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La firma elettronica del quinto tipo

1. Breve storia delle firme elettroniche in Italia (1997-2010)

Con il DPR 10 novembre 1997, n. 513 è stata introdotta in Italia la firma digitale. Si trattava di una normativa rivoluzionaria, applicativa della legge c.d. Bassanini 1 (legge 59/1997), alla quale vanno riconosciuti due primati: da un lato di aver introdotto il primo (e unico) parallelo in ambiente digitale equivalente alla firma autografa di tipo tradizionale e dall’altro di aver garantito univocità e chiarezza allo strumento applicativo.

Con la Direttiva europea 1999/93/CE la “firma elettronica” venne sdoppiata. Furono infatti introdotte, nel solito franglese (ossia la lingua usata dal legislatore europeo per coniugare l’esperienza giuridica francese con inglese, nei rispettivi ambiti di civil law e di common law) la firma elettronica e la firma elettronica avanzata.

La Direttiva europea venne recepita in Italia con numerose incongruenze, nel D.Lgs. 23 gennaio 2002, n. 10, che mantenne i due tipi di firma elettronica. Tuttavia, l’anno seguente, con l’emanazione del DPR 7 aprile 2003, n. 137 vennero introdotte due ulteriori tipologie di firme. La conseguenza fu che, nonostante i richiami alla semplificazione, le firme risultavano quattro: firma elettronica, firma elettronica avanzata, firma elettronica qualificata e firma digitale.

Con l’approvazione del Codice dell’amministrazione digitale avvenuta con il D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, escludendo dal novero la firma elettronica avanzata, le firme furono ridotte a tre: firma elettronica, firma elettronica qualificata e firma digitale. In questo modo, però, il legislatore non si accorse che era stata tolta una delle due firme previste dalla Direttiva europea del 1999, tra l’altro quella che maggiormente coniugava economicità e affidabilità.

Con la bozza del nuovo CAD approvata dal Consiglio dei Ministri il 19 febbraio 2010, è stata reintrodotta la firma elettronica avanzata, con la motivazione che bisogna ottemperare a quanto previsto dalla normativa europea in materia, dimenticando con nonchalance di dichiarare che l’inottemperanza, durata cinque anni, era stata causata proprio dallo stesso legislatore.

In conclusione, quando verrà approvato in via definitiva il nuovo CAD ritorneremo, in una sorta di evoluzione involutiva, ai quattro tipi di firma del 2003: firma elettronica, firma elettronica avanzata, firma elettronica qualificata e firma digitale.

2. Un ulteriore tipo di firma elettronica

La breve storia dell’introduzione delle firme elettroniche in Italia è dunque costellata di incertezze giuridiche circa la loro definizione e la loro valenza giuridicolegale (indicativa, dichiarativa, narrativa, probatoria, diplomatistica, etc.) rispetto alla firma autografa “tradizionale”, incertezze che hanno provocato false partenze e disorientamento non solo tra i cittadini, ma anche tra gli stessi operatori del settore.

In realtà, esiste – nelle pieghe della normativa secondaria – una firma elettronica del quinto tipo.

Prima, però, occorre precisare che, come abbiamo fin qui rilevato, l’introduzione delle tipologie di firma in ambiente "informatico" è stata approvata nell’ordinamento italiano da norme di rango non inferiore al DPR (fu così nel 1997, poi un D.Lgs. nel 2002, ancora un DPR nel 2003 e, successivamente ancora con D.Lgs. nel 2005 e nel 2006).

Va qui invece richiamato il DPCM 6 maggio 2009, che all’art. 4, comma 4, ha introdotto il seguente novellato: «L’invio tramite PEC costituisce sottoscrizione elettronica ai sensi dell’art. 21, comma 1, del decreto legislativo n. 82 del 2005».

Che significa, innanzitutto, “costituisce sottoscrizione elettronica"? Siamo di fronte all’azione di firma o a un nuovo tipo di firma? È l’invio o il messaggio che risulta essere sottoscritto, messaggio che in questo caso assurgerebbe, nel nostro ordinamento, a documento informatico a tutti gli effetti? Non è questione di lana caprina, considerando che in campo internazionale si sta ancora discutendo su cosa debba intendersi, ai fini della rilevanza giuridicoprobatoria del documento, per "messaggio di posta elettronica" e su quali siano le componenti rilevanti ai fini dell’ostensibilità con forza di prova.

Ad una lettura attenta, siamo di fronte a entrambe le cose, anche se il lessico utilizzato è ondivago tra i termini firma e sottoscrizione, termini in nulla equivalenti nel rapporto tra azione e strumento.

