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La ricetta del FMI per superare il dualismo tra pressione fiscale e crescita

Un dibattito attuale

Un recente rapporto[1] del Fondo monetario internazionale ripropone un tema di grande attualità nelle economie mature, ovvero il binomio tra le politiche di finanza pubblica (ed in particolare quella fiscale) e la crescita, che preoccupa molti Stati soprattutto quelli chiamati a ridurre drasticamente il rapporto tra debito pubblico e PIL. Tale rapporto, a lungo termine, penalizza la crescita, ma l’inasprimento fiscale tende a limitare la crescita anche nel breve termine.

Lo studio esamina in particolare la stretta correlazione tra crescita economica e politica fiscale, considerata in una prospettiva sia di breve che di lungo termine: un argomento complesso per le interrelazioni che esistono tra le due variabili. Infatti l’obiettivo di agganciare il debito al PIL e stabilizzarlo finisce con il penalizzare la crescita perché non si può sostenere a lungo l’aumento del debito; anzi l’imperativo è diventato ormai quello di ridurre il debito pubblico. Per raggiungere questo obiettivo si aumenta il carico fiscale, ma ciò significa anche ridurre le prospettive di sviluppo. La soluzione, almeno a medio termine, resta dunque quella di modulare sapientemente la manovra fiscale, sempre che il mercato lo consenta.

Il FMI sostiene che, a fronte di un inasprimento fiscale, è necessario intervenire a sostegno della crescita con le politiche monetaria e finanziaria, oltre che con politiche strutturali.

Rapporto tra politica fiscale e crescita nel breve periodo

Almeno nel breve periodo occorre puntare su best practise di consolidamento della manovra fiscale che si traducono nella riforma del mercato dei beni, dei servizi e dei lavoratori, ovvero nel miglioramento dell’efficienza economica che è anche una spinta alla crescita potenziale.

Il risanamento del debito produce crescita attraverso due strumenti:

1. il potenziamento dei versamenti fiscali che favorisce la sostenibilità del sistema fiscale, riducendo i rischi legati alla crisi economica. L’esperienza recente dimostra come, nell’area euro, sia diffusa l’avversione per il rischio sui rendimenti delle obbligazioni sovrane (titoli di stato), ma come anche le performance finanziarie negative e l’innalzamento del debito pubblico giochino un ruolo determinante nell’influenzare la crescita dello spread;

2. le misure fiscali che incidono sulla crescita hanno effetti negativi sulla domanda aggregata. Mentre dopo la grande depressione si era sviluppato un consenso generale sul ruolo svolto dalla politica fiscale in funzione anticiclica secondo i canoni keynesiani, [2] dopo gli anni 90 è stato contestato l’utilizzo della politica fiscale come strumento di stabilizzazione economica, soprattutto se si preferiscono i tagli lineari della spesa rispetto agli aumenti della tassazione. Invece, dopo la crisi economica del 2008 il ruolo della politica fiscale è stato rivalutato. Per esempio parte della dottrina ha evidenziato come l’espansione economica dipende dal deprezzamento del tasso di cambio piuttosto che dall’innalzamento della tassazione. Perciò se manca la possibilità di manovrare i tassi di cambio o di adottare misure di politica monetaria, come nel caso dell’euro-zona, il consolidamento fiscale si associa ad una limitata crescita economica. Secondo il FMI il moltiplicatore fiscale può esercitare un ruolo amplificato e positivo sul reddito prodotto proprio nel caso di deficit esterno (ovvero quando la bilancia commerciale è in disavanzo perché le importazioni superano le esportazioni) o se vi è tensione inflazionistica o se c’è ampio margine di incremento del prodotto interno.

La politica fiscale deve tener conto di due effetti contrapposti: da un lato quello del moltiplicatore della spesa pubblica che ha un effetto espansivo sul reddito e dall’altro quello della tassazione che ha un effetto restrittivo sul reddito.

