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Ambito di applicazione del modello organizzativo dell’in house providing

Introduzione

All’espressione organizzazione amministrativa si attribuiscono due significati distinti: con essa, infatti, si indicano sia il complesso delle strutture che svolgono attività di pubblica amministrazione, sia l’esercizio della funzione organizzativa dei pubblici poteri.

Nella prima accezione l’organizzazione è concepita come un apparato, in termini meramente soggettivi; nella seconda, invece, vengono in evidenza i caratteri funzionali, sulla base di una impostazione di tipo oggettivo.

Le strutture organizzative condizionano la realizzazione degli interessi alla tutela dei quali sono preordinate, assumendo una posizione attiva nel processo di soddisfazione dei fini pubblici, sino a giungere a indirizzare l’azione amministrativa, ovvero, l’adozione di uno specifico regime organizzativo condiziona l’esercizio dell’attività amministrativa.

Di recente, in conseguenza dell’espansione delle forme e delle modalità di intervento dei pubblici poteri, si assiste, sempre più di frequente, al ricorso a formule organizzative non tradizionali.

Sebbene l’organizzazione pubblica si articoli in una pluralità di modelli e tipi, oggi i modelli strutturali prevalenti sono quattro: quello del ministero, quello dell’ente pubblico, quello dell’autorità indipendente e quello del soggetto privato controllato.

A partire dalla legge di riforma del 1993, n. 29, il legislatore, consapevole dello stretto rapporto che deve intercorrere tra riorganizzazione delle amministrazioni centrali e analisi delle funzioni, ha varato un disegno di semplificazione, che investe in toto l’organizzazione dell’amministrazione statale, teso a conseguire la sburocratizzazione dell’organizzazione e dell’azione amministrativa, per realizzare un modello di apparato agile e flessibile, in grado di garantire la realizzazione degli obiettivi programmati attraverso strumenti operativi che ne assicurino celermente, efficacemente ed economicamente l’attuazione.

Si è delineato, pertanto, un nuovo assetto dell’organizzazione ministeriale, muovendo in tre diverse direzioni: riduzione degli apparati ministeriali; istituzione di agenzie, con funzioni tecnico-operative; concentrazione degli uffici periferici.

Relativamente agli altri modelli strutturali deve osservarsi che quello dell’ente pubblico è in via di dispersione, perché è destinato a svuotarsi per effetto delle privatizzazioni; quello delle autorità indipendenti si sta rafforzando; quello del soggetto privato in controllo pubblico tende ad ampliarsi.

Organismi societari

Il modello organizzativo societario di diritto comune si è diffuso in diversi settori dell’amministrazione centrale e locale, soppiantando aziende ed enti pubblici, anche economici, introducendo nel settore pubblico logiche di flessibilità organizzative e funzionali idonee a far fronte ad un ambiente dinamico, in continua trasformazione, influenzato da multiforme sviluppo sociale, economico e tecnologico.

Come si è accennato, varie leggi hanno previsto numerose privatizzazioni in senso giuridico (c.d. formali o tecniche), cioè trasformazioni di enti pubblici in forme organizzative tipiche del diritto privato, soprattutto in società per azioni ed in fondazioni. In particolare, sono stati trasformati in s.p.a. i principali enti pubblici economici (IRI, ENI, INA, ENEL). Obiettivo ultimo dell’operazione di privatizzazione era quello della cessione ai privati delle imprese in questione attraverso la dismissione delle azioni, ovvero la privatizzazione in senso giuridico (c.d. sostanziale).

Altre leggi hanno invece previsto la istituzione di società per azioni da parte dello Stato per lo svolgimento in via ordinaria di attività di interesse pubblico.

Peraltro, l’art.1, c.1-ter, LPA contempla l’ipotesi che dei soggetti privati possano essere preposti all’esercizio di attività amministrative.

Il risultato che si vuole in questi casi conseguire con l’uso di forme organizzative privatistiche è la sottrazione di tutti gli atti al regime di diritto amministrativo: gli atti mediante i quali si perseguono le finalità della società nonché quelli con funzioni strumentali di tipo organizzativo quali provvista e gestione del personale, dei beni e del denaro.

Poi, agli atti inerenti al rapporto di strumentalità dell’apparato con i pubblici poteri (direttive, nomine di titolari degli organi, ecc.), si vogliono sostituire gli atti di diritto privato costituenti esercizio dei poteri dell’azionista (deliberazioni dell’assemblea e degli organi amministrativi della società). Infine, si vuole l’esclusione dei controlli previsti per le gestioni pubbliche e la tutela giurisdizionale del giudice amministrativo, sostituita da quella offerta dal giudice ordinario.

Il modello dell’amministrazione “indiretta” dell’ in house providing

L’ordinamento comunitario ammette, quale espressione dei poteri di auto-organizzazione delle pubbliche amministrazioni, la possibilità dell’affidamento diretto, cioè senza gara pubblica, a società, dotate di propria personalità giuridica, controllate dalla stessa pubblica amministrazione. Queste società, pur appartenenti all’organizzazione amministrativa che fa loro capo, non costituiscono necessariamente un’articolazione interna della stessa; si verifica, sostanzialmente, una sorta di amministrazione indiretta, nella quale la gestione di un servizio resta saldamente nelle mani dell’ente concedente, attraverso un controllo assoluto sull’attività della società affidataria la quale, a sua volta, è istituzionalmente destinata in modo assorbente a operazioni in favore di questo .

La società, quindi, è terza perché dotata di personalità giuridica, ma lo è solo formalmente perché nella sostanza dipende integralmente dall’amministrazione in una forma di subordinazione gerarchica.

In sostanza, l’in house providing evidenzia un modello di organizzazione in cui la pubblica amministrazione provvede al perseguimento dell’interesse pubblico o alle risorse ad essa necessarie mediante lo svolgimento di un’attività interna. Questo modello è contrapposto al modello di outsourcing (o contracting out) in cui, invece, l’amministrazione si rivolge al privato esternalizzando l’esercizio dell’attività amministrativa ovvero la produzione ed il reperimento delle risorse necessarie al suo svolgimento.

L’espressione in house contract è stata per la prima volta utilizzata, in ambito comunitario, nella Comunicazione della Commissione (98) 143, Libro Bianco sugli appalti pubblici nell’Unione Europea. In tale documento, successivo al Libro Verde sulla stessa materia presentato nel 1996, la Commissione definisce gli in house contracts come “contratti aggiudicati all’interno della pubblica amministrazione, ad esempio tra un’amministrazione centrale e le amministrazioni locali ovvero tra un’amministrazione ed una società da questa interamente controllata”.