Il rinvio all’art. 21, comma 1, del CAD stride ontologicamente con la natura della PEC: il testo attualmente in vigore infatti recita: «Il documento informatico, cui è apposta una firma elettronica, sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità». Testo attualmente vigente, dicevamo. Già, perché la bozza approvata dal Consiglio dei Ministri il 19 febbraio 2010 ha modificato ancora una volta quel testo, introducendo la firma elettronica avanzata e un ulteriore comma 1bis sul documento informatico sottoscritto con firma elettronica qualificata o firma digitale.

Perché stride? La PEC, che a questo punto viene a configurarsi come equiparabile a una firma elettronica (DPCM 6 maggio 2009) o a una firma elettronica avanzata (nuovo CAD del 2010), viene snaturata. La sua funzione è di trasmettere i documenti in modo sicuro e affidabile.

La PEC, dunque, trasmette – non sottoscrive – i documenti.

La forza della PEC, infatti, è di garantire un parallelo digitale alla tradizionale raccomandata a/r. La trasmissione non va, dunque, in alcun modo confusa con la sottoscrizione in ambiente digitale, anche perché la PEC potrebbe veicolare un documento informatico sottoscritto con firma digitale senza alcun messaggio di accompagnamento.

Ma su questa vicenda esiste un anello che non tiene. Finora le norme sono orientate alla trasmissione, all’invio, alla sottoscrizione, cioè ad azioni rilevanti giuridicamente nella fase attiva dell’azione amministrativa. Ma chi si occuperà della conservazione dei messaggi di PEC, visto che non incombe alcun obbligo formale in capo ai gestori? In quale formato idoneo si provvederà alla conservazione (non memorizzazione) affidabile, integra e autentica? Trattandosi, a questo punto, di documenti amministrativi, giova richiamare almeno le responsabilità previste dall’art. 490 del codice penale e quelle contenute nel D.Lgs. 42/2004 in ordine alla tenuta degli archivi delle amministrazioni pubbliche.

In conclusione, con l’entrata in vigore del nuovo CAD (terza versione ufficiale dal 2005: una media di una ogni due anni), il nostro ordinamento tornerà a utilizzare formalmente quattro tipologie di firma – contrariamente all’Europa che ne prevede due – alle quali si affiancherà la PEC come quinta. È un primato del quale andare fieri?

Forse più che di "burocrazia documentale informatica", si farebbe bene a introdurre il concetto di "masochismo normativo involutivo digitale", perché perseverare su questa strada avrà conseguenze negative sull’attecchimento del digitale sul sistema Italia, per non parlare dei problemi inerenti alla conservazione a lungo termine, questione fondamentale mai seriamente affrontata finora dal legislatore e che invece va rigorosamente progettata prima della produzione di qualsiasi tipo di documento, soprattutto in ambiente digitale.

1. Breve storia delle firme elettroniche in Italia (1997-2010)

Con il DPR 10 novembre 1997, n. 513 è stata introdotta in Italia la firma digitale. Si trattava di una normativa rivoluzionaria, applicativa della legge c.d. Bassanini 1 (legge 59/1997), alla quale vanno riconosciuti due primati: da un lato di aver introdotto il primo (e unico) parallelo in ambiente digitale equivalente alla firma autografa di tipo tradizionale e dall’altro di aver garantito univocità e chiarezza allo strumento applicativo.

Con la Direttiva europea 1999/93/CE la “firma elettronica” venne sdoppiata. Furono infatti introdotte, nel solito franglese (ossia la lingua usata dal legislatore europeo per coniugare l’esperienza giuridica francese con inglese, nei rispettivi ambiti di civil law e di common law) la firma elettronica e la firma elettronica avanzata.

La Direttiva europea venne recepita in Italia con numerose incongruenze, nel D.Lgs. 23 gennaio 2002, n. 10, che mantenne i due tipi di firma elettronica. Tuttavia, l’anno seguente, con l’emanazione del DPR 7 aprile 2003, n. 137 vennero introdotte due ulteriori tipologie di firme. La conseguenza fu che, nonostante i richiami alla semplificazione, le firme risultavano quattro: firma elettronica, firma elettronica avanzata, firma elettronica qualificata e firma digitale.

Con l’approvazione del Codice dell’amministrazione digitale avvenuta con il D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, escludendo dal novero la firma elettronica avanzata, le firme furono ridotte a tre: firma elettronica, firma elettronica qualificata e firma digitale. In questo modo, però, il legislatore non si accorse che era stata tolta una delle due firme previste dalla Direttiva europea del 1999, tra l’altro quella che maggiormente coniugava economicità e affidabilità.

Con la bozza del nuovo CAD approvata dal Consiglio dei Ministri il 19 febbraio 2010, è stata reintrodotta la firma elettronica avanzata, con la motivazione che bisogna ottemperare a quanto previsto dalla normativa europea in materia, dimenticando con nonchalance di dichiarare che l’inottemperanza, durata cinque anni, era stata causata proprio dallo stesso legislatore.

