Unioni di fatto: la Cassazione ricompone il puzzle di una tutela frammentaria
1. Le massime
Le unioni di fatto costituiscono un fenomeno dotato di significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito matrimoniale e, in difetto di una completa e specifica regolamentazione giuridica – cui sopperiscono l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ovvero una legislazione frammentaria – costituiscono il terreno fecondo su cui possono svilupparsi i doveri dettati dalla morale sociale, dalla cui inosservanza discende un giudizio di riprovazione e dal cui adempimento consegue l’irripetibilità di ciò che è stato spontaneamente prestato, così come previsto dall’articolo 2034 del Codice Civile.
La nozione di famiglia di cui all’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il quale tutela il diritto alla vita familiare, non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio e può comprendere altri legami familiari di fatto.
I doveri morali e sociali che trovano la loro fonte nella formazione sociale costituita dalla convivenza more uxorio refluiscono, secondo un orientamento consolidato della Suprema Corte, sui rapporti di natura patrimoniale, escludendo il diritto del convivente di ripetere eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso o in relazione alla convivenza.
Eventuali contribuzioni di un convivente all’altro vanno intese come adempimenti che la coscienza sociale ritiene doverosi nell’ambito di un consolidato rapporto affettivo, il quale non può non implicare – pur senza la cogenza giuridica che discende dal vincolo matrimoniale – forme di assistenza morale e materiale, oltre che di collaborazione.
La valutazione circa la ricorrenza di dazioni che costituiscano oggetto di presunti adempimenti effettuati in virtù di doveri sociali e morali, deve essere effettuata considerando l’ambiente socio-economico cui appartengono le parti, nonché alla luce di un esame complessivo della concreta situazione in cui i pretesi adempimenti risultano effettuati: il discrimine tra adempimento dei doveri sociali e morali, quale può individuarsi in qualsiasi contributo tra conviventi (destinato al menage quotidiano ovvero espressione della solidarietà tra persone unite da un legame intenso e duraturo) e l’atto di liberalità, va individuato, oltre che nella spontaneità, nel rapporto di proporzionalità tra i mezzi di cui l’adempiente dispone e l’interesse da soddisfare.
2. Il caso
Tizio e Caia intraprendevano una relazione sentimentale. Allorché Tizio si stabiliva all’estero per ragioni di lavoro, Caia decideva di seguirlo ed ivi i due intraprendevano una convivenza more uxorio e dal loro rapporto nasceva anche un figlio. Trascorsi cinque anni dall’inizio della convivenza, i due decidevano di far cessare la convivenza e di regolare consensualmente tra loro i rapporti di natura patrimoniale: Tizio assumeva obblighi sia verso Caia sia verso il figlio, il quale rimaneva affidato alla madre. In simili accordi, nulla veniva previsto circa gli importi che, a più riprese, Tizio aveva versato a Caia, per un ammontare complessivo di centoventi milioni di lire.
Tizio, deducendo le somme da ultimo menzionate erano state versate allo scopo di realizzarne una gestione redditizia, chiedeva che Tizia fosse condannata a rendere il conto in relazione a tale mandato e a corrispondergli la somma risultante; in subordine, chiedeva che la condanna alla restituzione fosse disposta a titolo di gestione di affari o di arricchimento senza causa.
Caia si costituiva in giudizio, contestando la fondatezza della domanda. A suo dire, l’erogazione della somma pretesa in restituzione sarebbe stata effettuata da Tizio in adempimento di una obbligazione naturale sorta nell’ambito della convivenza more uxorio; con detta somma, Tizio avrebbe inteso, in altre parole, compensare la perdita del reddito subita da Caia, la quale – trasferendosi all'estero con il convivente – aveva perduto gli emolumenti da dirigente di un’importante società, con rinuncia ad un reddito di circa undici milioni di lire mensili. In via riconvenzionale, inoltre, la convenuta, lamentando il mancato adempimento da parte dell’ex convivente delle obbligazioni assunte, chiedeva che Tizio fosse condannato al pagamento delle somme dovute a tale titolo.