La controversa figura degli affidamenti in house è stata successivamente sviluppata dalla Corte di Giustizia, la quale ha dato un decisivo contributo alla definizione dell’istituto.

In proposito, la Corte lussemburghese (sentenza Teckal del 18.11.1999 in causa C-107/98) ha affermato il principio secondo il quale le amministrazioni possono scegliere di non esternalizzare e di rivolgersi all’interno della propria organizzazione, verso soggetti che, in virtù di un rapporto di delegazione interorganica con l’amministrazione aggiudicatrice, non escono dalla sfera amministrativa di essa.

A ben vedere, ad un esame dell’ordinamento giuridico comunitario non è ravvisabile un obbligo a carico della pubblica amministrazione di rivolgersi al mercato per il soddisfacimento dei propri bisogni (outsourcing). I principi a tutela della concorrenza che sono alla base del mercato comune dell’Unione, in altre parole, non impongono alle amministrazioni aggiudicatrici un obbligo di esternalizzazione.

La scelta tra rivolgersi all’esterno o autoprodurre, attraverso una delegazione interorganica, è quindi rimessa all’amministrazione, la quale, nel determinarsi in un senso piuttosto che nell’altro, incontrerà i soli limiti di diritto interno, tra i quali, oltre alle norme generali e astratte, i principi che regolano le scelte discrezionali di ogni amministrazione pubblica quali, in modo particolare, quelli di efficienza, efficacia ed economicità.

La giurisprudenza comunitaria sull’in house providing rappresenta, pertanto, un tentativo di armonizzazione dei principi a tutela della concorrenza stabiliti nel Trattato, con il potere di auto-organizzazione, riconosciuto alle amministrazioni pubbliche degli Stati membri.

La giurisprudenza comunitaria ha elaborato tre criteri cumulativi atti a giustificare la sottrazione di un servizio all’ambito di operatività delle regole dell’evidenza pubblica: la totale partecipazione pubblica, la circostanza che l’affidamento abbia luogo in favore di soggetti che, sebbene giuridicamente distinti dall’amministrazione affidante, costituiscano elementi del sistema che a tale amministrazione fanno capo essendo soggetti a controllo analogo e il fatto che le società svolgano la parte più importante della propria attività in favore dell’amministrazione che le controlla.

Sulla questione, il Consiglio di Stato, con l’ordinanza n. 2316 del 22.4.2004, V Sez., con la quale ha sospeso il giudizio e rimesso gli atti alla Corte di Giustizia, ha espresso l’avviso che l’amministrazione deve esercitare sulla società controllata un assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, che non possiede alcuna autonomia decisionale in relazione ai più importanti atti di gestione e che, in concreto, costituisce parte della stessa amministrazione, con la quale deve trovarsi in una condizione di dipendenza finanziaria ed organizzativa.

Qualora la società sia attributaria di attività funzionalizzate alla cura di un interesse pubblico, l’esistenza di una pubblica funzione implica una valutazione normativa di rilevanza di un certo interesse, che viene tutelato attraverso l’attribuzione normativa di poteri . In materia, infatti, l’art. 97 della Costituzione ha stabilito che l’unica fonte istitutiva di competenze e potestà è la legge.

Quale applicazione della disposizione Costituzionale, l’articolo 4, legge n. 70 del 1975, afferma che nessun nuovo soggetto pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge.

La indicata normativa esprime, quindi, il principio secondo cui spetta all’ordinamento generale individuare le soggettività che operano per realizzare una funzione di rilevanza pubblica.

In merito alla disciplina dell’istituto in argomento, si rileva che la direttiva 2004/18/CE non prevede l’istituto del rapporto in house. A ciò deve aggiungersi che nel corso dei lavori preparatori del d.lgs. n. 163/2006 (codice appalti) è stata eliminata una disposizione in materia di società in house nei settori ordinari.

Al momento, pertanto, per quanto riguarda il diritto interno, la figura dell’affidamento in house ha trovato positivizzazione con il d.l. n. 269/2003, convertito dalla legge n. 326/2003, il quale ha modificato l’articolo 113 del T.u.e.l. e fa riferimento all’affidamento diretto, a livello locale, limitatamente in materia di servizi pubblici; nonché con l’articolo 13 del d.l. n. 223/2006, convertito dalla legge n. 248/2006, volto a disciplinare a livello regionale e locale l’affidamento diretto della produzione di beni e servizi strumentali e, nei casi consentiti dalla legge, di funzioni amministrative, sebbene le espressioni in house o affidamento interno non siano presenti.

Requisiti di legittimità

Come si è accennato, le società in house sono quelle con capitale interamente pubblico, sulle quali l’amministrazione/i titolare/i del capitale esercitano un controllo analogo a quello esercitato su un proprio servizio e che realizzano la parte più importante della loro attività con quest’ultimi.

Relativamente al requisito della totale partecipazione pubblica, la Corte di Giustizia (C-26/03, sentenza Stadt Halle dell’11 gennaio 2005) ha stabilito che la partecipazione seppure minoritaria di una impresa privata esclude in ogni caso che l’amministrazione aggiudicatrice possa esercitare sulla società partecipata un controllo analogo a quello che la stessa esercita sui propri servizi. La presenza di un terzo privato presuppone sempre da parte della pubblica amministrazione un minimo di considerazione dei suoi interessi economici e questo potrebbe ostacolarla nella concreta realizzazione dell’interesse pubblico. Non sembra che possa essere data eccessiva rilevanza alla selezione del socio privato attraverso gara, atteso che per i giudici comunitari è la commistione tra pubblico e privato che esclude in radice la possibilità di affidamento diretto. Esistono, però, isolati diversi indirizzi giurisprudenziali nazionali: si è affermato, infatti, che se il socio è scelto mediante gara, i soli servizi conformi allo scopo originario della società mista possono essere affidati direttamente alla società; la mancata osservanza della procedura concorsuale nell’affidamento del servizio è compensata dal rispetto di una procedura di evidenza pubblica per la scelta del socio privato. Altrimenti opinando, la costituzione da parte degli enti locali di società per azioni a capitale misto al precipuo scopo di affidare loro i servizi pubblici di propria competenza non avrebbe alcuna pratica utilità, mentre la procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento dei singoli servizi costituirebbe un’inutile duplicazione di un procedimento già esperito . A livello normativo, gli affidamenti diretti alle società miste sono consentiti dal citato d.l. n. 223/2006 (c.d. decreto Bersani), convertito dalla legge n. 248/2006, purché siano rispettate le condizioni dettate all’articolo 13, tese a porre un limite all’attività delle società costituite dagli enti locali. Il decreto legge Bersani dispone che le società strumentali di Regioni ed enti locali debbono operare esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti; non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara; non possono partecipare ad altre società o enti. Al fine di superare eventuali obiezioni in sede comunitaria, la disposizione statale ha concepito le società in house come società fuori mercato, in ordine alle quali non possono prodursi interessi privati in conflitto con quelli pubblici: dette società, infatti, non hanno collegamenti con il mercato, né in termini di partecipazioni, né in termini di prestazioni, peraltro imponendo l’osservanza dell’esclusività in luogo del criterio comunitario della prevalenza dell’attività con l’autorità o le autorità pubbliche controllanti.

