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Affidamento in house: regolazione del rapporto tra amministrazione e società, lo strumento contrattuale

Abstract:

L’articolo tratta la coerenza con l’istituto dell’in house provviding dello strumento contrattuale quale modalità regolativa del rapporto con la società strumentale.

Nell’ipotesi di affidamento in house, tre sono i criteri cumulativi elaborati dalla giurisprudenza comunitaria atti a giustificare la sottrazione di un servizio all’ambito di operatività delle regole dell’evidenza pubblica: la totale partecipazione pubblica, la circostanza che l’affidamento abbia luogo in favore di soggetti che, sebbene giuridicamente distinti dall’Amministrazione aggiudicatrice, costituiscano elementi del sistema che a tale Amministrazione fanno capo essendo soggetti a controllo analogo e il fatto che il destinatario dell’appalto svolga la parte più importante della propria attività in favore dell’amministrazione che la controlla.

Trattasi, quindi, di un modello organizzativo: la Pubblica amministrazione si avvale di propri organismi appartenenti all’organizzazione amministrativa che fa loro capo.

Ai sensi di questo orientamento giurisprudenziale, si deve verificare, sostanzialmente, “ una sorta di amministrazione “indiretta”, nella quale la gestione del servizio, in un certo senso, resta saldamente nelle mani dell’ente concedente, attraverso un controllo assoluto sull’attività della società affidataria la quale, a sua volta, è istituzionalmente destinata in modo assorbente a operazioni in favore di questo” (TAR Campania, Sez. I, 30/3/2005 n.2784).

Sulla questione il Consiglio di Stato, con l’ordinanza n. 2316 del 22.4.2004, V Sez., con la quale ha sospeso il giudizio e rimesso gli atti alla Corte di Giustizia, ha espresso l’avviso che, in merito alle condizioni in presenza delle quali è possibile per la Pubblica amministrazione ricorrere all’affidamento in house, in deroga alle disposizioni di matrice comunitaria, l’Amministrazione deve esercitare sulla società controllata un assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, che non possiede alcuna autonomia decisionale in relazione ai più importanti atti di gestione e che, in concreto, costituisce parte della stessa Amministrazione, con la quale deve trovarsi in una condizione di dipendenza finanziaria ed organizzativa.

In merito alla coerenza con l’istituto dell’in house provviding dello strumento contrattuale quale modalità regolativa del rapporto con la società strumentale, la Corte di Giustizia ha avuto modo di chiarire che la nozione di contratto implica l’esistenza di una relazione intersoggettiva, implica cioè l’esistenza di almeno due soggetti che siano sostanzialmente distinti.

Non c’è pertanto contratto (e non si applicheranno allora le regole comunitarie a tutela della concorrenza nella scelta del contraente) laddove un’Amministrazione si rivolga per reperire una determinata prestazione ad un soggetto che, pur essendo formalmente dotato di personalità giuridica diversa dall’Amministrazione, è sottoposto tuttavia ad un controllo gerarchico così intenso da parte dell’ente, che può essere assimilato al controllo che l’Amministrazione esercita sulle proprie strutture interne.

In presenza di tali condizioni, quindi, non c’è contratto perché manca una relazione intersoggettiva. C’è al contrario un rapporto organico (o di delegazione interorganica), venendo a mancare la qualità di terzo in capo al soggetto affidatario.

La delega interorganica e il conseguente rapporto di strumentalità dell’ente affidatario rispetto all’amministrazione aggiudicatrice rendono allora lo svolgimento della prestazione una vicenda tutta interna alla pubblica amministrazione (Giovagnoli Roberto, Gli affidamenti in house tra lacune del codice e recenti interventi legislativi, in Giustizia-amministrativa).

Quanto appena evidenziato consente di capire perché il soggetto in house possa beneficiare di affidamenti diretti, ossia senza gara: non si tratta di una fattispecie contrattuale che eccezionalmente è sottratta all’applicazione del diritto comunitario degli appalti e delle concessioni; si tratta, al contrario, una fattispecie non contrattuale (perché manca la relazione intersoggetiva), che, come tale, per sua stessa natura, si sottrae al diritto comunitario degli appalti e delle concessioni e, quindi, all’applicazione delle regole che impongono la gara per la scelta del contraente (Giovagnoli Roberto, Gli affidamenti in house tra lacune del codice e recenti interventi legislativi, cit.).

Come affermato dalla Corte di Giustizia nella sentenza Stadt Halle “un’autorità pubblica che sia una amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterna non appartenenti ai propri servizi. In tal caso, non si può parlare di contratto a titolo oneroso concluso con entità giuridicamente distinta dall’Amministrazione aggiudicatrice. Non sussistono quindi i presupposti per applicare le norme comunitarie in materia di appalti pubblici”.

