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Un Pronto Soccorso

India
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Motivi di prudenza consigliano di passare le festività a casa, in semplicità. Apro il mio diario ad una pagina qualsiasi.

<“Presto, due flebo, presto!!! Non c’è più il battito, presto, presto!!!”. Ho ancora nelle orecchie le grida del medico di guardia. Mi sembra un incubo, ma è realtà, la nostra realtà.

Solo pochi giorni orsono stavamo visitando le bellezze del Gujarat: i “baoli”, pozzi gradinati risalenti al XVI secolo, impreziositi da bassorilievi ed elaborate strutture, nei cui ambienti sotterranei la temperatura permane fresca e rende possibile da secoli la vita sociale nei mesi estivi; le colline sacre ai jain (Girnar Hill, Shatrunjaya); i templi hinduisti di Dwarka.

A tutto questo era improvvisamente seguito il Pronto Soccorso del General Hospital di Bhuj. Il mio cuore era attanagliato dall’angoscia. Quando eravamo riusciti ad arrivare qui Luisa, la mia compagna di viaggio, era ormai fuori conoscenza. Il luogo mi era apparso molto povero, con il pavimento neanche rivestito di piastrelle, ma fatto in cemento. Tuttavia, era l’unica possibilità per salvarla. Lei era stata adagiata su un lettino zuppo di sangue del paziente che l’aveva preceduta, ma non aveva potuto rendersene conto. Era andata avanti così per giorni. Quanti giorni? Non ricordo più, la tensione e la stanchezza annebbiano tutto. Io avevo passato le notti cercando di dormire su uno sgabello, con la fronte appoggiata accanto al suo corpo, in un punto dove non ci fosse sangue. Sulle spalle una coperta portatami da Salim, un amico indiano (di notte fa freddo). Progressivamente avevo cominciato a conoscere e prendere confidenza con quello che mi circondava.

La stanza del Pronto Soccorso dove ci trovavamo era fornita di una dozzina di letti e accoglieva solo i casi più urgenti e gravi. Non era lieve guardarsi intorno. Tuttavia, regnava una grande solidarietà reciproca, che era amplificata dalla gentilezza dei medici (“Sentitevi come a casa vostra”). Nonostante la povertà dei mezzi, i pazienti non erano considerati numeri, ma ad ognuno veniva riconosciuta la dignità di essere umano. I ricoverati erano uniti dal dolore che, diventato comune, veniva affrontato insieme. Volentieri avevo condiviso con gli altri il cibo che mi portava Salim ogni giorno. Una sera avevo aiutato ad immobilizzare una bellissima ragazza, arrivata in piena crisi epilettica, affinché non si soffocasse. Con suo padre avevo poi tenuto teso un lenzuolo che fungesse da tenda affinché la madre potesse cambiarla, dato che si era defecata addosso. Il primo giorno dell’anno si era svolta una scena surreale: un ferito appena arrivato, completamente ricoperto di sangue, era entrato barcollando nella stanza ed aveva augurato ai presenti “Felice Anno Nuovo!”.

Le cure prestate a Luisa si sono rivelate efficaci: il batterio che l’aveva aggredita è stato individuato e debellato con un trattamento mirato e lei finalmente ha ripreso coscienza. Per non farle rendere pienamente conto della drammatica situazione che ci circonda, passo ore a sussurrarle barzellette, perlopiù oscene. Ridere l’aiuta. Quando deve andare al gabinetto la accompagno, cercando di reggere la flebo con una mano e di sostenere lei con l’altra. Ma è quello che è successo ieri che non riesco a scordare.

È arrivato un bambino sugli otto anni morso da un serpente velenoso. I medici hanno cercato di farsi descrivere dai genitori il serpente, perché ce ne sono di vari tipi e gli antidoti ai loro veleni sono molteplici. Hanno scelto quello più probabile. D’altro canto, non fare niente avrebbe significato la morte certa del piccolo. I suoi genitori hanno passato la notte cercando di tenerlo sveglio con lievi buffetti sulle guance e gocce d’acqua spruzzate sul viso, come da indicazioni dei medici. L’Amore ha lottato con la Morte. Questa mattina mi sono dovuto assentare un paio d’ore per andare a vedere se fosse possibile prenotare due posti su un volo per Ahmedabad fra qualche giorno, in tempo per la connessione con il nostro volo internazionale (i medici mi hanno detto che ritengono di potere dimettere Luisa presto). Quando sono tornato il bambino non c’era più. C’erano dei giornalisti che intervistavano Luisa, dato che era la prima occidentale mai ricoverata in quella struttura pubblica, ma del bambino nessuna traccia. Potrebbe essere stato portato in un altro reparto. Oppure… Non chiedo, non ne ho il coraggio. Penso a quante volte, nella vita di tutti i giorni, ce la prendiamo per cose che non hanno alcuna importanza>.

L’India è rimasta un Paese dove alle volte il sublime e l’orribile coesistono e così pure l’antica sapienza e le mai cessate disuguaglianze. I dottori Malik Rajiv e K. Buch, che hanno salvato Luisa, sono per me un esempio di quanto a volte l’uomo possa fare per i suoi simili anche in una situazione di scarse risorse. Ricordo che Buch, per sostenere emotivamente i pazienti, li faceva sorridere con un suo gioco di parole “I’m Dr. Buch, but I’m not a butcher”. Luisa è uscita da questa esperienza molto più forte di come era. Me lo ha confessato lei stessa. A volte dalle situazioni difficili nascono frutti inaspettati. Anni dopo ha dovuto affrontare il cancro ed è stata l’unica a sopravvivere tra le pazienti della sua stanza nel reparto di oncologia di un ospedale italiano. Quanto a me, sono cosciente di essere solo una pagliuzza che il vento dell’esistenza può far volare via in qualsiasi momento.