Per quanto concerne il predetto criterio della prevalenza dell’attività di una società con l’ente pubblico che la detiene, l’articolo 113, comma 5, lettera c), del T.U.E.L. (d. lgs. n. 267/2000), non indica la misura di detta prevalenza. Il requisito della prevalenza dell’attività sta a significare che la società partecipata non è attiva sul mercato, in concorrenza con altri soggetti economici, rivolgendo in via esclusiva le sue prestazioni all’ente partecipante; attività diverse da quella principale devono essere di carattere marginale.

Il requisito del controllo analogo ha particolarmente affannato dottrina e giurisprudenza: sia a livello comunitario, che a quello nazionale, le istituzioni sono intervenute assegnando un significato pregnante al requisito.

a) Criteri di individuazione dei requisiti del controllo analogo (giurisprudenza comunitaria)

In merito al requisito che in concreto deve assumere il controllo analogo, la Commissione Europea con la comunicazione 26 giugno 2002, diretta al Governo italiano per sollecitare le modificazioni all’art. 113 del Testo Unico degli Enti Locali, come modificato dall’art. 35 l. n. 448/2001, nell’ambito della procedura di infrazione comunitaria aperta per contrasto della disposizione con la normativa e i principi comunitari in materia di appalti e di concorrenza, ha escluso che la sola partecipazione totalitaria dell’amministrazione aggiudicatrice nella società aggiudicataria del servizio possa garantire la situazione di dipendenza organica che normalmente si realizza nell’organizzazione burocratica di una pubblica amministrazione e quindi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.

Sempre nella stessa nota, l’Istituzione Europea ha precisato, infatti, che “affinché tale tipo di controllo sussista non è sufficiente il semplice esercizio degli strumenti di cui dispone il socio di maggioranza secondo le regole proprie del diritto societario”(punto 34). La Commissione ritiene che per aversi controllo analogo occorre verificare che l’amministrazione controllante eserciti “un assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato e che riguarda l’insieme dei più importanti atti di gestione del medesimo”.

Detto avviso è stato in seguito ribadito dalla Corte di Giustizia, con la sentenza 11.1.2005 C. 26/2003 (Stadt Halle), che ha escluso il controllo analogo qualora nella società aggiudicataria del servizio una o più imprese private detengano una partecipazione anche minoritaria insieme con l’amministrazione aggiudicatrice.

b) Criteri di individuazione dei requisiti del controllo analogo (giurisprudenza italiana)

Il Consiglio di Stato, sez VI, n. 168/2005 ha ritenuto che il rapporto di controllo analogo è perfezionato allorquando tra amministrazione aggiudicatrice e società aggiudicataria sussista “un rapporto equivalente, ai fini degli effetti pratici, ad una relazione di subordinazione gerarchica; tale situazione si verifica quando sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico sull’ente societario.

In definitiva, ai sensi della giurisprudenza nazionale, il controllo analogo sulla società pubblica affidataria del servizio può ritenersi garantito dalla previsione espressa nell’atto costitutivo e nello statuto della società di stringenti poteri di controllo finanziario e gestionale a favore dell’amministrazione aggiudicatrice. Il controllo deve riguardare le attività fondamentali e di straordinaria amministrazione, il perseguimento degli obiettivi di interesse pubblico assegnati nonchè gli organi della società.

In pratica, a mente della Circolare del Presidente della Giunta Regionale Piemonte del 3 ottobre 2005, n. 4/AMB, tale tipo di controllo si esplicita, in via esemplificativa:

1. nell’obbligo di trasmissione e di preventiva approvazione dei documenti di programmazione e del piano industriale; nella facoltà di modifica degli schemi tipo di contratto di servizio; nel potere di verifica dello stato di attuazione degli obiettivi assegnati anche sotto il profilo della efficacia, efficienza ed economicità.

2. nell’approvazione da parte dell’amministrazione delle deliberazioni societarie di amministrazione straordinaria e degli atti fondamentali della gestione (il bilancio, la relazione programmatica, l’organigramma, il piano degli investimenti, il piano di sviluppo).

3. nella nomina e revoca di componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale della società da parte del soggetto controllante.

c) Differenti orientamenti giurisprudenziali

Si devono segnalare sul tema oscillazioni giurisprudenziali da parte della Corte di Giustizia e dei giudici nazionali, che hanno dato luogo a nuovi orientamenti, individuando in modo diverso i requisiti del controllo analogo.

Su tale criterio si è soffermato l’Avvocato Generale J. Kokott nelle conclusioni presentate nella causa C-458/03 del 1/3/2005. Nelle conclusioni si legge che il controllo della pubblica amministrazione sui propri servizi è caratterizzato in prevalenza da poteri di direzione e di vigilanza. All’interno dell’ente spetta di regola al dirigente il potere di impartire ordini ed istruzioni agli uffici subordinati. Con l’espressione “un controllo analogo”, la sentenza Teckal vuole invece sottolineare che i mezzi di influenza utilizzati su imprese pubbliche non sono necessariamente coincidenti con quelli utilizzati sui propri servizi, in quanto determinante “ ai fini dell’equiparazione di una impresa ad un servizio amministrativo….è piuttosto il fatto che all’interno di tale società l’amministrazione aggiudicatrice sia in qualunque momento concretamente in grado di realizzare pienamente gli obiettivi fissati nell’interesse pubblico….l’affermazione dell’interesse pubblico all’interno della società è garantita……già con gli strumenti del diritto societario e, in particolare, per mezzo della presenza all’interno degli organi societari del rappresentante nominato esclusivamente dalla pubblica amministrazione ”.