Con sentenza, il Tribunale adito, dichiarava inammissibile la domanda riconvenzionale ed accoglieva la pretesa di Tizio ritenendola fondata sotto il profilo dell’arricchimento senza causa. Il Tribunale escludeva che le erogazioni effettuate da Tizio potessero ritenersi adempimenti di obblighi morali e sociali, poiché Tizio aveva assolto a simili obblighi provvedendo al vitto, all’alloggio ed al mantenimento di Caia, in costanza della convivenza e, una volta venuta a cessare, facendosi carico degli obblighi di cui agli accordi intervenuti tra gli ex conviventi. Il Tribunale riteneva, inoltre, la domanda riconvenzionale inammissibile, giacché tale pretesa era già stata azionata in separato giudizio ed, inoltre, per la genericità della domanda e per la carenza di valido titolo.
Caia proponeva appello, rappresentando che l’obbligazione naturale su cui si fondava la propria eccezione era costituita dalla deteriore condizione, sotto il profilo economico, che le era derivata dalla propria rinuncia alla carriera per seguire il convivente. Peraltro, Tizio aveva destinato solo una minima parte (il dieci per cento) delle proprie entrate alle esigenze di Caia, per procurarle il vitto, l’alloggio e le disponibilità finanziarie che le occorrevano.
La Corte adita rigettava l’appello.
Caia proponeva ricorso per cassazione, chiedendo – in particolare – alla Corte se potesse ritenersi adempimento di un dovere morale e sociale, ai sensi dell’articolo 2034 del Codice Civile, la condotta di chi, disponendo di un reddito elevato, provveda alle esigenze del convivente privo di un reddito proprio (in quanto abbia rinunciato ad un posto di lavoro ben remunerato in funzione della convivenza), anche attraverso la destinazione di una modesta porzione (dieci per cento) dei propri guadagni al convivente. Tizio resisteva con controricorso.
3. La decisione
La Suprema Corte evidenzia, anzitutto, che in difetto di una completa e specifica regolamentazione giuridica, all’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale sia stato rimesso il compito di individuare la regolamentazione delle unioni di fatto, fenomeno in cui il Supremo Collegio non manca di ravvisare “significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale”. In un simile contesto, a fronte di un intervento legislativo assente o frammentario, è possibile il proliferare di “doveri dettati dalla morale sociale” che, seppure non coercibili, ove rispettati dal convivente more uxorio, mettono capo alla non ripetibilità di ciò che sia stato spontaneamente prestato.
In primo luogo, la Corte rammenta che nell’area di tutela del diritto alla vita familiare, ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritto dell’Uomo, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo (cfr. Sentenza 24 giugno 2010, Prima Sezione, caso Schalk e Kopft contro Austria), rientrano non solo le relazioni basate sul matrimonio, bensì anche altri vincoli familiari di fatto. La Consulta ha, inoltre, chiarito il riconoscimento delle formazioni sociali, così come operato dall’articolo 2 della Costituzione, deve ritenersi esteso ad “ogni forma di comunità, semplice e complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico”.
Senza pretesa di completezza, poi, il Supremo Collegio opera una articolata ricognizione degli indici legislativi da cui può inferirsi la rilevanza della famiglia di fatto. A questo proposito sono citate:
- la Legge 10 dicembre 2012, n. 219, con cui è stata abolita la discriminazione tra figli legittimi e naturali;
- la Legge 8 febbraio 2006, n. 54, che ha introdotto la disciplina dell’affido condiviso, estendendola anche ai figli nati fuori del matrimonio;
- la Legge 40 del 2004, la quale ha consentito l’accesso alla fecondazione assistita anche alle coppie di fatto, - la Legge 9 gennaio 2004, n. 6, che, per la scelta dell’amministratore di sostegno, prevede che la stessa cada sulla persona stabilmente convivente col beneficiario ed ha, inoltre, previsto che l’istanza per l’interdizione o l’inabilitazione possa essere promossa anche dalla persona stabilmente convivente;
- la Legge 4 aprile 2001, n. 154, che ha introdotto il titolo IX bis del Codice Civile, introducendo, attraverso gli “Ordini di protezione contro gli abusi familiari”, un regime di tutela esteso anche ai conviventi;
- la Legge 28 marzo 2001, n. 149, che – innovando la disciplina della adozione speciale di cui alla Legge n. 184/1983 – ha previsto che il requisito della stabilità della coppia di adottanti possa essere soddisfatto anche quando essi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni.
