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Anna, un pugno di ferro in guanto di velluto

Recensione della serie “Anna” diretta da Niccolò Ammanniti e tratta dal suo omonimo romanzo uscito nel 2015
"Anna" di Niccolò Ammanniti
"Anna" di Niccolò Ammanniti

Anna, un pugno di ferro in guanto di velluto

 

La serie Anna è tratta dal romanzo omonimo pubblicato nel 2015.

L’epidemia da Covid è scoppiata sei mesi dopo l’inizio delle riprese

 

Si aprono così tutte le sei puntate della miniserie “Anna”, scritta e diretta da Niccolò Ammaniti e distribuita in Italia sui canali Sky. Sei puntate, dunque, da un’ora l’una circa.

Sei esperienze che ci trascinano al centro della terra, giù, in basso, in un viaggio agli inferi che in ogni episodio ci fa scavare a mani nude, spaccandoci le unghie, credendo di aver raggiunto ogni volta il centro della terra.

E che invece mai ci fa arrivare al culmine di tutto.

Perché “Anna” è un’esperienza visiva, narrativa ed emotiva che non è uguale a nessun’altra, che non assomiglia a nulla e che trae la propria linfa vitale dalla sofferenza, dalla paura, dalla resilienza, e, alfine, dalla speranza.

La visione della serie, oggi, è decisamente condizionata, come ovvio che sia, dalla pandemia che da oltre un anno stiamo vivendo. E lo è per molti aspetti: in primo luogo per la credibilità della storia, che regge, tiene seppur con voli pindarici, un intreccio al quale, forse, non avremmo mai creduto prima di questo terribile 2020, e che forse ha un po’ condizionato la prima edizione del romanzo di Ammaniti, uscito nell’ormai giurassico 2015.

In secondo luogo per il finale, un gesto disperato di speranza, tratteggiato dalla meravigliosa canzone “Hole” dei Mercury Rev, che fa compiere ai due piccoli protagonisti, Anna e Astor, un gesto di richiesta di aiuto, una mano tesa, di speranza, alla quale pochi uomini superstiti rispondono con l’unica risposta possibile: la vita. Un gesto spontaneo, una reazione naturale che, oggi, dopo quello che abbiamo vissuto, pare qualcosa di ingenuo, che, con ogni probabilità, purtroppo, non accadrebbe realmente.

La storia è semplice quando credibile. In una Sicilia dall’aspetto post nucleare (una sorta di “The day after”) una epidemia chiamata “la Rossa”, causata da un misterioso virus che viene dal Belgio (suona molto meno esotico della Cina) ha provocato la morte di tutti gli adulti. Solo i bambini ne sono immuni, ma solo fino al raggiungimento della pubertà, momento nel quale si ammalano e muoiono.

I protagonisti sono tutti ragazzini, magnifici ragazzini, sia nel tratteggio del personaggio che nell’interpretazione, profonda e spontanea. Anna è una tredicenne che, dopo la morte della madre, cerca di proteggere in ogni modo il fratellino Astor.

La storia prosegue, in un lungo viaggio all’interno della Sicilia, tra i “Blu” e i “Bianchi”, bande di bambini che hanno trovato il modo di riorganizzare in maniera gerarchica una società senza più leggi, padroni o limiti, in cui il baratto è l’unica forma accettata di sopravvivenza.

Succederanno molte cose, il dolore diventerà di casa nelle vite dei bambini, già provate da esperienze terrificanti, e al termine cercheranno una via di fuga verso un’Italia libera, un continente che può ancora lasciare uno spiraglio di stupore e di speranza in un’esistenza segnata da una fine sicura.

Non voglio raccontare di più, non serve, perché un’esperienza come la visione di “Anna” non può essere raccontata. Ammanniti affonda il coltello nel cuore dei sentimenti, con citazioni più o meno volontarie del cinema visuale di Tarantino, mettendo in scena l’ordinario del terrificante (per tutte, le scene finali di Anna che “ricompone” e “pulisce” le ossa della madre), in cui i gesti più sconvolgenti diventano l’abituale. C’è anche il Buñuel più surreale e esteticamente perfetto (penso a “L’angelo sterminatore”). C’è pure un vago sentore del primo Almodovar, emendato dai riferimenti sessuali, per dare spazio alla normalità di quanto percepito dai più come fastidioso ed eccentrico (mi riferisco ad esempio a quel folle film che è “L'indiscreto fascino del peccato”). C’è ancora l’intimismo cosmico di certi lavori di Kieslowski (ho ritrovato sensazioni di “La doppia vita di Veronica”, nei simbolismi nascosti nei gesti trattenuti dei protagonisti) e un senso estetico e magniloquente del cinema dell’ultimo Bergman (penso alla scena in cui Astor assiste allo spettacolo di pupi, che mi ha riportato subito a “Fanny e Alexander” del maestro svedese). E ancora il George Miller di “Mad Max”, che con i costumi e le ricostruzioni post apocalittiche e distopiche ha di certo condizionato in qualche modo questa produzione (incredibile la scena collettiva sottolineata da "Sirius" di Alan Parson Project).