Deve, poi, evidenziarsi che il Consiglio di Stato, con sentenza n.7345/05 Sez. V, depositata in segreteria il 22 dicembre 2005, nello specificare i requisiti che in concreto deve assumere il controllo analogo ha cambiato il suo precedente orientamento. Il Supremo Consesso ha ritenuto, per esigenze fondamentali di logica interpretativa, che l’adozione nel diritto comunitario della figura societaria, come strumento alternativo alla prestazione diretta dei servizi pubblici, impone di risolvere il problema del controllo analogo secondo un criterio coerente con la peculiarità dell’istituto in questione. Se si effettua l’affidamento diretto ad una società, il servizio dovrà essere gestito da una persona giuridica separata e distinta dall’amministrazione aggiudicatrice, un ente, cioè, che determina la propria azione mediante gli organi di cui è dotato. Esclude, quindi, l’applicazione di un modulo che riproduca, tra amministrazione e società affidataria, quella forma di dipendenza che è tipica degli uffici interni all’ente.

Pertanto, per il Consiglio di Stato, l’ente pubblico, o gli enti pubblici, proprietari dell’intero pacchetto delle azioni, sia mediante la nomina degli organi, sia mediante l’approvazione di opportune deliberazioni, sono in condizione di imporre, o meglio, di svolgere, ogni tipo di verifica e di rendiconto, in modo che sia operante la sostanziale identificazione riscontrabile tra il soggetto societario agente e la mano pubblica che le affida il servizio. Il problema della sussistenza del controllo analogo si risolve in senso affermativo se la mano pubblica possiede il solo requisito della totalità del pacchetto azionario della società affidataria.

d) Ultimi interventi:in particolare, sentenza dell’11 maggio 2006, n. C-340/04

Recentemente, i giudici comunitari sono ritornati sul tema dell’affidamento diretto dei servizi pubblici. La Corte di Giustizia, evidentemente mossa dal bisogno di fissare dei paletti in materia di in house providing, in linea con quanto già stabilito nelle sentenze “Stadt Halle” e “Parking Brixen” (C-458/03 del 13/10/2005), nella sentenza n. C-410/04 del 6 aprile 2006 ha espresso l’avviso che le condizioni per l’affidamento diretto devono essere interpretate in modo restrittivo. I giudici, con la decisione in questione, non si discostano dal solco della propria consolidata giurisprudenza.

La Corte, con la successiva sentenza dell’11 maggio 2006, n.C-340/04, torna a ricondurre la nozione di controllo alla possibilità da parte dell’amministrazione affidante di esercitare una influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti della società partecipata, considerando elemento non sufficiente e decisivo la detenzione in mano pubblica dell’intero capitale sociale. In sostanza, il controllo dell’ente pubblico - proprio perché circoscritto all’esercizio dei semplici poteri riconosciuti dal diritto societario ai soci di maggioranza, senza alcuna previsione aggiuntiva a beneficio della pubblica amministrazione - non garantisce al soggetto affidante alcuna significativa influenza, anche in ragione dell’ampiezza dei poteri attribuiti al consiglio di amministrazione della società. In particolare, a tenore della sentenza in parola, il fatto che l’amministrazione eserciti la sua influenza sulla società affidataria per il tramite di una società holding può incidere negativamente sulla sussistenza del controllo analogo ai fini della legittimità di un affidamento in house. Trattandosi di un controllo esercitato in via indiretta, nessuna influenza significativa può essere esercitata dall’amministrazione aggiudicatrice sugli obiettivi strategici e sulle decisioni importanti dell’affidataria.

In definitiva gli strumenti del diritto privato, essendo basati su una sostanziale autonomia gestionale del management, da soli non assicurano quella rispondenza dell’operato del Consiglio d’amministrazione all’interesse del socio che è invece necessaria perché si possa ritenere che questa società non abbia nessuna autonomia sostanziale, restando soltanto una propaggine organizzativa non distinguibile dell’ente pubblico.

Il controllo analogo evocato dalla Corte di giustizia va quindi parametrato rispetto a quello effettuato sugli organi delle pubbliche amministrazioni ricavabile dal d.lgs. 165/2001 (T.U. sul pubblico impiego), oltre che dal d.lgs. 267/2000 (TUEL). Con la privatizzazione è stato ridimensionato il vincolo di subordinazione gerarchica tra gli organi di indirizzo politico e gli organi di gestione amministrativa, per cui è stato eliminato il potere di ordine così come quello di revoca, di avocazione e di decisione dei ricorsi gerarchici. Sono stati invece mantenuti poteri compatibili con una relazione di indirizzo e di coordinamento e permane in via residuale il potere di annullamento degli atti per vizi di legittimità così come un potere di sostituzione in ipotesi delimitate.

Conclusioni

Non tutti gli obiettivi perseguiti con l’adozione delle forme organizzative privatistiche sono stati ritenuti sempre ammissibili alla luce del diritto costituzionale e del diritto comunitario.

Infatti, la Corte Costituzionale ha ritenuto il controllo della Corte dei conti (art. 12 L. 259/58) esercitatile anche nei confronti delle S.p.A. a partecipazione pubblica esclusiva o prevalente; inoltre, le controversie relative alla responsabilità per danni arrecati dai dipendenti di dette società ricadono nella speciale giurisdizione della stessa Corte dei conti, venendo in rilievo la qualificazione oggettivamente pubblica delle risorse finanziarie gestite. Se poi tali società rientrano nella categoria, di origine comunitaria, degli organismi di diritto pubblico devono essere applicate in materia di appalti le regole dell’evidenza pubblica e le relative controversie ricadono nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Infine, per il combinato disposto dell’art. 22, comma 1, lettera d, LPA e dell’art. 22, comma 1, lettera e, CAD, sono obbligati a consentire l’accesso a documenti in loro possesso anche i privati che svolgono un’attività disciplinata dal diritto nazionale o comunitario, in quanto di pubblico interesse, limitatamente a detta attività.

Alla luce di quanto appena osservato e se, come precedentemente visto, la Corte di Giustizia tende, con una operazione di interpretazione restrittiva delle condizioni per un affidamento diretto, a burocratizzare il modello in house, quest’ultimo viene a perdere di utilità, in quanto la società non avrebbe margine di autonomia decisionale e gestionale rispetto all’ente che la costituisce e la possiede, realizzandosi così una fattispecie non rinvenibile nemmeno nelle aziende speciali. Introduzione

All’espressione organizzazione amministrativa si attribuiscono due significati distinti: con essa, infatti, si indicano sia il complesso delle strutture che svolgono attività di pubblica amministrazione, sia l’esercizio della funzione organizzativa dei pubblici poteri.