Altra parte della dottrina pensa che la decelerazione dell’economia sia il prezzo da pagare per il risanamento del debito pubblico ma non tiene conto del fatto che gli effetti della crescita del debito possono addirittura annullare i vantaggi attesi.

La crescita influenza i conti pubblici in tre modi:

· la decelerazione della crescita innesca stabilizzatori automatici che riducono le entrate ed aumentano la spesa sociale (per es. i sussidi di disoccupazione). Ciò comporta che l’aumento della pressione fiscale nella misura di un punto percentuale del PIL si traduce in una riduzione del debito di misura inferiore a causa degli stabilizzatori automatici e in particolare dei moltiplicatori fiscali;

· la decelerazione della crescita derivata dal consolidamento fiscale potrebbe indurre un aumento del rapporto tra debito e PIL. Tale conseguenza potrebbe aversi se sia lo stock del debito che il moltiplicatore fiscale sono alti. L’effetto dell’inasprimento fiscale sul debito (il numeratore del rapporto) in termini percentuali sarà inferiore alla misura dello stock di debito iniziale, mentre l’effetto negativo sul PIL (il denominatore) sarà superiore per effetto del moltiplicatore;

· infine la decelerazione della crescita indotta da una forte pressione fiscale potrebbe indurre turbolenze nei mercati finanziari. In genere la crescita economica si associa a ridotti costi finanziari solo per quegli Stati che si ritiene siano in grado di ridurre il debito e perciò presentano un rischio di credito contenuto, altrimenti può aversi una possibile crescita dello spread. Ciò, in fase di pressione fiscale, rappresenta un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi economico-finanziari più per la scarsa credibilità del sistema che per la crescita del debito pubblico.

Rapporto tra politica fiscale e crescita nel lungo periodo

Lo studio FMI sostiene che una corretta taratura della politica fiscale potrebbe migliorare l’efficienza economica attraverso il taglio composito e mirato della tassazione, che consiste nella riduzione delle agevolazioni ed esenzioni fiscali, nella riduzione delle esternalità ambientali e dell’imposta sul patrimonio, nella lotta all’evasione fiscale.

Il connubio tra crescita economica e aumento della tassazione ha, invece, minori prospettive di successo se l’intervento ha carattere generale.

Al riguardo la tassazione dei consumi è meno distorsiva di quella del lavoro. La “svalutazione fiscale”, ovvero lo spostamento della tassazione dal lavoro sui consumi (o sulla proprietà), dovrebbe avere maggiori effetti a breve termine.

Altro sistema per aumentare la pressione fiscale è la riduzione delle agevolazioni fiscali. Per esempio la riduzione delle aliquote IVA agevolate ha un effetto diretto sulla spesa pubblica ma incide anche direttamente sul potere d’acquisto della classe sociale svantaggiata, in quanto le aliquote ridotte si applicano, ad esempio, ai beni alimentari e al settore abbigliamento.

Quanto alla tassazione che riduce le esternalità, tradizionalmente si fa riferimento alla c.d. carbon tax, ma studi recenti hanno sottolineato come la tassazione delle transazioni finanziarie è più efficace tanto da essere definita financial pollution.

La fiscalità immobiliare inoltre è meno distorsiva di altre forme impositive.

La lotta all’evasione fiscale, infine, risponde a finalità di equità.

Nel complesso la strategia fiscale deve prendere in considerazione gli effetti negativi, almeno a breve termine, di un eccessivo inasprimento rispetto ad un incremento graduale. Tuttavia mentre un insufficiente innalzamento della pressione fiscale potrebbe minare la credibilità del Paese, un aumento costante della tassazione rischia di essere addirittura controproducente sia nei confronti del mercato che in termini di considerazione politica. Perciò non resta che affidarsi a un graduale consolidamento fiscale (in media un punto all’anno). Un altro importante contributo per bilanciare gli effetti della pressione fiscale è dato dalla politica monetaria a supporto della domanda aggregata. Idonee politiche finanziarie potrebbero facilitare la ricapitalizzazione degli istituti di credito e riattivare il canale del credito, mentre le politiche strutturali potrebbero influire positivamente sull’occupazione e sulla produttività a medio termine.