Sebbene da un punto di vista meramente concettuale possano condividersi i dubbi sollevati in dottrina (Giovagnoli Roberto, Gli affidamenti in house tra lacune del codice e recenti interventi legislativi, cit.) sulla coerenza con l’istituto dell’in house providing dello strumento contrattuale quale modalità regolativa del rapporto, deve ricordarsi il diverso orientamento della giurisprudenza.

Infatti, i giudici amministrativi e contabili hanno precisato che l’affidamento diretto in argomento necessita la presenza di un negozio bilaterale regolativo, esecutivo della scelta organizzativa dell’in house (cfr., tra tante, C.d.S, sez. V, 30 agosto 2005, n. 4428 e 3 febbraio 2005, n. 272).

Tale accordo è tradizionalmente qualificato più propriamente come contratto di servizio, come tale disciplinante i reciproci diritti ed obblighi, tra l’Amministrazione e la società, inerenti l’affidamento del servizio. La giurisprudenza ha avuto modo di rimarcare la necessaria stipula del contratto di servizio, non ritenendo sufficiente la mera deliberazione dell’organo dell’ente pubblico che abbia autorizzato l’affidamento del servizio; tale deliberazione, mero atto interno e preparatorio del negozio avente come destinatario l’organo legittimato ad esprimerne la volontà all’esterno, deve tradursi in un atto, sottoscritto da entrambi i contraenti, dal quale possano desumersi le indispensabili determinazioni in ordine alle prestazioni da eseguirsi e al compenso da corrispondersi (C.d.S., sez. V, 24 settembre 2003, n. 5444).

A parere della Corte dei conti (Sezione Regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 78/pareri/2008), neppure vale ad escludere la necessità della stipula di un accordo “la considerazione che, nel caso di affidamento in house, si instaura un particolare rapporto tra ente affidante e società affidataria, generalmente qualificato in termini di delegazione interorganica, e caratterizzato dall’assenza di terzietà del soggetto affidatario rispetto al soggetto affidante, con la conseguente possibilità di considerare il primo quale parte integrante e prolungamento organizzativo del secondo. Non bisogna dimenticare, infatti, che il cosiddetto in house providing è istituto di matrice pubblicistico-comunitaria, sorto dall’esigenza di coniugare il fondamentale principio di libera concorrenza con quello di autorganizzazione della P.A., e la ricostruzione del rapporto ente affidante-società affidataria in termini di immedesimazione soggettiva non è trasponibile nell’ambito del diritto civile, conducendo altrimenti all’aberrante conseguenza di considerare sufficiente la delibera amministrativa di affidamento del servizio alla stregua di una delega amministrativa”.

Chiarito, per le su esposte ragioni, come si confermi necessario il ricorso ad uno strumento regolativo negoziale bilaterale, occorre ora esaminare se esso debba essere una convenzione ovvero un contratto.

L’istituto della convenzione è venuto configurandosi negli ultimi anni come uno degli strumenti normativi più importanti della c.d. amministrazione concertata, cioè fondata sull’accordo di due o più soggetti pubblici posti su un piano di parità e quindi equiordinati.

Nel caso di specie, risulta inconferente definire la natura pubblica o privata della società in house, in quanto preclusivo alla stipula di una convenzione tra soggetti equiordinati appare il requisito comunitario del c.d. controllo analogo: si ricorda, infatti, che la società, atteso il ruolo di soggetto in house, deve essere sottoposta ad un controllo gestionale e finanziario stringente da parte dell’amministrazione concretizzante, da un punto di vista organizzativo e funzionale, quel “rapporto equivalente, ai fini degli effetti pratici, ad una relazione di subordinazione gerarchica” (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 168/2005), richiesto per la sussistenza del citato presupposto del controllo analogo.

Vero è che la convenzione è anche una figura negoziale idonea a regolare rapporti tra un soggetto pubblico ed uno privato per l’espletamento, da parte di quest’ultimo, di una funzione o di un servizio per conto del primo, però deve evidenziarsi che, in sostanza, essa tende a configurarsi o come appalto di servizio, e quindi si identifica con un determinato tipo di contratto civilistico, o come atto consensuale che accede, necessariamente, ad una concessione di pubblico servizio.

Ricordato che il modulo organizzativo concessorio non è giuridicamente configurabile nella fattispecie in argomento (cfr.: parere Consiglio di Stato citato n. 525/2003), tra la società in house e l’Amministrazione corre l’alternativo rapporto di appalto, seppure in house, da regolare con una convenzione (rectus contratto) di natura civilistica.