I giudici della Prima Sezione passano, poi, in rassegna i precedenti della Suprema Corte in cui si è operato un espresso riconoscimento della responsabilità aquiliana sia nei rapporti interni alla convivenza sia nelle lesioni arrecate da terzi al rapporto nascente da una unione stabile e duratura. In altre pronunce si è attribuita rilevanza alla convivenza intrapresa dal coniuge separato o divorziato ai fini dell’assegno di mantenimento di quello di divorzio. Di recente, la Suprema Corte ha anche affermato che l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli la proposizione dell’azione di spoglio.
Fatta questa premessa, il Supremo Collegio evidenzia che i doveri morali e sociali che trovano fonte nella convivenza more uxorio refluiscono sui rapporti di natura patrimoniale, nel senso di escludere il diritto del convivente di ripetizione di eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso o in relazione alla convivenza. Un simile principio, già affermato nella giurisprudenza della Cassazione, è stato, a giudizio della Prima Sezione, disatteso dalla Corte d’Appello nel caso di specie, con argomentazioni non adeguate e contraddittorie.
In particolare, il giudice di appello aveva escluso il diritto di Caia sul rilievo che il trasferimento all’estero, con rinuncia al posto di lavoro da lei occupato, non fosse stato provocato da una espressa richiesta di Tizio, bensì determinato da una “libera scelta di Caia”. In questo modo, inequivocamente, la Corte d’Appello, errando sulla nozione di obbligazione naturale, ha ritenuto che alla stessa dovesse riconoscersi una valenza indennitaria.
Esprimendo la propria contrarietà ad un simile ordine argomentativo, la Suprema Corte rileva che l’assistenza materiale tra conviventi, nel rispetto dei principi di proporzionalità ed adeguatezza, può affermarsi indipendentemente dalle ragioni che abbiano indotto l’uno o l’altro dei conviventi in una situazione precaria sul piano economico. Le eventuali contribuzioni di un convivente all’altro vanno, infatti, ritenute quali adempimenti imposti dalla coscienza sociale nell’ambito di un consolidato rapporto affettivo.
La Corte, individua, dunque, il tratto differenziale tra l’adempimento dei doveri sociali e morali e l’atto di liberalità, oltre che nella spontaneità, nel rapporto di proporzionalità tra i mezzi di cui l’adempiente dispone e l’interesse da soddisfare. Proprio poiché una simile indagine non è stata effettuata dalla Corte di Appello, la Corte di Cassazione, in accoglimento dei primi tre motivi dedotti, cassa con rinvio al giudice di appello affinché effettui una simile valutazione, con declaratoria di inammissibilità dei motivi residui.
4. I precedenti
Sulla interpretazone dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, la Suprema Corte richiama la sentenza 24 giugno 2010, caso Schalk e Kopft contro Austria, resa dalla Corte di Strasburgo.
Sulla portata del riconoscimento operato dall’articolo 2 della Costituzione, si veda Corte Costituzionale, Sentenza n. 237/1986; sull’ampia portata dell’articolo 2 della Costituzione, nel contesto di un modello di società pluralista, si veda Corte Costituzionale, n. 138/2010; quanto alla tutela del convivente superstite ed alla successione nel contratto di locazione in caso di morte del conduttore, si veda la Sentenza additiva n. 404/1988. In particolare, sulla tutela del diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, anche tra due persone dello stesso sesso, si veda, oltre alla già citata Corte Costituzionale, Sentenza n. 138/2010, anche la Cassazione, Sentenza 15 marzo 2012, n. 4184.
In senso conforme alla terza delle massime ivi enunciate, si vedano: Cassazione, 15 gennaio 1969, n. 60; Cassazione, 20 gennaio 1989, n. 285; Cassazione, 13 marzo 2003, n. 3713; Cassazione, 15 maggio 2009, n. 11330.