Nella prima accezione l’organizzazione è concepita come un apparato, in termini meramente soggettivi; nella seconda, invece, vengono in evidenza i caratteri funzionali, sulla base di una impostazione di tipo oggettivo.

Le strutture organizzative condizionano la realizzazione degli interessi alla tutela dei quali sono preordinate, assumendo una posizione attiva nel processo di soddisfazione dei fini pubblici, sino a giungere a indirizzare l’azione amministrativa, ovvero, l’adozione di uno specifico regime organizzativo condiziona l’esercizio dell’attività amministrativa.

Di recente, in conseguenza dell’espansione delle forme e delle modalità di intervento dei pubblici poteri, si assiste, sempre più di frequente, al ricorso a formule organizzative non tradizionali.

Sebbene l’organizzazione pubblica si articoli in una pluralità di modelli e tipi, oggi i modelli strutturali prevalenti sono quattro: quello del ministero, quello dell’ente pubblico, quello dell’autorità indipendente e quello del soggetto privato controllato.

A partire dalla legge di riforma del 1993, n. 29, il legislatore, consapevole dello stretto rapporto che deve intercorrere tra riorganizzazione delle amministrazioni centrali e analisi delle funzioni, ha varato un disegno di semplificazione, che investe in toto l’organizzazione dell’amministrazione statale, teso a conseguire la sburocratizzazione dell’organizzazione e dell’azione amministrativa, per realizzare un modello di apparato agile e flessibile, in grado di garantire la realizzazione degli obiettivi programmati attraverso strumenti operativi che ne assicurino celermente, efficacemente ed economicamente l’attuazione.

Si è delineato, pertanto, un nuovo assetto dell’organizzazione ministeriale, muovendo in tre diverse direzioni: riduzione degli apparati ministeriali; istituzione di agenzie, con funzioni tecnico-operative; concentrazione degli uffici periferici.

Relativamente agli altri modelli strutturali deve osservarsi che quello dell’ente pubblico è in via di dispersione, perché è destinato a svuotarsi per effetto delle privatizzazioni; quello delle autorità indipendenti si sta rafforzando; quello del soggetto privato in controllo pubblico tende ad ampliarsi.

Organismi societari

Il modello organizzativo societario di diritto comune si è diffuso in diversi settori dell’amministrazione centrale e locale, soppiantando aziende ed enti pubblici, anche economici, introducendo nel settore pubblico logiche di flessibilità organizzative e funzionali idonee a far fronte ad un ambiente dinamico, in continua trasformazione, influenzato da multiforme sviluppo sociale, economico e tecnologico.

Come si è accennato, varie leggi hanno previsto numerose privatizzazioni in senso giuridico (c.d. formali o tecniche), cioè trasformazioni di enti pubblici in forme organizzative tipiche del diritto privato, soprattutto in società per azioni ed in fondazioni. In particolare, sono stati trasformati in s.p.a. i principali enti pubblici economici (IRI, ENI, INA, ENEL). Obiettivo ultimo dell’operazione di privatizzazione era quello della cessione ai privati delle imprese in questione attraverso la dismissione delle azioni, ovvero la privatizzazione in senso giuridico (c.d. sostanziale).

Altre leggi hanno invece previsto la istituzione di società per azioni da parte dello Stato per lo svolgimento in via ordinaria di attività di interesse pubblico.

Peraltro, l’art.1, c.1-ter, LPA contempla l’ipotesi che dei soggetti privati possano essere preposti all’esercizio di attività amministrative.

Il risultato che si vuole in questi casi conseguire con l’uso di forme organizzative privatistiche è la sottrazione di tutti gli atti al regime di diritto amministrativo: gli atti mediante i quali si perseguono le finalità della società nonché quelli con funzioni strumentali di tipo organizzativo quali provvista e gestione del personale, dei beni e del denaro.

Poi, agli atti inerenti al rapporto di strumentalità dell’apparato con i pubblici poteri (direttive, nomine di titolari degli organi, ecc.), si vogliono sostituire gli atti di diritto privato costituenti esercizio dei poteri dell’azionista (deliberazioni dell’assemblea e degli organi amministrativi della società). Infine, si vuole l’esclusione dei controlli previsti per le gestioni pubbliche e la tutela giurisdizionale del giudice amministrativo, sostituita da quella offerta dal giudice ordinario.

Il modello dell’amministrazione “indiretta” dell’ in house providing

L’ordinamento comunitario ammette, quale espressione dei poteri di auto-organizzazione delle pubbliche amministrazioni, la possibilità dell’affidamento diretto, cioè senza gara pubblica, a società, dotate di propria personalità giuridica, controllate dalla stessa pubblica amministrazione. Queste società, pur appartenenti all’organizzazione amministrativa che fa loro capo, non costituiscono necessariamente un’articolazione interna della stessa; si verifica, sostanzialmente, una sorta di amministrazione indiretta, nella quale la gestione di un servizio resta saldamente nelle mani dell’ente concedente, attraverso un controllo assoluto sull’attività della società affidataria la quale, a sua volta, è istituzionalmente destinata in modo assorbente a operazioni in favore di questo .

La società, quindi, è terza perché dotata di personalità giuridica, ma lo è solo formalmente perché nella sostanza dipende integralmente dall’amministrazione in una forma di subordinazione gerarchica.

In sostanza, l’in house providing evidenzia un modello di organizzazione in cui la pubblica amministrazione provvede al perseguimento dell’interesse pubblico o alle risorse ad essa necessarie mediante lo svolgimento di un’attività interna. Questo modello è contrapposto al modello di outsourcing (o contracting out) in cui, invece, l’amministrazione si rivolge al privato esternalizzando l’esercizio dell’attività amministrativa ovvero la produzione ed il reperimento delle risorse necessarie al suo svolgimento.

L’espressione in house contract è stata per la prima volta utilizzata, in ambito comunitario, nella Comunicazione della Commissione (98) 143, Libro Bianco sugli appalti pubblici nell’Unione Europea. In tale documento, successivo al Libro Verde sulla stessa materia presentato nel 1996, la Commissione definisce gli in house contracts come “contratti aggiudicati all’interno della pubblica amministrazione, ad esempio tra un’amministrazione centrale e le amministrazioni locali ovvero tra un’amministrazione ed una società da questa interamente controllata”.