In conclusione, quando verrà approvato in via definitiva il nuovo CAD ritorneremo, in una sorta di evoluzione involutiva, ai quattro tipi di firma del 2003: firma elettronica, firma elettronica avanzata, firma elettronica qualificata e firma digitale.

2. Un ulteriore tipo di firma elettronica

La breve storia dell’introduzione delle firme elettroniche in Italia è dunque costellata di incertezze giuridiche circa la loro definizione e la loro valenza giuridicolegale (indicativa, dichiarativa, narrativa, probatoria, diplomatistica, etc.) rispetto alla firma autografa “tradizionale”, incertezze che hanno provocato false partenze e disorientamento non solo tra i cittadini, ma anche tra gli stessi operatori del settore.

In realtà, esiste – nelle pieghe della normativa secondaria – una firma elettronica del quinto tipo.

Prima, però, occorre precisare che, come abbiamo fin qui rilevato, l’introduzione delle tipologie di firma in ambiente "informatico" è stata approvata nell’ordinamento italiano da norme di rango non inferiore al DPR (fu così nel 1997, poi un D.Lgs. nel 2002, ancora un DPR nel 2003 e, successivamente ancora con D.Lgs. nel 2005 e nel 2006).

Va qui invece richiamato il DPCM 6 maggio 2009, che all’art. 4, comma 4, ha introdotto il seguente novellato: «L’invio tramite PEC costituisce sottoscrizione elettronica ai sensi dell’art. 21, comma 1, del decreto legislativo n. 82 del 2005».

Che significa, innanzitutto, “costituisce sottoscrizione elettronica"? Siamo di fronte all’azione di firma o a un nuovo tipo di firma? È l’invio o il messaggio che risulta essere sottoscritto, messaggio che in questo caso assurgerebbe, nel nostro ordinamento, a documento informatico a tutti gli effetti? Non è questione di lana caprina, considerando che in campo internazionale si sta ancora discutendo su cosa debba intendersi, ai fini della rilevanza giuridicoprobatoria del documento, per "messaggio di posta elettronica" e su quali siano le componenti rilevanti ai fini dell’ostensibilità con forza di prova. >1. Breve storia delle firme elettroniche in Italia (1997-2010)

Con il DPR 10 novembre 1997, n. 513 è stata introdotta in Italia la firma digitale. Si trattava di una normativa rivoluzionaria, applicativa della legge c.d. Bassanini 1 (legge 59/1997), alla quale vanno riconosciuti due primati: da un lato di aver introdotto il primo (e unico) parallelo in ambiente digitale equivalente alla firma autografa di tipo tradizionale e dall’altro di aver garantito univocità e chiarezza allo strumento applicativo.

Con la Direttiva europea 1999/93/CE la “firma elettronica” venne sdoppiata. Furono infatti introdotte, nel solito franglese (ossia la lingua usata dal legislatore europeo per coniugare l’esperienza giuridica francese con inglese, nei rispettivi ambiti di civil law e di common law) la firma elettronica e la firma elettronica avanzata.

La Direttiva europea venne recepita in Italia con numerose incongruenze, nel D.Lgs. 23 gennaio 2002, n. 10, che mantenne i due tipi di firma elettronica. Tuttavia, l’anno seguente, con l’emanazione del DPR 7 aprile 2003, n. 137 vennero introdotte due ulteriori tipologie di firme. La conseguenza fu che, nonostante i richiami alla semplificazione, le firme risultavano quattro: firma elettronica, firma elettronica avanzata, firma elettronica qualificata e firma digitale.

Con l’approvazione del Codice dell’amministrazione digitale avvenuta con il D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, escludendo dal novero la firma elettronica avanzata, le firme furono ridotte a tre: firma elettronica, firma elettronica qualificata e firma digitale. In questo modo, però, il legislatore non si accorse che era stata tolta una delle due firme previste dalla Direttiva europea del 1999, tra l’altro quella che maggiormente coniugava economicità e affidabilità.

Con la bozza del nuovo CAD approvata dal Consiglio dei Ministri il 19 febbraio 2010, è stata reintrodotta la firma elettronica avanzata, con la motivazione che bisogna ottemperare a quanto previsto dalla normativa europea in materia, dimenticando con nonchalance di dichiarare che l’inottemperanza, durata cinque anni, era stata causata proprio dallo stesso legislatore.

In conclusione, quando verrà approvato in via definitiva il nuovo CAD ritorneremo, in una sorta di evoluzione involutiva, ai quattro tipi di firma del 2003: firma elettronica, firma elettronica avanzata, firma elettronica qualificata e firma digitale.

