Autotutela esecutiva e decisoria della p.a. alla luce della disciplina contenuta nel titolo IV bis della Legge n. 241 del 1990

Autotutela esecutiva e decisoria della p.a. alla luce della disciplina contenuta nel titolo IV bis della Legge  n. 241 del 1990
Autotutela esecutiva e decisoria della p.a. alla luce della disciplina contenuta nel titolo IV bis della Legge n. 241 del 1990

Argomenti trattati:

- Nozione di autotutela, differenze tra autotutela decisoria (il procedere ex se unilaterale della Pubblica Amministrazione al fine della caducazione degli atti) ed esecutiva (ex articolo 97 Cost. in modo da attuare le decisioni già emanate, es. articolo 823, comma 2).

- Legittimo affidamento ingenerato nei confronti dei privati e modalità di svolgimento del potere amministrativo per soddisfare l’interesse pubblico per cui è richiesta l’emanazione e vigenza dell’atto del provvedimento valido anche se non previsto dal diritto positivo.

- Differenze tra l’annullamento d’ufficio e la revoca: in che cosa consistono.

- Legge n. 15/2005 e Legge n. 164/2014  hanno modificato gli articoli 21 nonies e quinquies  che hanno dato dignità positiva all’autotutela decisoria.

- La P.A. si sostituisce al giudice ed alla retroattività.

- La recente modifica per motivi sopravvenuti di pubblico interesse originario.

- È stata data una nozione più ampia di revoca con tre presupposti alternativi; opera per ragioni di merito, opportunità e convenienza.

- L’articolo 134 del codice dei contratti pubblici e la sentenza recente su diritto di recesso da parte della stazione appaltante e la non applicabilità della revoca in assenza di un presupposto del provvedimento che dispiega ancora i suoi effetti e con esecuzione già da tempo avviata.

Conclusioni: la nuova disciplina contenuta nel titolo V bis della legge 241 del 1990 consente il contenimento spesa pubblica, la deflazione contenzioso, una tutela maggiormente pregnante e satisfattiva degli interessi legittimi.

 

L’autotutela della pubblica amministrazione, insieme indistinto di poteri e facoltà di cui gode l’amministrazione stessa, è da sempre al centro dell’attento studio della giurisprudenza amministrativa. Secondo la dottrina (F. Benvenuti) è una delle tre manifestazioni dell’amministrazione accanto all’autonomia e all’autarchia.

L’autotutela può essere definita come la capacità riconosciuta dall’ordinamento di riesaminare criticamente l’attività amministrativa svolta, in modo da assicurare il più efficace perseguimento dell’interesse pubblico da realizzare a garanzia dei cittadini.

Le più recenti pronunce hanno posto particolare attenzione ai presupposti e limiti del potere amministrativo in modo da individuare le modalità di svolgimento dell’azione amministrativa di secondo grado con il legittimo affidamento ingenerato dagli atti della p.a. nei confronti dei privati.

L’atto amministrativo è indefettibilmente destinato alla realizzazione di interessi pubblici. Tale funzione deve sussistere non solo al momento della sua vigenza, ciò spiega la c.d. autotutela della p.a. consistente nel potere di tutelare da sé unilateralmente, la propria sfera d’azione. Si tratta di una nozione elaborata in dottrina e giurisprudenza, generalmente identificata nel potere dell’amministrazione, di procedere ex se, cioè alla caducazione dei propri atti, ab origine illegittimi e/o inopportuni, o divenuti inopportuni.

Sentenze più recenti hanno ricercato un punto di equilibrio tra il potere amministrativo di “tornare sui propri passi” ed il legittimo affidamento ingenerato nei privati, con arresti pretori riguardanti le ipotesi di autotutela decisoria positivizzate: l’annullamento d’ufficio e la revoca.

L’autotutela esecutiva consiste nel complesso di attività volte a tutelare le decisioni già emanate dalla amministrazione, ed è strumentale alla concreta attuazione dei precetti. Ad esempio, l’ordine di rilascio, ai sensi dell’articolo 823, comma 2 del codice civile, quale provvedimento di autotutela esecutiva che l’amministrazione è tenuta ad adottare per rientrare in possesso di un bene demaniale abusivamente detenuto da un privato.

L’autotutela esecutiva deve essere attribuita alla p.a. da una disposizione di legge specifica che le consente di poter agire in via immediata e diretta per attuare i propri provvedimenti.

L’articolo 21 ter della Legge 241 del 1990 e successive modificazioni integrative detta una disposizione generale che prescrive la necessità della previsione normativa per i singoli casi di autotutela esecutiva. Nei casi e con le modalità stabilite dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato. Qualora l’interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all’esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge. L’autotutela decisoria, attuata attraverso l’emanazione di una decisione amministrativa con cui la p.a. può riesaminare, annullare e rettificare gli atti dalla stessa adottati, avviando così un procedimento di secondo grado, si fonda sull’articolo 97 della Costituzione ed in teoria non avrebbe bisogno di una disposizione legislativa ad hoc per poter essere esercitata.