1. Le massime
Le unioni di fatto costituiscono un fenomeno dotato di significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito matrimoniale e, in difetto di una completa e specifica regolamentazione giuridica – cui sopperiscono l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ovvero una legislazione frammentaria – costituiscono il terreno fecondo su cui possono svilupparsi i doveri dettati dalla morale sociale, dalla cui inosservanza discende un giudizio di riprovazione e dal cui adempimento consegue l’irripetibilità di ciò che è stato spontaneamente prestato, così come previsto dall’articolo 2034 del Codice Civile.
La nozione di famiglia di cui all’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il quale tutela il diritto alla vita familiare, non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio e può comprendere altri legami familiari di fatto.
I doveri morali e sociali che trovano la loro fonte nella formazione sociale costituita dalla convivenza more uxorio refluiscono, secondo un orientamento consolidato della Suprema Corte, sui rapporti di natura patrimoniale, escludendo il diritto del convivente di ripetere eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso o in relazione alla convivenza.
Eventuali contribuzioni di un convivente all’altro vanno intese come adempimenti che la coscienza sociale ritiene doverosi nell’ambito di un consolidato rapporto affettivo, il quale non può non implicare – pur senza la cogenza giuridica che discende dal vincolo matrimoniale – forme di assistenza morale e materiale, oltre che di collaborazione.
La valutazione circa la ricorrenza di dazioni che costituiscano oggetto di presunti adempimenti effettuati in virtù di doveri sociali e morali, deve essere effettuata considerando l’ambiente socio-economico cui appartengono le parti, nonché alla luce di un esame complessivo della concreta situazione in cui i pretesi adempimenti risultano effettuati: il discrimine tra adempimento dei doveri sociali e morali, quale può individuarsi in qualsiasi contributo tra conviventi (destinato al menage quotidiano ovvero espressione della solidarietà tra persone unite da un legame intenso e duraturo) e l’atto di liberalità, va individuato, oltre che nella spontaneità, nel rapporto di proporzionalità tra i mezzi di cui l’adempiente dispone e l’interesse da soddisfare.
2. Il caso
Tizio e Caia intraprendevano una relazione sentimentale. Allorché Tizio si stabiliva all’estero per ragioni di lavoro, Caia decideva di seguirlo ed ivi i due intraprendevano una convivenza more uxorio e dal loro rapporto nasceva anche un figlio. Trascorsi cinque anni dall’inizio della convivenza, i due decidevano di far cessare la convivenza e di regolare consensualmente tra loro i rapporti di natura patrimoniale: Tizio assumeva obblighi sia verso Caia sia verso il figlio, il quale rimaneva affidato alla madre. In simili accordi, nulla veniva previsto circa gli importi che, a più riprese, Tizio aveva versato a Caia, per un ammontare complessivo di centoventi milioni di lire.
Tizio, deducendo le somme da ultimo menzionate erano state versate allo scopo di realizzarne una gestione redditizia, chiedeva che Tizia fosse condannata a rendere il conto in relazione a tale mandato e a corrispondergli la somma risultante; in subordine, chiedeva che la condanna alla restituzione fosse disposta a titolo di gestione di affari o di arricchimento senza causa.
Caia si costituiva in giudizio, contestando la fondatezza della domanda. A suo dire, l’erogazione della somma pretesa in restituzione sarebbe stata effettuata da Tizio in adempimento di una obbligazione naturale sorta nell’ambito della convivenza more uxorio; con detta somma, Tizio avrebbe inteso, in altre parole, compensare la perdita del reddito subita da Caia, la quale – trasferendosi all'estero con il convivente – aveva perduto gli emolumenti da dirigente di un’importante società, con rinuncia ad un reddito di circa undici milioni di lire mensili. In via riconvenzionale, inoltre, la convenuta, lamentando il mancato adempimento da parte dell’ex convivente delle obbligazioni assunte, chiedeva che Tizio fosse condannato al pagamento delle somme dovute a tale titolo.
