalla Convenzione attraverso il rinvio alla legge straniera che ammette questa possibilità. Non si può trascurare del resto il fatto che sono già presenti, all’interno dell’ordinamento situazioni in cui si realizza questa situazione. Si pensi alle garanzie finanziarie, o all’ipotesi dei patrimoni destinati a uno specifico affare (articolo 2447 bis del codice civile). Di qui l’ulteriore passaggio è breve, se un soggetto può esser titolare di più patrimoni, questa affermazione  comprende anche il caso di chi voglia separare parte del proprio patrimonio autonominandosi appunto trustee di tale parte pur riservandosi taluni poteri.

La sentenza contiene altre due affermazioni, ad avviso di chi scrive, ugualmente censurabili.

“La meritevolezza degli interessi cui fa riferimento l’articolo 2645 ter del codice civile va identificata nell’idoneità del programma negoziale al raggiungimento di uno scopo lecito che non sia altrimenti raggiungibile dalle parti nell’espletamento della loro autonomia negoziale  mediante l’utilizzo di strumenti tipici ancorché composti o collegati”.

La Corte afferma in tal modo la funzione residuale del trust assumendo quindi che a tale strumento si possa ricorrere solo quando lo scopo desiderato non sia altrimenti raggiungibile dalle parti con gli strumenti che l’ordinamento mette loro a disposizione.

Tale assunto, oltre a non essere pacificamente condiviso in dottrina - non trova infatti  alcun appiglio normativo su cui basarsi - era già stato messo in discussione in alcune isolate pronunce di merito ed è stato ora definitivamente giubilato dalla Suprema Corte nella Sentenza 10105/14, del 9 maggio 2014, in tema di trust liquidatorio quando ha affermato che si può ricorrere al trust liberamente senza aver preventivamente verificato la mancanza, nell’ordinamento, di strumenti che siano tali da far conseguire lo stesso o analogo risultato.

La seconda attiene alla legge di Jersey. Dice il Tribunale: “ne consegue che qualsiasi trust interno, anche se retto da leggi che come quella di Jersey abbiano di fatto superata la regola “donner et rétenir ne vaut” rimangono soggetti alla sancita [invalidità tratta? ndr] dalla citata norma della Convenzione e non sono riconoscibili”. E in precedenza: “né vale obiettare che l’atto istitutivo del trust… richiama l’applicazione della legge straniera della Trust Jersey Law del 1984 (e successive modifiche) che attribuisce poteri indiscriminati al disponente (articolo 9a) perché ecc…”

A fronte di tali affermazioni sorge spontaneo chiedersi se quindi se tutti i trust regolati dalla legge di Jersey corrano il rischio di non poter essere riconosciuti. Problema non di poco conto quando si consideri che circa il 70% dei trust interni è regolato da questa legge. L’equivoco in questo caso nasce da un’errata lettura della legge. L’articolo 9a è stato introdotto con la riforma del 2006 e si inserisce nel solco di quelle disposizioni che, nell’ottica di rendere meno “doloroso” il distacco del disponente dai propri beni, gli consentono, sulla scia di quanto ampiamente praticato dalle legislazioni dei paesi del modello internazionale, la possibilità di riservarsi una serie di poteri peraltro assai incisivi. Due considerazioni al riguardo: la prima è che si tratta di una norma che opera solo in quanto richiamata. Quindi se nell’atto il disponente non si riserva tutti o parte di quei poteri la disposizione non opera. In secondo luogo ricordo che fin dal suo apparire, la disposizione in parola è stata fortemente censurata dalla dottrina interna che ha concluso rilevando come un trust in cui il disponente volesse riservarsi i poteri che la legge di Jersey gli consente di riservarsi, sarebbe perfettamente legittimo, ma si porrebbe al di fuori della Convenzione dell’Aja - con la conseguenza per cui non si potrebbero produrre quegli effetti che la Convenzione indica, in primis l’effetto segregativo - proprio perché quel trust non rientrerebbe nella previsione dell’articolo 2 di questa perché il trustee non potrebbe avere il controllo di quei beni così come espressamente richiesto, dato che i poteri stessi resterebbero in capo al disponente.