E c’è, soprattutto, una perfezione originale delle scene, una scelta dei luoghi, sconvolgente e appropriata, i dialoghi naturali, le reazioni credibili, e un senso di angoscioso incedere, sottolineato anche da una colonna sonora, sempre perfetta e incombente, firmata dal compositore spagnolo Rauelsson. Una musica che è protagonista delle scene più crude e dolenti, attraverso canzoni che sembrano archeologia per i bambini, ma che rimandano direttamente al cuore di noi spettatori (la Loredana Bertè di “Folle città”, "Someone to watch over me" cantata da Frank Sinatra, la struggente Mia Martini di "Minuetto", “Big in Japan” degli Alphaville, Il Bocelli di "Con te partirò", una Vanoni in salsa sudamericana che canta "La voglia, la pazzia" e la sublime Cristina Donà che firma la sigla col branoSettembre).

Ammanniti, attraverso un uso sapiente del flashback, che ci riporta al periodo pre pandemia, sembra domandarsi come si comporterebbero i bambini una volta liberati dai grandi. E la risposta è drammaticamente vera, perché i bambini si spogliano di una dimensione infantile che pur rimane in tutta la serie, costeggiata qua e là da riferimenti di giochi e di simboli, per diventare freddi, cinici e spietati, macchine fatte per sopravvivere, in qualche modo. Non c’è più innocenza in loro, che hanno visto tutto e subito di tutto, e in molti compare quel senso di potere e di prevaricazione proprio dei grandi (i due gemelli sono un po’ l’emblema di tutto ciò), con tratti quasi sadici, che tendono a sconfinare nel grottesco. E in questo aspetto non si può non pensare a quello che è stata la serie "The walking dead", con quell'emblema dei ragazzini che devono sopravvivere, e per farlo sono costretti alle cose più abiette, come sparare alla testa ai genitori, per evitare il peggio.

Il regista disegna una società post pandemia in cui i riferimenti agli spettacoli più popolari sono evidenti. Talent show popolari (“Amici” e “X Factor”) e suddivisioni del mondo in colori, come le squadre degli spettacoli, unico aggrappo a un mondo che non esiste più, e che cerca nella sua espressione più pop di non abbandonare del tutto i sopravvissuti, che si muovono come gli ultimi della terra in luoghi abbandonati e pieni di squallore.

Nonostante tutto, però, la Sicilia disegnata da “Anna” è bellissima, di una bellezza desolata e desolante, un luogo morto che, si avverte in ogni istante, è pronto a svegliarsi e a reagire a un soffio di vita. Fino a quando i due arrivano al mare, e vedono l’Italia, aprendo il panorama a un tramonto commovente e bellissimo. Anche i luoghi antichi, scelti dalla produzione, splendenti e regali, seppur decadenti, ci mandano a un passato storico già pronto a detonare in una sorta di rivoluzione imminente, pronta a scoppiare.

Una menzione speciale alla fotografia di Gogò Bianchi, che usa le ombre e i chiaroscuri con una dovizia magistrale, tratteggiando atmosfere a volte gelide, altre caldissime, come una pittura fiamminga in terra di Sicilia, fotografando un mondo post-apocalittico in cui la natura è devastante protagonista, in cui le giornate sono segnate da albe e tramonti suggestivi, mettendosi al servizio dell’ottima e originale regia di Ammanniti, che cerca spesso inquadrature dall’alto, come per cercare, attraverso lunghi piani sequenza, di avvicinarsi con pudore a una realtà che, invece, disegna in maniera così cruda e raccapricciante, fastidiosa e necessaria.

A livello interpretativo, ho già detto tutto. I ragazzi scelti sono magnifici, caratterizzati in maniera anche eccentrica (penso al ragazzo che si dichiara padrone dell’Etna e dei dintorni del vulcano, che si muove su grandi stampelle e parla in maniera quasi incomprensibile ma efficacissima). I due protagonisti Giulia Dragotto, di 14 anni, che interpreta Anna, e Alessandro Pecorella, di 9 anni, che interpreta Astor, sono di una commovente bellezza e di una bravura che sfiora la perfezione stilistica ed estetica, capaci di entrare nella parte in maniera perfetta.

Personaggio chiave è la madre dei due bambini, interpretata da una magica Elena Lietti, che lascia ai figli un libro che indica suggerimenti per sopravvivere quando lei sarà morta. L’ultimo capitolo del libro, “Cose da fare quando mamma muore”, regala allo spettatore uno dei momenti più alti e sconvolgenti dell’intera serie, e sancisce l’importanza della parola in un mondo in cui tutto sembra ormai non contare più nulla. La parola, quella scritta, c’è e rimane, e va difesa ad ogni costo perché la memoria è l’unica cosa che può farci sopravvivere in un mondo senza più salvagenti.

Una riflessione profonda sul tempo e sul senso dell’esistenza, che si coagula nel pensiero di Pietro, un ragazzino che Anna incontra sul suo cammino, e che paragona la vita dei cani, che dura circa quattordici anni, alla loro, un tempo identico che, se ben speso, dice, è sufficiente per renderlo unico.

Quattordici anni, quello che in media vivono i ragazzini prima di diventare puberi.

In definitiva, “Anna” è qualcosa che va visto, che è difficile da spiegare perché non c’è niente che le assomigli. Un'opera di tutti, forse non per tutti, che in questo momento così delicato ci fa star male, ci trapassa come una spada, ma che, alla fine, ci regala un senso di appagamento che non ci fa pentire della sofferenza provata nel vedere queste storie snocciolarsi sullo schermo.

Un pugno di ferro in guanto di velluto, una montagna di dolore per un afflato di speranza.

Nient’altro che la vita, bellezza, e tu non ci puoi fare proprio niente.