Bisogna, peraltro, evidenziare che in materia di applicazione del tributo IVA sui corrispettivi dovuti dall’Amministrazione pubblica per prestazioni rese nell’ambito dei contratti in house, l’Agenzia delle Entrate ha espresso il proprio parere con la Risoluzione del 08/03/2007 n. 37.

L’Agenzia ha posto in evidenza che il soggetto in house, struttura giuridicamente distinta dall’ente che la controlla, è costituito nella forma giuridica di società e, conseguentemente, agli effetti dell’IVA, si configura quale soggetto passivo del tributo, ai sensi dell’articolo 4, secondo comma, n. 1), del DPR 26 ottobre 1972, n. 633 secondo cui " Si considerano in ogni caso effettuate nell’esercizio di imprese: 1) le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte dalle società ...".

Pertanto, “non può essere esteso alla società istante la disposizione recata dall’articolo 4, quarto comma, del DPR 26 ottobre 1972, n. 633, secondo cui per gli enti non commerciali, ivi compresi quelli pubblici, si considerano effettuate nell’esercizio di imprese soltanto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi rese nell’esercizio di attività commerciali. La disposizione menzionata, infatti, esclude dall’applicazione dell’IVA gli enti non commerciali relativamente allo svolgimento di alcune attività per il peculiare "status giuridico" da essi posseduto, che non può essere trasferito in capo a soggetti diversi, quali le società commerciali, aventi una personalità giuridica distinta dall’ente da cui promana. Per quanto concerne il requisito oggettivo, l’articolo 3, primo comma, del citato DPR n. 633, del 1972, prevede, tra l’altro, che costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da rapporti contrattuali. Nel caso in esame, posto che tra le parti intercorre un rapporto giuridico sinallagmatico nel quale il corrispettivo ricevuto dalla società costituisce il compenso per il servizio effettuato, viene soddisfatto anche il requisito oggettivo richiesto dal citato articolo 3”.

In conclusione, ricorrendo nella fattispecie in esame sia il presupposto soggettivo sia quello oggettivo per l’applicazione del tributo, la società, anche se opera nella veste di società "in house", deve assoggettare ad IVA i proventi ad essa corrisposti dall’Amministrazione affidante quale corrispettivo per l’attività di gestione dei servizi informatici e telematici.

Abstract:

L’articolo tratta la coerenza con l’istituto dell’in house provviding dello strumento contrattuale quale modalità regolativa del rapporto con la società strumentale.

Nell’ipotesi di affidamento in house, tre sono i criteri cumulativi elaborati dalla giurisprudenza comunitaria atti a giustificare la sottrazione di un servizio all’ambito di operatività delle regole dell’evidenza pubblica: la totale partecipazione pubblica, la circostanza che l’affidamento abbia luogo in favore di soggetti che, sebbene giuridicamente distinti dall’Amministrazione aggiudicatrice, costituiscano elementi del sistema che a tale Amministrazione fanno capo essendo soggetti a controllo analogo e il fatto che il destinatario dell’appalto svolga la parte più importante della propria attività in favore dell’amministrazione che la controlla.

Trattasi, quindi, di un modello organizzativo: la Pubblica amministrazione si avvale di propri organismi appartenenti all’organizzazione amministrativa che fa loro capo.

Ai sensi di questo orientamento giurisprudenziale, si deve verificare, sostanzialmente, “ una sorta di amministrazione “indiretta”, nella quale la gestione del servizio, in un certo senso, resta saldamente nelle mani dell’ente concedente, attraverso un controllo assoluto sull’attività della società affidataria la quale, a sua volta, è istituzionalmente destinata in modo assorbente a operazioni in favore di questo” (TAR Campania, Sez. I, 30/3/2005 n.2784).

Sulla questione il Consiglio di Stato, con l’ordinanza n. 2316 del 22.4.2004, V Sez., con la quale ha sospeso il giudizio e rimesso gli atti alla Corte di Giustizia, ha espresso l’avviso che, in merito alle condizioni in presenza delle quali è possibile per la Pubblica amministrazione ricorrere all’affidamento in house, in deroga alle disposizioni di matrice comunitaria, l’Amministrazione deve esercitare sulla società controllata un assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, che non possiede alcuna autonomia decisionale in relazione ai più importanti atti di gestione e che, in concreto, costituisce parte della stessa Amministrazione, con la quale deve trovarsi in una condizione di dipendenza finanziaria ed organizzativa.

