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231 - Cassazione Penale: responsabilità oggettiva per le condotte rientranti nella politica d’impresa

231 - Cassazione Penale: responsabilità oggettiva per le condotte rientranti nella politica d’impresa
231 - Cassazione Penale: responsabilità oggettiva per le condotte rientranti nella politica d’impresa

La Corte di Cassazione ha stabilito che, in tema di responsabilità amministrativa degli enti, la società risponde oggettivamente per tutte le condotte che trovano una spiegazione ed una causa nella vita societaria, rimanendo esente da responsabilità solo per fatti illeciti posti in essere nell’interesse esclusivo dell’agente, per un fine personalissimo proprio o di terzi.

 

Le decisioni di merito e i motivi del ricorso per Cassazione

Nel caso di specie, il Tribunale territorialmente competente aveva affermato la penale responsabilità dell’amministratore unico e la responsabilità amministrativa della società stessa in ordine al reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche di cui all’articolo 640-bis del Codice Penale per aver indotto in errore, mediante artifici e raggiri, un istituto di credito circa l’effettiva progressiva esecuzione delle opere finanziate, ottenendo in tal modo un ingiusto profitto, consistito nell’erogazione indebita di finanziamenti della Comunità Europea. La Corte d’Appello, pronunciatasi a seguito del gravame proposto dall’amministratore e dalla società, aveva confermato la sentenza di condanna.

Avverso la sentenza della Corte territoriale, il difensore dell’amministratore e della società aveva proposto ricorso per Cassazione, lamentando, con riferimento alla posizione della società, violazione di legge e vizio di motivazione per avere la Corte territoriale omesso di fornire qualsiasi motivazione sull’effettiva ricorrenza dell’interesse dell’ente nella commissione del reato contestato all’amministratore, ovvero del vantaggio ricevuto.

La decisione della Suprema Corte

Al fine di dare soluzione al quesito giuridico proposto, i giudici di legittimità hanno previamente ricordato che la responsabilità amministrativa degli enti discende dal Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231 che stabilisce agli articoli 5 e 6 i criteri in base ai quali il reato commesso dalla persona fisica può essere attribuito alla persona giuridica.

In particolare, l’articolo 5 del decreto individua il criterio di imputazione oggettiva della responsabilità, a norma del quale l’ente risponde solo dei reati commessi nel suo “interesse o vantaggio”.

Richiamando una giurisprudenza ormai consolidata, la Corte ha ritenuto che “i due criteri di imputazione dell’interesse e del vantaggio si pongono in rapporto di alternatività, come confermato dalla congiunzione disgiuntiva “o”, presente nel testo della disposizione; il criterio dell’interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo in relazione all’elemento psicologico della specifica persona fisica autore dell’illecito; il criterio del vantaggio ha, invece, una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito ed indipendentemente dalla finalizzazione originaria del reato”.

Gradualmente, la giurisprudenza ha accolto una concezione oggettiva non solo del vantaggio, ma anche dell’interesse, arrivando ad affermare che ai fini della configurabilità di detta responsabilità, è sufficiente “che venga provato che lo stesso abbia ricavato dal reato un vantaggio, anche quando non è stato possibile determinare l’effettivo interesse vantato ex ante alla consumazione dell’illecito […]. Appare, dunque, corretto attribuire alla nozione di interesse accolta nel primo comma dell’art. 5 una dimensione non propriamente od esclusivamente soggettiva, che determinerebbe una deriva psicologica nell’accertamento della fattispecie, che invero non trova effettiva giustificazione nel dato normativo. È infatti evidente come la legge non richieda necessariamente che l’autore del reato abbia voluto perseguire l’interesse dell’ente perché sia configurabile la responsabilità di quest’ultimo, né è richiesto che lo stesso sia stato anche solo consapevole di realizzare tale interesse attraverso la propria condotta. Per converso, la stessa previsione contenuta nell’art. 8 lett. a) del decreto – per cui la responsabilità dell’ente sussiste anche quando l’autore del reato non è identificato o non è imputabile – e l’introduzione negli ultimi anni di ipotesi di responsabilità dell’ente per reati di natura colposa, sembrano negare una prospettiva di tal genere”.

Pertanto, conclude la Corte, “la responsabilità [dell’ente] sussiste anche quando perseguendo il proprio autonomo interesse, l’agente obiettivamente realizzi anche quello dell’ente” e, in questo senso, affinché possa ascriversi all’ente la responsabilità per il reato, “è sufficiente che la condotta dell’autore di quest’ultimo tenda oggettivamente e concretamente a realizzare, nella prospettiva del soggetto collettivo, anche l’interesse del medesimo”.

Da ciò discende che l’ente è esonerato da responsabilità solo nel caso di condotte estranee alla politica d’impresa, che, dunque, non trovano una spiegazione ed una causa nella vita societaria.

Secondo la Cassazione, nel caso di specie del tutto correttamente la Corte territoriale aveva ritenuto che del reato commesso dall’amministratore dovesse rispondere anche la società, in quanto la stessa aveva ottenuto, in ragione della condotta posta in essere dall’amministratore, “ingenti e indebiti finanziamenti agevolati, consolidando così la propria posizione sul mercato di riferimento, mediante l’ingente iniezione di liquidità ottenuta grazie alla condotta illecita posta in essere da un suo organo apicalee aveva incrementato, illegittimamente, “le proprie disponibilità finanziarie, sfruttando un indebito vantaggio concorrenziale, mediante l’ottenimento di ingenti contributi agevolati per investimenti, giustificati solo nella misura in cui ad essi si fosse accompagnato un contestuale esborso di denaro da parte della società finanziata”, realizzandosi in questo modo a favore dell’ente quell’interesse e vantaggio previsto dalla norma incriminatrice.

Per queste ragioni, rilevando che nel caso di specie non era stata neppure dedotta l’adozione da parte dell’ente di un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire la commissione dei reati, la Corte di Cassazione ha ritenuto che l’affermazione di responsabilità della società fosse incensurabile. Pertanto, la Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, condannando la società al pagamento di una somma a favore della Cassa delle ammende.

(Corte di Cassazione - Sezione Seconda Penale, Sentenza 9 gennaio 2018, n. 295)