Con sentenza, il Tribunale adito, dichiarava inammissibile la domanda riconvenzionale ed accoglieva la pretesa di Tizio ritenendola fondata sotto il profilo dell’arricchimento senza causa. Il Tribunale escludeva che le erogazioni effettuate da Tizio potessero ritenersi adempimenti di obblighi morali e sociali, poiché Tizio aveva assolto a simili obblighi provvedendo al vitto, all’alloggio ed al mantenimento di Caia, in costanza della convivenza e, una volta venuta a cessare, facendosi carico degli obblighi di cui agli accordi intervenuti tra gli ex conviventi. Il Tribunale riteneva, inoltre, la domanda riconvenzionale inammissibile, giacché tale pretesa era già stata azionata in separato giudizio ed, inoltre, per la genericità della domanda e per la carenza di valido titolo.
Caia proponeva appello, rappresentando che l’obbligazione naturale su cui si fondava la propria eccezione era costituita dalla deteriore condizione, sotto il profilo economico, che le era derivata dalla propria rinuncia alla carriera per seguire il convivente. Peraltro, Tizio aveva destinato solo una minima parte (il dieci per cento) delle proprie entrate alle esigenze di Caia, per procurarle il vitto, l’alloggio e le disponibilità finanziarie che le occorrevano.
La Corte adita rigettava l’appello.
Caia proponeva ricorso per cassazione, chiedendo – in particolare – alla Corte se potesse ritenersi adempimento di un dovere morale e sociale, ai sensi dell’articolo 2034 del Codice Civile, la condotta di chi, disponendo di un reddito elevato, provveda alle esigenze del convivente privo di un reddito proprio (in quanto abbia rinunciato ad un posto di lavoro ben remunerato in funzione della convivenza), anche attraverso la destinazione di una modesta porzione (dieci per cento) dei propri guadagni al convivente. Tizio resisteva con controricorso.
3. La decisione
La Suprema Corte evidenzia, anzitutto, che in difetto di una completa e specifica regolamentazione giuridica, all’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale sia stato rimesso il compito di individuare la regolamentazione delle unioni di fatto, fenomeno in cui il Supremo Collegio non manca di ravvisare “significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale”. In un simile contesto, a fronte di un intervento legislativo assente o frammentario, è possibile il proliferare di “doveri dettati dalla morale sociale” che, seppure non coercibili, ove rispettati dal convivente more uxorio, mettono capo alla non ripetibilità di ciò che sia stato spontaneamente prestato.
In primo luogo, la Corte rammenta che nell’area di tutela del diritto alla vita familiare, ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritto dell’Uomo, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo (cfr. Sentenza 24 giugno 2010, Prima Sezione, caso Schalk e Kopft contro Austria), rientrano non solo le relazioni basate sul matrimonio, bensì anche altri vincoli familiari di fatto. La Consulta ha, inoltre, chiarito il riconoscimento delle formazioni sociali, così come operato dall’articolo 2 della Costituzione, deve ritenersi esteso ad “ogni forma di comunità, semplice e complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico”.
Senza pretesa di completezza, poi, il Supremo Collegio opera una articolata ricognizione degli indici legislativi da cui può inferirsi la rilevanza della famiglia di fatto. A questo proposito sono citate:
- la Legge 10 dicembre 2012, n. 219, con cui è stata abolita la discriminazione tra figli legittimi e naturali;
- la Legge 8 febbraio 2006, n. 54, che ha introdotto la disciplina dell’affido condiviso, estendendola anche ai figli nati fuori del matrimonio;
- la Legge 40 del 2004, la quale ha consentito l’accesso alla fecondazione assistita anche alle coppie di fatto, - la Legge 9 gennaio 2004, n. 6, che, per la scelta dell’amministratore di sostegno, prevede che la stessa cada sulla persona stabilmente convivente col beneficiario ed ha, inoltre, previsto che l’istanza per l’interdizione o l’inabilitazione possa essere promossa anche dalla persona stabilmente convivente;
- la Legge 4 aprile 2001, n. 154, che ha introdotto il titolo IX bis del Codice Civile, introducendo, attraverso gli “Ordini di protezione contro gli abusi familiari”, un regime di tutela esteso anche ai conviventi;
- la Legge 28 marzo 2001, n. 149, che – innovando la disciplina della adozione speciale di cui alla Legge n. 184/1983 – ha previsto che il requisito della stabilità della coppia di adottanti possa essere soddisfatto anche quando essi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni.