L’annullamento d’ufficio del provvedimento viziato costituisce una delle più tipiche espressioni del potere di autotutela tradizionalmente considerato insito nella medesima potestà autoritativa che ha legittimato l’adozione dell’atto da rimuovere, è stato ritenuto valido,anche quando non era previsto dal diritto positivo. È finalizzato alla eliminazione di un atto illegittimo ed alla contestuale soddisfazione di un interesse pubblico, preminente su quello privato ed alla conservazione del provvedimento.

Tuttavia è intervenuta la legge a dare un fondamento normativo a tale potere, anche se la previsione ha carattere generale.

Le tradizionali regole poste in tema di autotutela della p.a. sono state codificate con la Legge n. 15 del 2005 che ha introdotto nel testo della Legge 241 l’articolo 21-quinquies.

Gli articoli quinquies e nonies della Legge n. 241 del 1990 hanno conferito dignità positiva all’autotutela decisoria di secondo grado nella duplice forma della revoca e dell’annullamento.

L’annullamento d’ufficio è una deviazione rispetto al normale regime dei poteri giuridici. Ogni soggetto, infatti, ha la possibilità di far accertare l’illegittimità dei propri provvedimenti e, quindi, rimuovere i loro effetti.

Il privilegio consiste sia nel fatto di potere far valere l’illegittimità dei propri atti, sostituendosi al giudice, sia nella retroattività, che distingue il potere di annullamento dal potere di revoca.

L’annullamento deve essere esercitato entro un termine ragionevole, a condizione che sussista un interesse pubblico alla rimozione dell’atto dal mondo giuridico e che tale interesse pubblico sia prevalente rispetto agli interessi dei destinatari dell’atto stesso e a quelli degli eventuali controinteressati. L’articolo 21 quinquies della Legge 241 del 1990 è stato rimodificato recentissimamente dalla Legge 164 del 2014 dopo la novella del 2005. In tale contesto si afferma che, per sopravvenuti motivi di interesse originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto da legge; la revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti.

Il comma 1 bis specifica che, ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida sui rapporti negoziali, l’indennizzo liquidato dalla amministrazione agli interessati è parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico. La limitazione normativa del ristoro al solo “danno emergente”, con esclusione del “lucro cessante” è conforme al prevalente orientamento della dottrina e giurisprudenza e rievoca la distinzione tra “ risarcimento” ed “ indennizzo”: mentre il primo presuppone un fatto illecito produttivo di danno, ristorabile ai sensi degli articoli 1223 e 2056 del codice civile, il secondo postula un atto lecito, consentito dall’ordinamento, pur se produttivo di danno che, appunto, in quanto “danno da atto lecito” non è suscettibile di ristoro integrale. Si può aggiungere che l’articolo 21-quinquies richiamando l’indennizzo ha inteso disciplinare solo le conseguenze della revoca legittima, lasciando impregiudicata la possibilità per il privato che si ritenga leso dal provvedimento di revoca illegittima, di attivare il generale rimedio risarcitorio di cui all’articolo 2043 del codice civile e di ottenere il ristoro del danno integrale, se ricorrono gli elementi costitutivi della responsabilità aquilana.

In buona sostanza, con l’entrata in vigore dell’articolo 21 quinquies della Legge 241 del 1990, aggiunto dall’articolo 14 Legge n. 15 del 2005, il legislatore ha accolto una nozione ampia di revoca, prevedendo tre presupposti alternativi che legittimano l’adozione del provvedimento; per sopravvenuti motivi di interesse; per mutamento della situazione di fatto; a seguito di una nuova violazione dell’interesse pubblico originario (c.d. jus poenitendi) in assenza di elementi nuovi.

Il provvedimento di revoca, peraltro, deve necessariamente avere ad oggetto un provvedimento ad efficacia durevole o istantanea, che non abbia ancora esaurito i suoi effetti quando l’Amministrazione decide di intervenire in autotutela, tanto che l’atto determina, per espressa previsione di legge, l’inidoneità del provvedimento a produrre ulteriori effetti. La revoca opera per ragioni di merito, vale a dire di opportunità e convenienza, con efficacia ex nunc, a differenza dell’annullamento d’ufficio, previsto dall’articolo 21 nonies della Legge 241 del 1990, che opera per vizi di legittimità e con efficacia ex tunc.

Sotto altro profilo, può rilevarsi che se la ragione per la quale l’amministrazione decide di ritirare l’atto in autotutela è riconducibile al momento della sua emanazione, adotta un provvedimento di annullamento; se invece, la ragione dell’autotutela è sopravvenuta all’emanazione dell’atto in prime cure adottato, l’Amministrazione emana un provvedimento di revoca. Quest’ultima non è senza conseguenze per la p.a.; impedisce al provvedimento di produrre ulteriori effetti ma comporta per l’amministrazione l’obbligo di indennizzo di eventuali pregiudizi ai soggetti degli stessi interessati. L’intervento legislativo della Legge n.15 del 2005 non sembra avere comunque eliminato le zone d’ombra che da sempre caratterizzano il provvedimento di revoca, pur risolvendo il problema del “fondamento” del potere di revoca. Ciò è stato possibile dando veste normativa all’orientamento della dottrina più tradizionale che ammetteva un potere generale di ritiro degli atti amministrativi in capo alla p.a., diversamente dall’orientamento che riteneva che un generale e illimitato potere di revoca avrebbe dovuto ritenersi incompatibile con le posizioni dei destinatari del provvedimento originario.