In merito alla coerenza con l’istituto dell’in house provviding dello strumento contrattuale quale modalità regolativa del rapporto con la società strumentale, la Corte di Giustizia ha avuto modo di chiarire che la nozione di contratto implica l’esistenza di una relazione intersoggettiva, implica cioè l’esistenza di almeno due soggetti che siano sostanzialmente distinti.

Non c’è pertanto contratto (e non si applicheranno allora le regole comunitarie a tutela della concorrenza nella scelta del contraente) laddove un’Amministrazione si rivolga per reperire una determinata prestazione ad un soggetto che, pur essendo formalmente dotato di personalità giuridica diversa dall’Amministrazione, è sottoposto tuttavia ad un controllo gerarchico così intenso da parte dell’ente, che può essere assimilato al controllo che l’Amministrazione esercita sulle proprie strutture interne.

In presenza di tali condizioni, quindi, non c’è contratto perché manca una relazione intersoggettiva. C’è al contrario un rapporto organico (o di delegazione interorganica), venendo a mancare la qualità di terzo in capo al soggetto affidatario.

La delega interorganica e il conseguente rapporto di strumentalità dell’ente affidatario rispetto all’amministrazione aggiudicatrice rendono allora lo svolgimento della prestazione una vicenda tutta interna alla pubblica amministrazione (Giovagnoli Roberto, Gli affidamenti in house tra lacune del codice e recenti interventi legislativi, in Giustizia-amministrativa).

Quanto appena evidenziato consente di capire perché il soggetto in house possa beneficiare di affidamenti diretti, ossia senza gara: non si tratta di una fattispecie contrattuale che eccezionalmente è sottratta all’applicazione del diritto comunitario degli appalti e delle concessioni; si tratta, al contrario, una fattispecie non contrattuale (perché manca la relazione intersoggetiva), che, come tale, per sua stessa natura, si sottrae al diritto comunitario degli appalti e delle concessioni e, quindi, all’applicazione delle regole che impongono la gara per la scelta del contraente (Giovagnoli Roberto, Gli affidamenti in house tra lacune del codice e recenti interventi legislativi, cit.).

Come affermato dalla Corte di Giustizia nella sentenza Stadt Halle “un’autorità pubblica che sia una amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterna non appartenenti ai propri servizi. In tal caso, non si può parlare di contratto a titolo oneroso concluso con entità giuridicamente distinta dall’Amministrazione aggiudicatrice. Non sussistono quindi i presupposti per applicare le norme comunitarie in materia di appalti pubblici”.

Sebbene da un punto di vista meramente concettuale possano condividersi i dubbi sollevati in dottrina (Giovagnoli Roberto, Gli affidamenti in house tra lacune del codice e recenti interventi legislativi, cit.) sulla coerenza con l’istituto dell’in house providing dello strumento contrattuale quale modalità regolativa del rapporto, deve ricordarsi il diverso orientamento della giurisprudenza.

Infatti, i giudici amministrativi e contabili hanno precisato che l’affidamento diretto in argomento necessita la presenza di un negozio bilaterale regolativo, esecutivo della scelta organizzativa dell’in house (cfr., tra tante, C.d.S, sez. V, 30 agosto 2005, n. 4428 e 3 febbraio 2005, n. 272).

Tale accordo è tradizionalmente qualificato più propriamente come contratto di servizio, come tale disciplinante i reciproci diritti ed obblighi, tra l’Amministrazione e la società, inerenti l’affidamento del servizio. La giurisprudenza ha avuto modo di rimarcare la necessaria stipula del contratto di servizio, non ritenendo sufficiente la mera deliberazione dell’organo dell’ente pubblico che abbia autorizzato l’affidamento del servizio; tale deliberazione, mero atto interno e preparatorio del negozio avente come destinatario l’organo legittimato ad esprimerne la volontà all’esterno, deve tradursi in un atto, sottoscritto da entrambi i contraenti, dal quale possano desumersi le indispensabili determinazioni in ordine alle prestazioni da eseguirsi e al compenso da corrispondersi (C.d.S., sez. V, 24 settembre 2003, n. 5444).

A parere della Corte dei conti (Sezione Regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 78/pareri/2008), neppure vale ad escludere la necessità della stipula di un accordo “la considerazione che, nel caso di affidamento in house, si instaura un particolare rapporto tra ente affidante e società affidataria, generalmente qualificato in termini di delegazione interorganica, e caratterizzato dall’assenza di terzietà del soggetto affidatario rispetto al soggetto affidante, con la conseguente possibilità di considerare il primo quale parte integrante e prolungamento organizzativo del secondo. Non bisogna dimenticare, infatti, che il cosiddetto in house providing è istituto di matrice pubblicistico-comunitaria, sorto dall’esigenza di coniugare il fondamentale principio di libera concorrenza con quello di autorganizzazione della P.A., e la ricostruzione del rapporto ente affidante-società affidataria in termini di immedesimazione soggettiva non è trasponibile nell’ambito del diritto civile, conducendo altrimenti all’aberrante conseguenza di considerare sufficiente la delibera amministrativa di affidamento del servizio alla stregua di una delega amministrativa”.