La pressione del mercato impedisce però agli Stati, come è successo in Europa, di scegliere strategie fiscali graduali. In questi casi, tenuto conto della stretta connessione tra crescita e politica fiscale, è particolarmente importante che il consolidamento fiscale sia accompagnato da adeguate politiche finanziarie. Fermo restando che il debito pubblico delle economie mature è parametrato al PIL, un sovradimensionamento del debito pubblico penalizzerebbe ulteriormente le potenzialità di crescita del sistema. Di fronte all’attualità di questa problematica assume sempre più rilievo l’efficienza del sistema (riforme del mercato del lavoro, dei prodotti e dei servizi) che si accompagna, secondo parte della dottrina, a riforme fiscali strutturali.

In poche parole è questa la ricetta adottata per contrastare la grave crisi finanziaria che dal 2008 è stata esportata in Europa. Il leit motive è ora “abbassare il debito pubblico”, ma non tutte le misure portano gli stessi benefici. Dal lato delle entrate, questo principio è stato interpretato come riduzione delle agevolazioni fiscali e della tassazione sul lavoro rispetto a quella sui consumi e sulle rendite, oltre naturalmente alla lotta all’evasione fiscale. Dal lato delle spese invece i tagli dovrebbero riguardare le spese sociali in generale, i sussidi e le spese militari.

Ma qualsiasi manovra deve tenere conto dell’equità sociale perché non è sostenibile una crescita che avvantaggia solo pochi.

[1] Walking Hand in Hand: Fiscal Policy and Growth in Advantaged Economies, di C. Cottarelli e L. Jaramillo, IMF Working Paper, May 2012

[2] cioè aumentando il prelievo fiscale e diminuendo le spese pubbliche durante la fase espansiva (inflattiva) e diminuendo il prelievo ed aumentando la spesa pubblica nella fase recessiva (deflattiva)

Un dibattito attuale

Un recente rapporto[1] del Fondo monetario internazionale ripropone un tema di grande attualità nelle economie mature, ovvero il binomio tra le politiche di finanza pubblica (ed in particolare quella fiscale) e la crescita, che preoccupa molti Stati soprattutto quelli chiamati a ridurre drasticamente il rapporto tra debito pubblico e PIL. Tale rapporto, a lungo termine, penalizza la crescita, ma l’inasprimento fiscale tende a limitare la crescita anche nel breve termine.

Lo studio esamina in particolare la stretta correlazione tra crescita economica e politica fiscale, considerata in una prospettiva sia di breve che di lungo termine: un argomento complesso per le interrelazioni che esistono tra le due variabili. Infatti l’obiettivo di agganciare il debito al PIL e stabilizzarlo finisce con il penalizzare la crescita perché non si può sostenere a lungo l’aumento del debito; anzi l’imperativo è diventato ormai quello di ridurre il debito pubblico. Per raggiungere questo obiettivo si aumenta il carico fiscale, ma ciò significa anche ridurre le prospettive di sviluppo. La soluzione, almeno a medio termine, resta dunque quella di modulare sapientemente la manovra fiscale, sempre che il mercato lo consenta.

Il FMI sostiene che, a fronte di un inasprimento fiscale, è necessario intervenire a sostegno della crescita con le politiche monetaria e finanziaria, oltre che con politiche strutturali.

Rapporto tra politica fiscale e crescita nel breve periodo

Almeno nel breve periodo occorre puntare su best practise di consolidamento della manovra fiscale che si traducono nella riforma del mercato dei beni, dei servizi e dei lavoratori, ovvero nel miglioramento dell’efficienza economica che è anche una spinta alla crescita potenziale.