A tal punto si rende necessario esaminare in che modo si coordina la norma riguardante la “revoca del provvedimento amministrativo” con la disciplina dettata da Codice dei contratti.

La norma cerniera è costituita dall’articolo 2, comma 3 il quale dispone che “ per quanto non espressamente previsto nel presente codice, le procedure di affidamento e le altre attività amministrative in materia di contratti pubblici si espletano nel rispetto delle disposizioni sul procedimento amministrativo di cui alla Legge 7 agosto 1990 n.241 e successive modificazioni ed integrazioni” ciò che appare immediatamente evidente è il rispetto sia dei “principi” che delle disposizioni puntali ed analitiche della L. 241 del 1990.

Si è ritenuto in dottrina che la Legge n. 241, come anche le disposizioni del codice civile valgano in via sussidiaria; in tal modo si ribadisce la natura “speciale” del Codice e si consente, in via interpretativa, di stabilire la prevalenza dei principi di cui all’articolo 2 del Codice. Il richiamo alla legge sul procedimento amministrativo è circoscritto alla “procedure di affidamento e alle altre attività amministrative in materia di contratti pubblici”, mentre il codice civile vale quale norma sussidiaria nell’ambito dell’“attività contrattuale”.

Adesso andiamo ad esaminare come si coordinano le disposizioni della legge sul procedimento amministrativo e, in particolare, l’articolo 21-quinquies con il Codice dei contratti, nei casi specifici di “revoca del bando” e di “revoca dell’aggiudicazione”, con gli opportuni “distinguo” e con l’analisi di casi pratici, anche oggetto dell’attento vaglio giurisprudenziale. L’articolo 11 del Codice disciplina le fasi delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, in una ordinata scansione procedimentale e temporale, conferendo dignità normativa al “procedimento ad evidenza pubblica”. Si tratta di una serie di atti che hanno natura di “atti amministrativi”, in quanto espressione della potestà pubblicistica finalizzata alla scelta del miglior contraente, sebbene, come afferma il Consiglio di Stato nell’ordinanza n. 3355 del 2004, per un fenomeno di “pluriqualificazione giuridica” della fattispecie, la medesima sequenza procedimentale è suscettibile di essere qualificata in termini privatistici, quale procedimento di formazione dell’“accordo negoziale”.

In questa prospettiva il bando viene qualificato come “invito ad offrire” o “offerta al pubblico”, la domanda di partecipazione alla gara come “proposta” contrattuale e l’aggiudicazione come “accettazione della proposta” che perfeziona l’accordo.

Nell’articolo 11 la fase privatistica della stipula del contratto è oggi chiaramente contrapposta a quella pubblicistica della “scelta del contraente”: la novità più rilevante è proprio la netta distinzione delle due fasi; così anche il comma 9 dell’art. 11 fa riferimento alla possibilità di revoca.

Andiamo ora ad analizzare le ipotesi di revoca del bando, in modo da rapportarle a quelle di revoca dell’aggiudicazione. È da premettere che con l’adozione del bando, la funzione di ponderazione degli interessi cede il passo alla diversa funzione di accertamento del possesso dei requisiti prescritti dalla “lex specialis” e di giudizio sul merito tecnico delle offerte.

L’articolo 64 del Codice disciplina il bando di gara prescrivendone il contenuto; il bando di gara è il primo atto del procedimento ad evidenza pubblica. Se la natura di atto amministrativo o di provvedimento generale rende possibile l’impugnazione del bando, sarà possibile anche la “revoca” da parte della stazione appaltante che lo ha adottato. La giurisprudenza in proposito esclude che il giudice amministrativo possa disporre la disapplicazione del bando che non sia stato impugnato; a differenza dei regolamento e degli atti che hanno natura normativa.

In questo contesto l’Amministrazione può certamente intervenire in autotutela, revocando il bando laddove ricorrano le ipotesi dell’articolo 21-quinquies, con gli opportuni adattamenti.

Rientra nel potere discrezionale dell’amministrazione disporre la revoca del bando di gara e degli atti successivi, laddove sussistano concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione della gara: ad esempio, le ragioni tecniche nell’organizzazione del servizio, la volontà di provvedere in autoproduzione e non mediante esternalizzazione, sono tutti profili attinenti al merito amministrativo.