La controversa figura degli affidamenti in house è stata successivamente sviluppata dalla Corte di Giustizia, la quale ha dato un decisivo contributo alla definizione dell’istituto.

In proposito, la Corte lussemburghese (sentenza Teckal del 18.11.1999 in causa C-107/98) ha affermato il principio secondo il quale le amministrazioni possono scegliere di non esternalizzare e di rivolgersi all’interno della propria organizzazione, verso soggetti che, in virtù di un rapporto di delegazione interorganica con l’amministrazione aggiudicatrice, non escono dalla sfera amministrativa di essa.

A ben vedere, ad un esame dell’ordinamento giuridico comunitario non è ravvisabile un obbligo a carico della pubblica amministrazione di rivolgersi al mercato per il soddisfacimento dei propri bisogni (outsourcing). I principi a tutela della concorrenza che sono alla base del mercato comune dell’Unione, in altre parole, non impongono alle amministrazioni aggiudicatrici un obbligo di esternalizzazione.

La scelta tra rivolgersi all’esterno o autoprodurre, attraverso una delegazione interorganica, è quindi rimessa all’amministrazione, la quale, nel determinarsi in un senso piuttosto che nell’altro, incontrerà i soli limiti di diritto interno, tra i quali, oltre alle norme generali e astratte, i principi che regolano le scelte discrezionali di ogni amministrazione pubblica quali, in modo particolare, quelli di efficienza, efficacia ed economicità.

La giurisprudenza comunitaria sull’in house providing rappresenta, pertanto, un tentativo di armonizzazione dei principi a tutela della concorrenza stabiliti nel Trattato, con il potere di auto-organizzazione, riconosciuto alle amministrazioni pubbliche degli Stati membri.

La giurisprudenza comunitaria ha elaborato tre criteri cumulativi atti a giustificare la sottrazione di un servizio all’ambito di operatività delle regole dell’evidenza pubblica: la totale partecipazione pubblica, la circostanza che l’affidamento abbia luogo in favore di soggetti che, sebbene giuridicamente distinti dall’amministrazione affidante, costituiscano elementi del sistema che a tale amministrazione fanno capo essendo soggetti a controllo analogo e il fatto che le società svolgano la parte più importante della propria attività in favore dell’amministrazione che le controlla.

Sulla questione, il Consiglio di Stato, con l’ordinanza n. 2316 del 22.4.2004, V Sez., con la quale ha sospeso il giudizio e rimesso gli atti alla Corte di Giustizia, ha espresso l’avviso che l’amministrazione deve esercitare sulla società controllata un assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato, che non possiede alcuna autonomia decisionale in relazione ai più importanti atti di gestione e che, in concreto, costituisce parte della stessa amministrazione, con la quale deve trovarsi in una condizione di dipendenza finanziaria ed organizzativa.

Qualora la società sia attributaria di attività funzionalizzate alla cura di un interesse pubblico, l’esistenza di una pubblica funzione implica una valutazione normativa di rilevanza di un certo interesse, che viene tutelato attraverso l’attribuzione normativa di poteri . In materia, infatti, l’art. 97 della Costituzione ha stabilito che l’unica fonte istitutiva di competenze e potestà è la legge.

Quale applicazione della disposizione Costituzionale, l’articolo 4, legge n. 70 del 1975, afferma che nessun nuovo soggetto pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge.

La indicata normativa esprime, quindi, il principio secondo cui spetta all’ordinamento generale individuare le soggettività che operano per realizzare una funzione di rilevanza pubblica.

In merito alla disciplina dell’istituto in argomento, si rileva che la direttiva 2004/18/CE non prevede l’istituto del rapporto in house. A ciò deve aggiungersi che nel corso dei lavori preparatori del d.lgs. n. 163/2006 (codice appalti) è stata eliminata una disposizione in materia di società in house nei settori ordinari.

Al momento, pertanto, per quanto riguarda il diritto interno, la figura dell’affidamento in house ha trovato positivizzazione con il d.l. n. 269/2003, convertito dalla legge n. 326/2003, il quale ha modificato l’articolo 113 del T.u.e.l. e fa riferimento all’affidamento diretto, a livello locale, limitatamente in materia di servizi pubblici; nonché con l’articolo 13 del d.l. n. 223/2006, convertito dalla legge n. 248/2006, volto a disciplinare a livello regionale e locale l’affidamento diretto della produzione di beni e servizi strumentali e, nei casi consentiti dalla legge, di funzioni amministrative, sebbene le espressioni in house o affidamento interno non siano presenti.

Requisiti di legittimità

Come si è accennato, le società in house sono quelle con capitale interamente pubblico, sulle quali l’amministrazione/i titolare/i del capitale esercitano un controllo analogo a quello esercitato su un proprio servizio e che realizzano la parte più importante della loro attività con quest’ultimi.

Relativamente al requisito della totale partecipazione pubblica, la Corte di Giustizia (C-26/03, sentenza Stadt Halle dell’11 gennaio 2005) ha stabilito che la partecipazione seppure minoritaria di una impresa privata esclude in ogni caso che l’amministrazione aggiudicatrice possa esercitare sulla società partecipata un controllo analogo a quello che la stessa esercita sui propri servizi. La presenza di un terzo privato presuppone sempre da parte della pubblica amministrazione un minimo di considerazione dei suoi interessi economici e questo potrebbe ostacolarla nella concreta realizzazione dell’interesse pubblico. Non sembra che possa essere data eccessiva rilevanza alla selezione del socio privato attraverso gara, atteso che per i giudici comunitari è la commistione tra pubblico e privato che esclude in radice la possibilità di affidamento diretto. Esistono, però, isolati diversi indirizzi giurisprudenziali nazionali: si è affermato, infatti, che se il socio è scelto mediante gara, i soli servizi conformi allo scopo originario della società mista possono essere affidati direttamente alla società; la mancata osservanza della procedura concorsuale nell’affidamento del servizio è compensata dal rispetto di una procedura di evidenza pubblica per la scelta del socio privato. Altrimenti opinando, la costituzione da parte degli enti locali di società per azioni a capitale misto al precipuo scopo di affidare loro i servizi pubblici di propria competenza non avrebbe alcuna pratica utilità, mentre la procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento dei singoli servizi costituirebbe un’inutile duplicazione di un procedimento già esperito . A livello normativo, gli affidamenti diretti alle società miste sono consentiti dal citato d.l. n. 223/2006 (c.d. decreto Bersani), convertito dalla legge n. 248/2006, purché siano rispettate le condizioni dettate all’articolo 13, tese a porre un limite all’attività delle società costituite dagli enti locali. Il decreto legge Bersani dispone che le società strumentali di Regioni ed enti locali debbono operare esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti; non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara; non possono partecipare ad altre società o enti. Al fine di superare eventuali obiezioni in sede comunitaria, la disposizione statale ha concepito le società in house come società fuori mercato, in ordine alle quali non possono prodursi interessi privati in conflitto con quelli pubblici: dette società, infatti, non hanno collegamenti con il mercato, né in termini di partecipazioni, né in termini di prestazioni, peraltro imponendo l’osservanza dell’esclusività in luogo del criterio comunitario della prevalenza dell’attività con l’autorità o le autorità pubbliche controllanti.