Il risanamento del debito produce crescita attraverso due strumenti:

1. il potenziamento dei versamenti fiscali che favorisce la sostenibilità del sistema fiscale, riducendo i rischi legati alla crisi economica. L’esperienza recente dimostra come, nell’area euro, sia diffusa l’avversione per il rischio sui rendimenti delle obbligazioni sovrane (titoli di stato), ma come anche le performance finanziarie negative e l’innalzamento del debito pubblico giochino un ruolo determinante nell’influenzare la crescita dello spread;

2. le misure fiscali che incidono sulla crescita hanno effetti negativi sulla domanda aggregata. Mentre dopo la grande depressione si era sviluppato un consenso generale sul ruolo svolto dalla politica fiscale in funzione anticiclica secondo i canoni keynesiani, [2] dopo gli anni 90 è stato contestato l’utilizzo della politica fiscale come strumento di stabilizzazione economica, soprattutto se si preferiscono i tagli lineari della spesa rispetto agli aumenti della tassazione. Invece, dopo la crisi economica del 2008 il ruolo della politica fiscale è stato rivalutato. Per esempio parte della dottrina ha evidenziato come l’espansione economica dipende dal deprezzamento del tasso di cambio piuttosto che dall’innalzamento della tassazione. Perciò se manca la possibilità di manovrare i tassi di cambio o di adottare misure di politica monetaria, come nel caso dell’euro-zona, il consolidamento fiscale si associa ad una limitata crescita economica. Secondo il FMI il moltiplicatore fiscale può esercitare un ruolo amplificato e positivo sul reddito prodotto proprio nel caso di deficit esterno (ovvero quando la bilancia commerciale è in disavanzo perché le importazioni superano le esportazioni) o se vi è tensione inflazionistica o se c’è ampio margine di incremento del prodotto interno.

La politica fiscale deve tener conto di due effetti contrapposti: da un lato quello del moltiplicatore della spesa pubblica che ha un effetto espansivo sul reddito e dall’altro quello della tassazione che ha un effetto restrittivo sul reddito.

Altra parte della dottrina pensa che la decelerazione dell’economia sia il prezzo da pagare per il risanamento del debito pubblico ma non tiene conto del fatto che gli effetti della crescita del debito possono addirittura annullare i vantaggi attesi.

La crescita influenza i conti pubblici in tre modi:

· la decelerazione della crescita innesca stabilizzatori automatici che riducono le entrate ed aumentano la spesa sociale (per es. i sussidi di disoccupazione). Ciò comporta che l’aumento della pressione fiscale nella misura di un punto percentuale del PIL si traduce in una riduzione del debito di misura inferiore a causa degli stabilizzatori automatici e in particolare dei moltiplicatori fiscali;

· la decelerazione della crescita derivata dal consolidamento fiscale potrebbe indurre un aumento del rapporto tra debito e PIL. Tale conseguenza potrebbe aversi se sia lo stock del debito che il moltiplicatore fiscale sono alti. L’effetto dell’inasprimento fiscale sul debito (il numeratore del rapporto) in termini percentuali sarà inferiore alla misura dello stock di debito iniziale, mentre l’effetto negativo sul PIL (il denominatore) sarà superiore per effetto del moltiplicatore;

· infine la decelerazione della crescita indotta da una forte pressione fiscale potrebbe indurre turbolenze nei mercati finanziari. In genere la crescita economica si associa a ridotti costi finanziari solo per quegli Stati che si ritiene siano in grado di ridurre il debito e perciò presentano un rischio di credito contenuto, altrimenti può aversi una possibile crescita dello spread. Ciò, in fase di pressione fiscale, rappresenta un ostacolo al raggiungimento degli obiettivi economico-finanziari più per la scarsa credibilità del sistema che per la crescita del debito pubblico.

Rapporto tra politica fiscale e crescita nel lungo periodo

Lo studio FMI sostiene che una corretta taratura della politica fiscale potrebbe migliorare l’efficienza economica attraverso il taglio composito e mirato della tassazione, che consiste nella riduzione delle agevolazioni ed esenzioni fiscali, nella riduzione delle esternalità ambientali e dell’imposta sul patrimonio, nella lotta all’evasione fiscale.