Il Consiglio di Stato, in un caso esaminato di recente, ha affermato che la scelta del Comune di Roma di procedere alla revoca dell’appalto originariamente indetto, per la necessità di ampliare il raggio di intervento della manutenzione e gestione di vaste aree di verde pubblico trascurate dal precedente bando, è fondata su una nuova valutazione dell’interesse pubblico, all’esito di una più approfondita analisi di tutti gli aspetti organizzativi, gestionali e funzionali del servizio. Effettivamente le scelte con le quali l’amministrazione rivede le proprie originarie determinazioni impongono nel “merito dell’azione amministrativa” e come tali si sottraggono al sindacato di legittimità, salvo che non siano viziate da macroscopici vizi di irragionevolezza, irrazionalità, illogicità o travisamento dei fatti.

La responsabilità precontrattuale per la revoca di una gara di appalto può sempre ritenersi configurabile quando il fine pubblico venga attuato attraverso un comportamento obiettivamente lesivo dei doveri di lealtà, delle regole di correttezza e buona fede di cui all’articolo 1337 del codice civile, per cui è sufficiente il comportamento non intenzionale o meramente colposo della parte che senza motivo ha eluso le aspettative della controparte.

Anche dopo l’avvio della procedura di scelta del contraente la p.a. conserva il potere di revocare la gara, per documentate e motivate esigenze di interesse pubblico, consistenti pure in un diverso apprezzamento dei medesimi presupposti già considerati, esigenze in ragione delle quali sia evidente l’inopportunità o comunque l’inutilità della prosecuzione della gara stessa.

In altri casi è stata riconosciuta la responsabilità precontrattuale dell’ amministrazione nell’ipotesi in cui l’interruzione del procedimento derivi dalla colpevole negligenza nella stesura del bando di gara da parte della stazione appaltante; in tal caso l’erronea formulazione delle regole del bando integra la violazione del dovere di correttezza e buona fede, in quanto espressione di superficialità, scarsa perizia e competenza nella predisposizione della normativa di gara.

La possibilità di esercitare  il potere di autotutela decisoria è riconosciuta anche nella fase procedurale che si colloca tra il bando e l’aggiudicazione con riferimento all’articolo 48 del Codice che disciplina il controllo sul possesso dei requisiti, prevedendo le c.d. “verifiche a campione”, con la soglia quantitativa minima del 10% di offerte da verificare, dopo l’esaurimento della fase di riscontro formale relativa all’immissione dei concorrenti in gara e prima di procedere all’apertura delle buste contenenti le offerte.

Il Consigli di Stato, con sentenza n. 1885 del 2005, ha chiarito che la disposizione dell’articolo 10, comma 1-quater della Legge 109 del 1994 ed ora dell’articolo 48 del Decreto Legislativo. 163 del 2006, prevede una forma di “controllo c.d. ordinario” sull’attendibilità delle dichiarazioni dei partecipanti, che non costituisce di per sé ostacolo all’esercizio del generale potere di riesame da parte della p.a., in un momento successivo alla conclusione del procedimento, attraverso forme di “controllo c.d. straordinario”.

Infine, l’articolo 134, comma 1, del Codice, prevede che la stazione appaltante ha il diritto di recedere in qualunque tempo dal contratto previo pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell’importo delle opere eseguite.

La giurisprudenza più recente si è occupata di una controversia il cui punto centrale è costituito dall’esame delle censure con cui la ricorrente ha dedotto che la revoca impugnata riguarderebbe un provvedimento di aggiudicazione che da tempo ha esaurito i suoi effetti a seguito della stipula del contratto di appalto, per cui, trattandosi di un provvedimento già compiutamente eseguito, sarebbe in suscettibile di essere revocato ai sensi dell’articolo 21 quinquies della Legge 241.

In altri termini, la questione fondamentale posta all’esame del Collegio concerne l’applicabilità o meno alla fattispecie del potere di recesso di cui all’articolo 134 citato che costituisce lo strumento attribuito alla stazione appaltante per sciogliersi volontariamente dal vincolo contrattuale; tale differenza ha una notevole implicazione dal punto di vista economico, ed in questo sembra essenzialmente sostanziarsi l’interesse della ricorrente, atteso che l’esercizio del potere di revoca ex articolo 21 quinquies determina che l’indennizzo debba essere parametrato al solo danno emergente. Il Collegio ha ritenuto che le censure siano  meritevoli di accoglimento e che quindi sia illegittimo, in tal caso, il potere di revoca di cui all’articolo 21 quinquies citato avendo dovuto ove del caso la stazione appaltate esercitare la facoltà di recesso di recesso ex articolo 134 del codice dei contratti pubblici, in quanto la revoca è stata adottata in assenza del suo presupposto, e cioè di un oggetto costituito da un provvedimento che continua a dispiegare i suoi effetti e l’esecuzione delle relative prestazioni è stata già a suo tempo avviata.

L’esercizio dei poteri di autotutela si rivela, in definitiva, il rimedio più utile ed efficace all’illegittimità e all’inopportunità dell’azione amministrativa, consentendo alla stessa amministrazione di intervenire sugli effetti della propria attività provvedimentale, quando la stessa, viene riconosciuta, ad un secondo esame viziata, irregolare o, comunque, incoerente con l’interesse pubblico alla cui cura risulta preordinata la funzione concretamente esercitata. Si consente altresì di perseguire gli obiettivi di contenimento della spesa pubblica, di deflazione del contenzioso e, non ultimo una tutela più pregnante  e satisfattiva degli interessi legittimi privati. 