Per quanto concerne il predetto criterio della prevalenza dell’attività di una società con l’ente pubblico che la detiene, l’articolo 113, comma 5, lettera c), del T.U.E.L. (d. lgs. n. 267/2000), non indica la misura di detta prevalenza. Il requisito della prevalenza dell’attività sta a significare che la società partecipata non è attiva sul mercato, in concorrenza con altri soggetti economici, rivolgendo in via esclusiva le sue prestazioni all’ente partecipante; attività diverse da quella principale devono essere di carattere marginale.

Il requisito del controllo analogo ha particolarmente affannato dottrina e giurisprudenza: sia a livello comunitario, che a quello nazionale, le istituzioni sono intervenute assegnando un significato pregnante al requisito.

a) Criteri di individuazione dei requisiti del controllo analogo (giurisprudenza comunitaria)

In merito al requisito che in concreto deve assumere il controllo analogo, la Commissione Europea con la comunicazione 26 giugno 2002, diretta al Governo italiano per sollecitare le modificazioni all’art. 113 del Testo Unico degli Enti Locali, come modificato dall’art. 35 l. n. 448/2001, nell’ambito della procedura di infrazione comunitaria aperta per contrasto della disposizione con la normativa e i principi comunitari in materia di appalti e di concorrenza, ha escluso che la sola partecipazione totalitaria dell’amministrazione aggiudicatrice nella società aggiudicataria del servizio possa garantire la situazione di dipendenza organica che normalmente si realizza nell’organizzazione burocratica di una pubblica amministrazione e quindi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.

Sempre nella stessa nota, l’Istituzione Europea ha precisato, infatti, che “affinché tale tipo di controllo sussista non è sufficiente il semplice esercizio degli strumenti di cui dispone il socio di maggioranza secondo le regole proprie del diritto societario”(punto 34). La Commissione ritiene che per aversi controllo analogo occorre verificare che l’amministrazione controllante eserciti “un assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato e che riguarda l’insieme dei più importanti atti di gestione del medesimo”.

Detto avviso è stato in seguito ribadito dalla Corte di Giustizia, con la sentenza 11.1.2005 C. 26/2003 (Stadt Halle), che ha escluso il controllo analogo qualora nella società aggiudicataria del servizio una o più imprese private detengano una partecipazione anche minoritaria insieme con l’amministrazione aggiudicatrice.

b) Criteri di individuazione dei requisiti del controllo analogo (giurisprudenza italiana)

Il Consiglio di Stato, sez VI, n. 168/2005 ha ritenuto che il rapporto di controllo analogo è perfezionato allorquando tra amministrazione aggiudicatrice e società aggiudicataria sussista “un rapporto equivalente, ai fini degli effetti pratici, ad una relazione di subordinazione gerarchica; tale situazione si verifica quando sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico sull’ente societario.

In definitiva, ai sensi della giurisprudenza nazionale, il controllo analogo sulla società pubblica affidataria del servizio può ritenersi garantito dalla previsione espressa nell’atto costitutivo e nello statuto della società di stringenti poteri di controllo finanziario e gestionale a favore dell’amministrazione aggiudicatrice. Il controllo deve riguardare le attività fondamentali e di straordinaria amministrazione, il perseguimento degli obiettivi di interesse pubblico assegnati nonchè gli organi della società.

In pratica, a mente della Circolare del Presidente della Giunta Regionale Piemonte del 3 ottobre 2005, n. 4/AMB, tale tipo di controllo si esplicita, in via esemplificativa:

1. nell’obbligo di trasmissione e di preventiva approvazione dei documenti di programmazione e del piano industriale; nella facoltà di modifica degli schemi tipo di contratto di servizio; nel potere di verifica dello stato di attuazione degli obiettivi assegnati anche sotto il profilo della efficacia, efficienza ed economicità.

2. nell’approvazione da parte dell’amministrazione delle deliberazioni societarie di amministrazione straordinaria e degli atti fondamentali della gestione (il bilancio, la relazione programmatica, l’organigramma, il piano degli investimenti, il piano di sviluppo).

3. nella nomina e revoca di componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale della società da parte del soggetto controllante.

c) Differenti orientamenti giurisprudenziali

Si devono segnalare sul tema oscillazioni giurisprudenziali da parte della Corte di Giustizia e dei giudici nazionali, che hanno dato luogo a nuovi orientamenti, individuando in modo diverso i requisiti del controllo analogo.

Su tale criterio si è soffermato l’Avvocato Generale J. Kokott nelle conclusioni presentate nella causa C-458/03 del 1/3/2005. Nelle conclusioni si legge che il controllo della pubblica amministrazione sui propri servizi è caratterizzato in prevalenza da poteri di direzione e di vigilanza. All’interno dell’ente spetta di regola al dirigente il potere di impartire ordini ed istruzioni agli uffici subordinati. Con l’espressione “un controllo analogo”, la sentenza Teckal vuole invece sottolineare che i mezzi di influenza utilizzati su imprese pubbliche non sono necessariamente coincidenti con quelli utilizzati sui propri servizi, in quanto determinante “ ai fini dell’equiparazione di una impresa ad un servizio amministrativo….è piuttosto il fatto che all’interno di tale società l’amministrazione aggiudicatrice sia in qualunque momento concretamente in grado di realizzare pienamente gli obiettivi fissati nell’interesse pubblico….l’affermazione dell’interesse pubblico all’interno della società è garantita……già con gli strumenti del diritto societario e, in particolare, per mezzo della presenza all’interno degli organi societari del rappresentante nominato esclusivamente dalla pubblica amministrazione ”.