2. Un ulteriore tipo di firma elettronica

La breve storia dell’introduzione delle firme elettroniche in Italia è dunque costellata di incertezze giuridiche circa la loro definizione e la loro valenza giuridicolegale (indicativa, dichiarativa, narrativa, probatoria, diplomatistica, etc.) rispetto alla firma autografa “tradizionale”, incertezze che hanno provocato false partenze e disorientamento non solo tra i cittadini, ma anche tra gli stessi operatori del settore.

In realtà, esiste – nelle pieghe della normativa secondaria – una firma elettronica del quinto tipo.

Prima, però, occorre precisare che, come abbiamo fin qui rilevato, l’introduzione delle tipologie di firma in ambiente "informatico" è stata approvata nell’ordinamento italiano da norme di rango non inferiore al DPR (fu così nel 1997, poi un D.Lgs. nel 2002, ancora un DPR nel 2003 e, successivamente ancora con D.Lgs. nel 2005 e nel 2006).

Va qui invece richiamato il DPCM 6 maggio 2009, che all’art. 4, comma 4, ha introdotto il seguente novellato: «L’invio tramite PEC costituisce sottoscrizione elettronica ai sensi dell’art. 21, comma 1, del decreto legislativo n. 82 del 2005».

Che significa, innanzitutto, “costituisce sottoscrizione elettronica"? Siamo di fronte all’azione di firma o a un nuovo tipo di firma? È l’invio o il messaggio che risulta essere sottoscritto, messaggio che in questo caso assurgerebbe, nel nostro ordinamento, a documento informatico a tutti gli effetti? Non è questione di lana caprina, considerando che in campo internazionale si sta ancora discutendo su cosa debba intendersi, ai fini della rilevanza giuridicoprobatoria del documento, per "messaggio di posta elettronica" e su quali siano le componenti rilevanti ai fini dell’ostensibilità con forza di prova.

Ad una lettura attenta, siamo di fronte a entrambe le cose, anche se il lessico utilizzato è ondivago tra i termini firma e sottoscrizione, termini in nulla equivalenti nel rapporto tra azione e strumento.

Il rinvio all’art. 21, comma 1, del CAD stride ontologicamente con la natura della PEC: il testo attualmente in vigore infatti recita: «Il documento informatico, cui è apposta una firma elettronica, sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità». Testo attualmente vigente, dicevamo. Già, perché la bozza approvata dal Consiglio dei Ministri il 19 febbraio 2010 ha modificato ancora una volta quel testo, introducendo la firma elettronica avanzata e un ulteriore comma 1bis sul documento informatico sottoscritto con firma elettronica qualificata o firma digitale.

Perché stride? La PEC, che a questo punto viene a configurarsi come equiparabile a una firma elettronica (DPCM 6 maggio 2009) o a una firma elettronica avanzata (nuovo CAD del 2010), viene snaturata. La sua funzione è di trasmettere i documenti in modo sicuro e affidabile.

La PEC, dunque, trasmette – non sottoscrive – i documenti.

La forza della PEC, infatti, è di garantire un parallelo digitale alla tradizionale raccomandata a/r. La trasmissione non va, dunque, in alcun modo confusa con la sottoscrizione in ambiente digitale, anche perché la PEC potrebbe veicolare un documento informatico sottoscritto con firma digitale senza alcun messaggio di accompagnamento.

Ma su questa vicenda esiste un anello che non tiene. Finora le norme sono orientate alla trasmissione, all’invio, alla sottoscrizione, cioè ad azioni rilevanti giuridicamente nella fase attiva dell’azione amministrativa. Ma chi si occuperà della conservazione dei messaggi di PEC, visto che non incombe alcun obbligo formale in capo ai gestori? In quale formato idoneo si provvederà alla conservazione (non memorizzazione) affidabile, integra e autentica? Trattandosi, a questo punto, di documenti amministrativi, giova richiamare almeno le responsabilità previste dall’art. 490 del codice penale e quelle contenute nel D.Lgs. 42/2004 in ordine alla tenuta degli archivi delle amministrazioni pubbliche.

In conclusione, con l’entrata in vigore del nuovo CAD (terza versione ufficiale dal 2005: una media di una ogni due anni), il nostro ordinamento tornerà a utilizzare formalmente quattro tipologie di firma – contrariamente all’Europa che ne prevede due – alle quali si affiancherà la PEC come quinta. È un primato del quale andare fieri?

Forse più che di "burocrazia documentale informatica", si farebbe bene a introdurre il concetto di "masochismo normativo involutivo digitale", perché perseverare su questa strada avrà conseguenze negative sull’attecchimento del digitale sul sistema Italia, per non parlare dei problemi inerenti alla conservazione a lungo termine, questione fondamentale mai seriamente affrontata finora dal legislatore e che invece va rigorosamente progettata prima della produzione di qualsiasi tipo di documento, soprattutto in ambiente digitale.