Argomenti trattati:

- Nozione di autotutela, differenze tra autotutela decisoria (il procedere ex se unilaterale della Pubblica Amministrazione al fine della caducazione degli atti) ed esecutiva (ex articolo 97 Cost. in modo da attuare le decisioni già emanate, es. articolo 823, comma 2).

- Legittimo affidamento ingenerato nei confronti dei privati e modalità di svolgimento del potere amministrativo per soddisfare l’interesse pubblico per cui è richiesta l’emanazione e vigenza dell’atto del provvedimento valido anche se non previsto dal diritto positivo.

- Differenze tra l’annullamento d’ufficio e la revoca: in che cosa consistono.

- Legge n. 15/2005 e Legge n. 164/2014  hanno modificato gli articoli 21 nonies e quinquies  che hanno dato dignità positiva all’autotutela decisoria.

- La P.A. si sostituisce al giudice ed alla retroattività.

- La recente modifica per motivi sopravvenuti di pubblico interesse originario.

- È stata data una nozione più ampia di revoca con tre presupposti alternativi; opera per ragioni di merito, opportunità e convenienza.

- L’articolo 134 del codice dei contratti pubblici e la sentenza recente su diritto di recesso da parte della stazione appaltante e la non applicabilità della revoca in assenza di un presupposto del provvedimento che dispiega ancora i suoi effetti e con esecuzione già da tempo avviata.

Conclusioni: la nuova disciplina contenuta nel titolo V bis della legge 241 del 1990 consente il contenimento spesa pubblica, la deflazione contenzioso, una tutela maggiormente pregnante e satisfattiva degli interessi legittimi.

 

L’autotutela della pubblica amministrazione, insieme indistinto di poteri e facoltà di cui gode l’amministrazione stessa, è da sempre al centro dell’attento studio della giurisprudenza amministrativa. Secondo la dottrina (F. Benvenuti) è una delle tre manifestazioni dell’amministrazione accanto all’autonomia e all’autarchia.

L’autotutela può essere definita come la capacità riconosciuta dall’ordinamento di riesaminare criticamente l’attività amministrativa svolta, in modo da assicurare il più efficace perseguimento dell’interesse pubblico da realizzare a garanzia dei cittadini.

Le più recenti pronunce hanno posto particolare attenzione ai presupposti e limiti del potere amministrativo in modo da individuare le modalità di svolgimento dell’azione amministrativa di secondo grado con il legittimo affidamento ingenerato dagli atti della p.a. nei confronti dei privati.

L’atto amministrativo è indefettibilmente destinato alla realizzazione di interessi pubblici. Tale funzione deve sussistere non solo al momento della sua vigenza, ciò spiega la c.d. autotutela della p.a. consistente nel potere di tutelare da sé unilateralmente, la propria sfera d’azione. Si tratta di una nozione elaborata in dottrina e giurisprudenza, generalmente identificata nel potere dell’amministrazione, di procedere ex se, cioè alla caducazione dei propri atti, ab origine illegittimi e/o inopportuni, o divenuti inopportuni.

Sentenze più recenti hanno ricercato un punto di equilibrio tra il potere amministrativo di “tornare sui propri passi” ed il legittimo affidamento ingenerato nei privati, con arresti pretori riguardanti le ipotesi di autotutela decisoria positivizzate: l’annullamento d’ufficio e la revoca.

L’autotutela esecutiva consiste nel complesso di attività volte a tutelare le decisioni già emanate dalla amministrazione, ed è strumentale alla concreta attuazione dei precetti. Ad esempio, l’ordine di rilascio, ai sensi dell’articolo 823, comma 2 del codice civile, quale provvedimento di autotutela esecutiva che l’amministrazione è tenuta ad adottare per rientrare in possesso di un bene demaniale abusivamente detenuto da un privato.

L’autotutela esecutiva deve essere attribuita alla p.a. da una disposizione di legge specifica che le consente di poter agire in via immediata e diretta per attuare i propri provvedimenti.

L’articolo 21 ter della Legge 241 del 1990 e successive modificazioni integrative detta una disposizione generale che prescrive la necessità della previsione normativa per i singoli casi di autotutela esecutiva. Nei casi e con le modalità stabilite dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell’esecuzione da parte del soggetto obbligato. Qualora l’interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all’esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge. L’autotutela decisoria, attuata attraverso l’emanazione di una decisione amministrativa con cui la p.a. può riesaminare, annullare e rettificare gli atti dalla stessa adottati, avviando così un procedimento di secondo grado, si fonda sull’articolo 97 della Costituzione ed in teoria non avrebbe bisogno di una disposizione legislativa ad hoc per poter essere esercitata.