Deve, poi, evidenziarsi che il Consiglio di Stato, con sentenza n.7345/05 Sez. V, depositata in segreteria il 22 dicembre 2005, nello specificare i requisiti che in concreto deve assumere il controllo analogo ha cambiato il suo precedente orientamento. Il Supremo Consesso ha ritenuto, per esigenze fondamentali di logica interpretativa, che l’adozione nel diritto comunitario della figura societaria, come strumento alternativo alla prestazione diretta dei servizi pubblici, impone di risolvere il problema del controllo analogo secondo un criterio coerente con la peculiarità dell’istituto in questione. Se si effettua l’affidamento diretto ad una società, il servizio dovrà essere gestito da una persona giuridica separata e distinta dall’amministrazione aggiudicatrice, un ente, cioè, che determina la propria azione mediante gli organi di cui è dotato. Esclude, quindi, l’applicazione di un modulo che riproduca, tra amministrazione e società affidataria, quella forma di dipendenza che è tipica degli uffici interni all’ente.

Pertanto, per il Consiglio di Stato, l’ente pubblico, o gli enti pubblici, proprietari dell’intero pacchetto delle azioni, sia mediante la nomina degli organi, sia mediante l’approvazione di opportune deliberazioni, sono in condizione di imporre, o meglio, di svolgere, ogni tipo di verifica e di rendiconto, in modo che sia operante la sostanziale identificazione riscontrabile tra il soggetto societario agente e la mano pubblica che le affida il servizio. Il problema della sussistenza del controllo analogo si risolve in senso affermativo se la mano pubblica possiede il solo requisito della totalità del pacchetto azionario della società affidataria.

d) Ultimi interventi:in particolare, sentenza dell’11 maggio 2006, n. C-340/04

Recentemente, i giudici comunitari sono ritornati sul tema dell’affidamento diretto dei servizi pubblici. La Corte di Giustizia, evidentemente mossa dal bisogno di fissare dei paletti in materia di in house providing, in linea con quanto già stabilito nelle sentenze “Stadt Halle” e “Parking Brixen” (C-458/03 del 13/10/2005), nella sentenza n. C-410/04 del 6 aprile 2006 ha espresso l’avviso che le condizioni per l’affidamento diretto devono essere interpretate in modo restrittivo. I giudici, con la decisione in questione, non si discostano dal solco della propria consolidata giurisprudenza.

La Corte, con la successiva sentenza dell’11 maggio 2006, n.C-340/04, torna a ricondurre la nozione di controllo alla possibilità da parte dell’amministrazione affidante di esercitare una influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti della società partecipata, considerando elemento non sufficiente e decisivo la detenzione in mano pubblica dell’intero capitale sociale. In sostanza, il controllo dell’ente pubblico - proprio perché circoscritto all’esercizio dei semplici poteri riconosciuti dal diritto societario ai soci di maggioranza, senza alcuna previsione aggiuntiva a beneficio della pubblica amministrazione - non garantisce al soggetto affidante alcuna significativa influenza, anche in ragione dell’ampiezza dei poteri attribuiti al consiglio di amministrazione della società. In particolare, a tenore della sentenza in parola, il fatto che l’amministrazione eserciti la sua influenza sulla società affidataria per il tramite di una società holding può incidere negativamente sulla sussistenza del controllo analogo ai fini della legittimità di un affidamento in house. Trattandosi di un controllo esercitato in via indiretta, nessuna influenza significativa può essere esercitata dall’amministrazione aggiudicatrice sugli obiettivi strategici e sulle decisioni importanti dell’affidataria.

In definitiva gli strumenti del diritto privato, essendo basati su una sostanziale autonomia gestionale del management, da soli non assicurano quella rispondenza dell’operato del Consiglio d’amministrazione all’interesse del socio che è invece necessaria perché si possa ritenere che questa società non abbia nessuna autonomia sostanziale, restando soltanto una propaggine organizzativa non distinguibile dell’ente pubblico.

Il controllo analogo evocato dalla Corte di giustizia va quindi parametrato rispetto a quello effettuato sugli organi delle pubbliche amministrazioni ricavabile dal d.lgs. 165/2001 (T.U. sul pubblico impiego), oltre che dal d.lgs. 267/2000 (TUEL). Con la privatizzazione è stato ridimensionato il vincolo di subordinazione gerarchica tra gli organi di indirizzo politico e gli organi di gestione amministrativa, per cui è stato eliminato il potere di ordine così come quello di revoca, di avocazione e di decisione dei ricorsi gerarchici. Sono stati invece mantenuti poteri compatibili con una relazione di indirizzo e di coordinamento e permane in via residuale il potere di annullamento degli atti per vizi di legittimità così come un potere di sostituzione in ipotesi delimitate.

Conclusioni

Non tutti gli obiettivi perseguiti con l’adozione delle forme organizzative privatistiche sono stati ritenuti sempre ammissibili alla luce del diritto costituzionale e del diritto comunitario.

Infatti, la Corte Costituzionale ha ritenuto il controllo della Corte dei conti (art. 12 L. 259/58) esercitatile anche nei confronti delle S.p.A. a partecipazione pubblica esclusiva o prevalente; inoltre, le controversie relative alla responsabilità per danni arrecati dai dipendenti di dette società ricadono nella speciale giurisdizione della stessa Corte dei conti, venendo in rilievo la qualificazione oggettivamente pubblica delle risorse finanziarie gestite. Se poi tali società rientrano nella categoria, di origine comunitaria, degli organismi di diritto pubblico devono essere applicate in materia di appalti le regole dell’evidenza pubblica e le relative controversie ricadono nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Infine, per il combinato disposto dell’art. 22, comma 1, lettera d, LPA e dell’art. 22, comma 1, lettera e, CAD, sono obbligati a consentire l’accesso a documenti in loro possesso anche i privati che svolgono un’attività disciplinata dal diritto nazionale o comunitario, in quanto di pubblico interesse, limitatamente a detta attività.

Alla luce di quanto appena osservato e se, come precedentemente visto, la Corte di Giustizia tende, con una operazione di interpretazione restrittiva delle condizioni per un affidamento diretto, a burocratizzare il modello in house, quest’ultimo viene a perdere di utilità, in quanto la società non avrebbe margine di autonomia decisionale e gestionale rispetto all’ente che la costituisce e la possiede, realizzandosi così una fattispecie non rinvenibile nemmeno nelle aziende speciali.