Il connubio tra crescita economica e aumento della tassazione ha, invece, minori prospettive di successo se l’intervento ha carattere generale.

Al riguardo la tassazione dei consumi è meno distorsiva di quella del lavoro. La “svalutazione fiscale”, ovvero lo spostamento della tassazione dal lavoro sui consumi (o sulla proprietà), dovrebbe avere maggiori effetti a breve termine.

Altro sistema per aumentare la pressione fiscale è la riduzione delle agevolazioni fiscali. Per esempio la riduzione delle aliquote IVA agevolate ha un effetto diretto sulla spesa pubblica ma incide anche direttamente sul potere d’acquisto della classe sociale svantaggiata, in quanto le aliquote ridotte si applicano, ad esempio, ai beni alimentari e al settore abbigliamento.

Quanto alla tassazione che riduce le esternalità, tradizionalmente si fa riferimento alla c.d. carbon tax, ma studi recenti hanno sottolineato come la tassazione delle transazioni finanziarie è più efficace tanto da essere definita financial pollution.

La fiscalità immobiliare inoltre è meno distorsiva di altre forme impositive.

La lotta all’evasione fiscale, infine, risponde a finalità di equità.

Nel complesso la strategia fiscale deve prendere in considerazione gli effetti negativi, almeno a breve termine, di un eccessivo inasprimento rispetto ad un incremento graduale. Tuttavia mentre un insufficiente innalzamento della pressione fiscale potrebbe minare la credibilità del Paese, un aumento costante della tassazione rischia di essere addirittura controproducente sia nei confronti del mercato che in termini di considerazione politica. Perciò non resta che affidarsi a un graduale consolidamento fiscale (in media un punto all’anno). Un altro importante contributo per bilanciare gli effetti della pressione fiscale è dato dalla politica monetaria a supporto della domanda aggregata. Idonee politiche finanziarie potrebbero facilitare la ricapitalizzazione degli istituti di credito e riattivare il canale del credito, mentre le politiche strutturali potrebbero influire positivamente sull’occupazione e sulla produttività a medio termine.

La pressione del mercato impedisce però agli Stati, come è successo in Europa, di scegliere strategie fiscali graduali. In questi casi, tenuto conto della stretta connessione tra crescita e politica fiscale, è particolarmente importante che il consolidamento fiscale sia accompagnato da adeguate politiche finanziarie. Fermo restando che il debito pubblico delle economie mature è parametrato al PIL, un sovradimensionamento del debito pubblico penalizzerebbe ulteriormente le potenzialità di crescita del sistema. Di fronte all’attualità di questa problematica assume sempre più rilievo l’efficienza del sistema (riforme del mercato del lavoro, dei prodotti e dei servizi) che si accompagna, secondo parte della dottrina, a riforme fiscali strutturali.

In poche parole è questa la ricetta adottata per contrastare la grave crisi finanziaria che dal 2008 è stata esportata in Europa. Il leit motive è ora “abbassare il debito pubblico”, ma non tutte le misure portano gli stessi benefici. Dal lato delle entrate, questo principio è stato interpretato come riduzione delle agevolazioni fiscali e della tassazione sul lavoro rispetto a quella sui consumi e sulle rendite, oltre naturalmente alla lotta all’evasione fiscale. Dal lato delle spese invece i tagli dovrebbero riguardare le spese sociali in generale, i sussidi e le spese militari.

Ma qualsiasi manovra deve tenere conto dell’equità sociale perché non è sostenibile una crescita che avvantaggia solo pochi.

[1] Walking Hand in Hand: Fiscal Policy and Growth in Advantaged Economies, di C. Cottarelli e L. Jaramillo, IMF Working Paper, May 2012

[2] cioè aumentando il prelievo fiscale e diminuendo le spese pubbliche durante la fase espansiva (inflattiva) e diminuendo il prelievo ed aumentando la spesa pubblica nella fase recessiva (deflattiva)