L’annullamento d’ufficio del provvedimento viziato costituisce una delle più tipiche espressioni del potere di autotutela tradizionalmente considerato insito nella medesima potestà autoritativa che ha legittimato l’adozione dell’atto da rimuovere, è stato ritenuto valido,anche quando non era previsto dal diritto positivo. È finalizzato alla eliminazione di un atto illegittimo ed alla contestuale soddisfazione di un interesse pubblico, preminente su quello privato ed alla conservazione del provvedimento.

Tuttavia è intervenuta la legge a dare un fondamento normativo a tale potere, anche se la previsione ha carattere generale.

Le tradizionali regole poste in tema di autotutela della p.a. sono state codificate con la Legge n. 15 del 2005 che ha introdotto nel testo della Legge 241 l’articolo 21-quinquies.

Gli articoli quinquies e nonies della Legge n. 241 del 1990 hanno conferito dignità positiva all’autotutela decisoria di secondo grado nella duplice forma della revoca e dell’annullamento.

L’annullamento d’ufficio è una deviazione rispetto al normale regime dei poteri giuridici. Ogni soggetto, infatti, ha la possibilità di far accertare l’illegittimità dei propri provvedimenti e, quindi, rimuovere i loro effetti.

Il privilegio consiste sia nel fatto di potere far valere l’illegittimità dei propri atti, sostituendosi al giudice, sia nella retroattività, che distingue il potere di annullamento dal potere di revoca.

L’annullamento deve essere esercitato entro un termine ragionevole, a condizione che sussista un interesse pubblico alla rimozione dell’atto dal mondo giuridico e che tale interesse pubblico sia prevalente rispetto agli interessi dei destinatari dell’atto stesso e a quelli degli eventuali controinteressati. L’articolo 21 quinquies della Legge 241 del 1990 è stato rimodificato recentissimamente dalla Legge 164 del 2014 dopo la novella del 2005. In tale contesto si afferma che, per sopravvenuti motivi di interesse originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell’organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto da legge; la revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti.

Il comma 1 bis specifica che, ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida sui rapporti negoziali, l’indennizzo liquidato dalla amministrazione agli interessati è parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico. La limitazione normativa del ristoro al solo “danno emergente”, con esclusione del “lucro cessante” è conforme al prevalente orientamento della dottrina e giurisprudenza e rievoca la distinzione tra “ risarcimento” ed “ indennizzo”: mentre il primo presuppone un fatto illecito produttivo di danno, ristorabile ai sensi degli articoli 1223 e 2056 del codice civile, il secondo postula un atto lecito, consentito dall’ordinamento, pur se produttivo di danno che, appunto, in quanto “danno da atto lecito” non è suscettibile di ristoro integrale. Si può aggiungere che l’articolo 21-quinquies richiamando l’indennizzo ha inteso disciplinare solo le conseguenze della revoca legittima, lasciando impregiudicata la possibilità per il privato che si ritenga leso dal provvedimento di revoca illegittima, di attivare il generale rimedio risarcitorio di cui all’articolo 2043 del codice civile e di ottenere il ristoro del danno integrale, se ricorrono gli elementi costitutivi della responsabilità aquilana.

In buona sostanza, con l’entrata in vigore dell’articolo 21 quinquies della Legge 241 del 1990, aggiunto dall’articolo 14 Legge n. 15 del 2005, il legislatore ha accolto una nozione ampia di revoca, prevedendo tre presupposti alternativi che legittimano l’adozione del provvedimento; per sopravvenuti motivi di interesse; per mutamento della situazione di fatto; a seguito di una nuova violazione dell’interesse pubblico originario (c.d. jus poenitendi) in assenza di elementi nuovi.

Il provvedimento di revoca, peraltro, deve necessariamente avere ad oggetto un provvedimento ad efficacia durevole o istantanea, che non abbia ancora esaurito i suoi effetti quando l’Amministrazione decide di intervenire in autotutela, tanto che l’atto determina, per espressa previsione di legge, l’inidoneità del provvedimento a produrre ulteriori effetti. La revoca opera per ragioni di merito, vale a dire di opportunità e convenienza, con efficacia ex nunc, a differenza dell’annullamento d’ufficio, previsto dall’articolo 21 nonies della Legge 241 del 1990, che opera per vizi di legittimità e con efficacia ex tunc.

Sotto altro profilo, può rilevarsi che se la ragione per la quale l’amministrazione decide di ritirare l’atto in autotutela è riconducibile al momento della sua emanazione, adotta un provvedimento di annullamento; se invece, la ragione dell’autotutela è sopravvenuta all’emanazione dell’atto in prime cure adottato, l’Amministrazione emana un provvedimento di revoca. Quest’ultima non è senza conseguenze per la p.a.; impedisce al provvedimento di produrre ulteriori effetti ma comporta per l’amministrazione l’obbligo di indennizzo di eventuali pregiudizi ai soggetti degli stessi interessati. L’intervento legislativo della Legge n.15 del 2005 non sembra avere comunque eliminato le zone d’ombra che da sempre caratterizzano il provvedimento di revoca, pur risolvendo il problema del “fondamento” del potere di revoca. Ciò è stato possibile dando veste normativa all’orientamento della dottrina più tradizionale che ammetteva un potere generale di ritiro degli atti amministrativi in capo alla p.a., diversamente dall’orientamento che riteneva che un generale e illimitato potere di revoca avrebbe dovuto ritenersi incompatibile con le posizioni dei destinatari del provvedimento originario.