Chiarito, per le su esposte ragioni, come si confermi necessario il ricorso ad uno strumento regolativo negoziale bilaterale, occorre ora esaminare se esso debba essere una convenzione ovvero un contratto.

L’istituto della convenzione è venuto configurandosi negli ultimi anni come uno degli strumenti normativi più importanti della c.d. amministrazione concertata, cioè fondata sull’accordo di due o più soggetti pubblici posti su un piano di parità e quindi equiordinati.

Nel caso di specie, risulta inconferente definire la natura pubblica o privata della società in house, in quanto preclusivo alla stipula di una convenzione tra soggetti equiordinati appare il requisito comunitario del c.d. controllo analogo: si ricorda, infatti, che la società, atteso il ruolo di soggetto in house, deve essere sottoposta ad un controllo gestionale e finanziario stringente da parte dell’amministrazione concretizzante, da un punto di vista organizzativo e funzionale, quel “rapporto equivalente, ai fini degli effetti pratici, ad una relazione di subordinazione gerarchica” (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 168/2005), richiesto per la sussistenza del citato presupposto del controllo analogo.

Vero è che la convenzione è anche una figura negoziale idonea a regolare rapporti tra un soggetto pubblico ed uno privato per l’espletamento, da parte di quest’ultimo, di una funzione o di un servizio per conto del primo, però deve evidenziarsi che, in sostanza, essa tende a configurarsi o come appalto di servizio, e quindi si identifica con un determinato tipo di contratto civilistico, o come atto consensuale che accede, necessariamente, ad una concessione di pubblico servizio.

Ricordato che il modulo organizzativo concessorio non è giuridicamente configurabile nella fattispecie in argomento (cfr.: parere Consiglio di Stato citato n. 525/2003), tra la società in house e l’Amministrazione corre l’alternativo rapporto di appalto, seppure in house, da regolare con una convenzione (rectus contratto) di natura civilistica.

Bisogna, peraltro, evidenziare che in materia di applicazione del tributo IVA sui corrispettivi dovuti dall’Amministrazione pubblica per prestazioni rese nell’ambito dei contratti in house, l’Agenzia delle Entrate ha espresso il proprio parere con la Risoluzione del 08/03/2007 n. 37.

L’Agenzia ha posto in evidenza che il soggetto in house, struttura giuridicamente distinta dall’ente che la controlla, è costituito nella forma giuridica di società e, conseguentemente, agli effetti dell’IVA, si configura quale soggetto passivo del tributo, ai sensi dell’articolo 4, secondo comma, n. 1), del DPR 26 ottobre 1972, n. 633 secondo cui " Si considerano in ogni caso effettuate nell’esercizio di imprese: 1) le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte dalle società ...".

Pertanto, “non può essere esteso alla società istante la disposizione recata dall’articolo 4, quarto comma, del DPR 26 ottobre 1972, n. 633, secondo cui per gli enti non commerciali, ivi compresi quelli pubblici, si considerano effettuate nell’esercizio di imprese soltanto le cessioni di beni e le prestazioni di servizi rese nell’esercizio di attività commerciali. La disposizione menzionata, infatti, esclude dall’applicazione dell’IVA gli enti non commerciali relativamente allo svolgimento di alcune attività per il peculiare "status giuridico" da essi posseduto, che non può essere trasferito in capo a soggetti diversi, quali le società commerciali, aventi una personalità giuridica distinta dall’ente da cui promana. Per quanto concerne il requisito oggettivo, l’articolo 3, primo comma, del citato DPR n. 633, del 1972, prevede, tra l’altro, che costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da rapporti contrattuali. Nel caso in esame, posto che tra le parti intercorre un rapporto giuridico sinallagmatico nel quale il corrispettivo ricevuto dalla società costituisce il compenso per il servizio effettuato, viene soddisfatto anche il requisito oggettivo richiesto dal citato articolo 3”.

In conclusione, ricorrendo nella fattispecie in esame sia il presupposto soggettivo sia quello oggettivo per l’applicazione del tributo, la società, anche se opera nella veste di società "in house", deve assoggettare ad IVA i proventi ad essa corrisposti dall’Amministrazione affidante quale corrispettivo per l’attività di gestione dei servizi informatici e telematici.