I giudici della Prima Sezione passano, poi, in rassegna i precedenti della Suprema Corte in cui si è operato un espresso riconoscimento della responsabilità aquiliana sia nei rapporti interni alla convivenza sia nelle lesioni arrecate da terzi al rapporto nascente da una unione stabile e duratura. In altre pronunce si è attribuita rilevanza alla convivenza intrapresa dal coniuge separato o divorziato ai fini dell’assegno di mantenimento di quello di divorzio. Di recente, la Suprema Corte ha anche affermato che l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli la proposizione dell’azione di spoglio.
Fatta questa premessa, il Supremo Collegio evidenzia che i doveri morali e sociali che trovano fonte nella convivenza more uxorio refluiscono sui rapporti di natura patrimoniale, nel senso di escludere il diritto del convivente di ripetizione di eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso o in relazione alla convivenza. Un simile principio, già affermato nella giurisprudenza della Cassazione, è stato, a giudizio della Prima Sezione, disatteso dalla Corte d’Appello nel caso di specie, con argomentazioni non adeguate e contraddittorie.
In particolare, il giudice di appello aveva escluso il diritto di Caia sul rilievo che il trasferimento all’estero, con rinuncia al posto di lavoro da lei occupato, non fosse stato provocato da una espressa richiesta di Tizio, bensì determinato da una “libera scelta di Caia”. In questo modo, inequivocamente, la Corte d’Appello, errando sulla nozione di obbligazione naturale, ha ritenuto che alla stessa dovesse riconoscersi una valenza indennitaria.
Esprimendo la propria contrarietà ad un simile ordine argomentativo, la Suprema Corte rileva che l’assistenza materiale tra conviventi, nel rispetto dei principi di proporzionalità ed adeguatezza, può affermarsi indipendentemente dalle ragioni che abbiano indotto l’uno o l’altro dei conviventi in una situazione precaria sul piano economico. Le eventuali contribuzioni di un convivente all’altro vanno, infatti, ritenute quali adempimenti imposti dalla coscienza sociale nell’ambito di un consolidato rapporto affettivo.
La Corte, individua, dunque, il tratto differenziale tra l’adempimento dei doveri sociali e morali e l’atto di liberalità, oltre che nella spontaneità, nel rapporto di proporzionalità tra i mezzi di cui l’adempiente dispone e l’interesse da soddisfare. Proprio poiché una simile indagine non è stata effettuata dalla Corte di Appello, la Corte di Cassazione, in accoglimento dei primi tre motivi dedotti, cassa con rinvio al giudice di appello affinché effettui una simile valutazione, con declaratoria di inammissibilità dei motivi residui.
4. I precedenti
Sulla interpretazone dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, la Suprema Corte richiama la sentenza 24 giugno 2010, caso Schalk e Kopft contro Austria, resa dalla Corte di Strasburgo.
Sulla portata del riconoscimento operato dall’articolo 2 della Costituzione, si veda Corte Costituzionale, Sentenza n. 237/1986; sull’ampia portata dell’articolo 2 della Costituzione, nel contesto di un modello di società pluralista, si veda Corte Costituzionale, n. 138/2010; quanto alla tutela del convivente superstite ed alla successione nel contratto di locazione in caso di morte del conduttore, si veda la Sentenza additiva n. 404/1988. In particolare, sulla tutela del diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, anche tra due persone dello stesso sesso, si veda, oltre alla già citata Corte Costituzionale, Sentenza n. 138/2010, anche la Cassazione, Sentenza 15 marzo 2012, n. 4184.
In senso conforme alla terza delle massime ivi enunciate, si vedano: Cassazione, 15 gennaio 1969, n. 60; Cassazione, 20 gennaio 1989, n. 285; Cassazione, 13 marzo 2003, n. 3713; Cassazione, 15 maggio 2009, n. 11330.