A tal punto si rende necessario esaminare in che modo si coordina la norma riguardante la “revoca del provvedimento amministrativo” con la disciplina dettata da Codice dei contratti.

La norma cerniera è costituita dall’articolo 2, comma 3 il quale dispone che “ per quanto non espressamente previsto nel presente codice, le procedure di affidamento e le altre attività amministrative in materia di contratti pubblici si espletano nel rispetto delle disposizioni sul procedimento amministrativo di cui alla Legge 7 agosto 1990 n.241 e successive modificazioni ed integrazioni” ciò che appare immediatamente evidente è il rispetto sia dei “principi” che delle disposizioni puntali ed analitiche della L. 241 del 1990.

Si è ritenuto in dottrina che la Legge n. 241, come anche le disposizioni del codice civile valgano in via sussidiaria; in tal modo si ribadisce la natura “speciale” del Codice e si consente, in via interpretativa, di stabilire la prevalenza dei principi di cui all’articolo 2 del Codice. Il richiamo alla legge sul procedimento amministrativo è circoscritto alla “procedure di affidamento e alle altre attività amministrative in materia di contratti pubblici”, mentre il codice civile vale quale norma sussidiaria nell’ambito dell’“attività contrattuale”.

Adesso andiamo ad esaminare come si coordinano le disposizioni della legge sul procedimento amministrativo e, in particolare, l’articolo 21-quinquies con il Codice dei contratti, nei casi specifici di “revoca del bando” e di “revoca dell’aggiudicazione”, con gli opportuni “distinguo” e con l’analisi di casi pratici, anche oggetto dell’attento vaglio giurisprudenziale. L’articolo 11 del Codice disciplina le fasi delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, in una ordinata scansione procedimentale e temporale, conferendo dignità normativa al “procedimento ad evidenza pubblica”. Si tratta di una serie di atti che hanno natura di “atti amministrativi”, in quanto espressione della potestà pubblicistica finalizzata alla scelta del miglior contraente, sebbene, come afferma il Consiglio di Stato nell’ordinanza n. 3355 del 2004, per un fenomeno di “pluriqualificazione giuridica” della fattispecie, la medesima sequenza procedimentale è suscettibile di essere qualificata in termini privatistici, quale procedimento di formazione dell’“accordo negoziale”.

In questa prospettiva il bando viene qualificato come “invito ad offrire” o “offerta al pubblico”, la domanda di partecipazione alla gara come “proposta” contrattuale e l’aggiudicazione come “accettazione della proposta” che perfeziona l’accordo.

Nell’articolo 11 la fase privatistica della stipula del contratto è oggi chiaramente contrapposta a quella pubblicistica della “scelta del contraente”: la novità più rilevante è proprio la netta distinzione delle due fasi; così anche il comma 9 dell’art. 11 fa riferimento alla possibilità di revoca.

Andiamo ora ad analizzare le ipotesi di revoca del bando, in modo da rapportarle a quelle di revoca dell’aggiudicazione. È da premettere che con l’adozione del bando, la funzione di ponderazione degli interessi cede il passo alla diversa funzione di accertamento del possesso dei requisiti prescritti dalla “lex specialis” e di giudizio sul merito tecnico delle offerte.

L’articolo 64 del Codice disciplina il bando di gara prescrivendone il contenuto; il bando di gara è il primo atto del procedimento ad evidenza pubblica. Se la natura di atto amministrativo o di provvedimento generale rende possibile l’impugnazione del bando, sarà possibile anche la “revoca” da parte della stazione appaltante che lo ha adottato. La giurisprudenza in proposito esclude che il giudice amministrativo possa disporre la disapplicazione del bando che non sia stato impugnato; a differenza dei regolamento e degli atti che hanno natura normativa.

In questo contesto l’Amministrazione può certamente intervenire in autotutela, revocando il bando laddove ricorrano le ipotesi dell’articolo 21-quinquies, con gli opportuni adattamenti.

Rientra nel potere discrezionale dell’amministrazione disporre la revoca del bando di gara e degli atti successivi, laddove sussistano concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione della gara: ad esempio, le ragioni tecniche nell’organizzazione del servizio, la volontà di provvedere in autoproduzione e non mediante esternalizzazione, sono tutti profili attinenti al merito amministrativo.

Il Consiglio di Stato, in un caso esaminato di recente, ha affermato che la scelta del Comune di Roma di procedere alla revoca dell’appalto originariamente indetto, per la necessità di ampliare il raggio di intervento della manutenzione e gestione di vaste aree di verde pubblico trascurate dal precedente bando, è fondata su una nuova valutazione dell’interesse pubblico, all’esito di una più approfondita analisi di tutti gli aspetti organizzativi, gestionali e funzionali del servizio. Effettivamente le scelte con le quali l’amministrazione rivede le proprie originarie determinazioni impongono nel “merito dell’azione amministrativa” e come tali si sottraggono al sindacato di legittimità, salvo che non siano viziate da macroscopici vizi di irragionevolezza, irrazionalità, illogicità o travisamento dei fatti.

La responsabilità precontrattuale per la revoca di una gara di appalto può sempre ritenersi configurabile quando il fine pubblico venga attuato attraverso un comportamento obiettivamente lesivo dei doveri di lealtà, delle regole di correttezza e buona fede di cui all’articolo 1337 del codice civile, per cui è sufficiente il comportamento non intenzionale o meramente colposo della parte che senza motivo ha eluso le aspettative della controparte.

Anche dopo l’avvio della procedura di scelta del contraente la p.a. conserva il potere di revocare la gara, per documentate e motivate esigenze di interesse pubblico, consistenti pure in un diverso apprezzamento dei medesimi presupposti già considerati, esigenze in ragione delle quali sia evidente l’inopportunità o comunque l’inutilità della prosecuzione della gara stessa.

In altri casi è stata riconosciuta la responsabilità precontrattuale dell’ amministrazione nell’ipotesi in cui l’interruzione del procedimento derivi dalla colpevole negligenza nella stesura del bando di gara da parte della stazione appaltante; in tal caso l’erronea formulazione delle regole del bando integra la violazione del dovere di correttezza e buona fede, in quanto espressione di superficialità, scarsa perizia e competenza nella predisposizione della normativa di gara.

La possibilità di esercitare  il potere di autotutela decisoria è riconosciuta anche nella fase procedurale che si colloca tra il bando e l’aggiudicazione con riferimento all’articolo 48 del Codice che disciplina il controllo sul possesso dei requisiti, prevedendo le c.d. “verifiche a campione”, con la soglia quantitativa minima del 10% di offerte da verificare, dopo l’esaurimento della fase di riscontro formale relativa all’immissione dei concorrenti in gara e prima di procedere all’apertura delle buste contenenti le offerte.

Il Consigli di Stato, con sentenza n. 1885 del 2005, ha chiarito che la disposizione dell’articolo 10, comma 1-quater della Legge 109 del 1994 ed ora dell’articolo 48 del Decreto Legislativo. 163 del 2006, prevede una forma di “controllo c.d. ordinario” sull’attendibilità delle dichiarazioni dei partecipanti, che non costituisce di per sé ostacolo all’esercizio del generale potere di riesame da parte della p.a., in un momento successivo alla conclusione del procedimento, attraverso forme di “controllo c.d. straordinario”.

Infine, l’articolo 134, comma 1, del Codice, prevede che la stazione appaltante ha il diritto di recedere in qualunque tempo dal contratto previo pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell’importo delle opere eseguite.

La giurisprudenza più recente si è occupata di una controversia il cui punto centrale è costituito dall’esame delle censure con cui la ricorrente ha dedotto che la revoca impugnata riguarderebbe un provvedimento di aggiudicazione che da tempo ha esaurito i suoi effetti a seguito della stipula del contratto di appalto, per cui, trattandosi di un provvedimento già compiutamente eseguito, sarebbe in suscettibile di essere revocato ai sensi dell’articolo 21 quinquies della Legge 241.

In altri termini, la questione fondamentale posta all’esame del Collegio concerne l’applicabilità o meno alla fattispecie del potere di recesso di cui all’articolo 134 citato che costituisce lo strumento attribuito alla stazione appaltante per sciogliersi volontariamente dal vincolo contrattuale; tale differenza ha una notevole implicazione dal punto di vista economico, ed in questo sembra essenzialmente sostanziarsi l’interesse della ricorrente, atteso che l’esercizio del potere di revoca ex articolo 21 quinquies determina che l’indennizzo debba essere parametrato al solo danno emergente. Il Collegio ha ritenuto che le censure siano  meritevoli di accoglimento e che quindi sia illegittimo, in tal caso, il potere di revoca di cui all’articolo 21 quinquies citato avendo dovuto ove del caso la stazione appaltate esercitare la facoltà di recesso di recesso ex articolo 134 del codice dei contratti pubblici, in quanto la revoca è stata adottata in assenza del suo presupposto, e cioè di un oggetto costituito da un provvedimento che continua a dispiegare i suoi effetti e l’esecuzione delle relative prestazioni è stata già a suo tempo avviata.

L’esercizio dei poteri di autotutela si rivela, in definitiva, il rimedio più utile ed efficace all’illegittimità e all’inopportunità dell’azione amministrativa, consentendo alla stessa amministrazione di intervenire sugli effetti della propria attività provvedimentale, quando la stessa, viene riconosciuta, ad un secondo esame viziata, irregolare o, comunque, incoerente con l’interesse pubblico alla cui cura risulta preordinata la funzione concretamente esercitata. Si consente altresì di perseguire gli obiettivi di contenimento della spesa pubblica, di deflazione del contenzioso e, non ultimo una tutela più pregnante  e satisfattiva degli interessi legittimi privati.